L’”Infinito” a due passi da casa

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Lucio Sotte, Direttore di Olos e Logos

Ormai a casa mia ci sono abituati ed i miei figli ci scherzano sopra: «papà è andato a “fare le visioni”!» si dicono “alludendo ironicamente” tra loro quando non mi trovano in casa al mattino presto o al tramonto.

No! State tranquilli! Non sono diventato all’improvviso un “vate” , non sono un “chiaroveggente”, non posseggo l’arte della “divinazione” né, tantomeno, soffro di “allucinazioni visive”!

Quelle che i miei chiamano “visioni” sono solo il tempo che dedico a rubare con lo sguardo le meraviglie del panorama delle nostre colline dipinte davanti agli occhi quando mi affaccio dalla siepe del cassero di Montecosaro verso la vallata del Chienti ed i Sibillini, da quella del girfalco di Fermo verso il mare Adriatico o dalle mura da “bora” di Montelupone verso Recanati, Loreto ed il monte Conero.

Le nostre terre sono un susseguirsi di questi panorami che si disegnano mutevolmente davanti ai nostri occhi quando percorriamo le strade che corrono sui crinali delle colline dando delle “visioni” che hanno un solo difetto: occorrerebbe sedere sempre nel posto del passeggero e non in quello di guida perché distolgono troppo lo sguardo!

Ho imparato da ragazzo, pedalando in bicicletta, ad osservare il nostro “cielo” e la nostra “terra” e a sbalordirmi dei loro colori, dei mutevoli paesaggi, ad indovinare il nome dei borghi che si stagliano sulle cime dei colli.

Le Marche – ma in particolare la nostra provincia maceratese – sono un seguito ininterrotto di “visioni” che commuovono il cuore perché mescolano due elementi apparentemente opposti e contrastanti: la natura selvaggia che ha forgiato nei millenni le montagne, le vallate e le colline e la mano amorevole e paziente dell’uomo che le ha disegnate arroccando i paesi sulle cime, solcandole delle strade diritte di fondo valle o di quelle serpeggianti lungo un fosso o contorte nelle salite e discese dei tornanti che talvolta sembrano unire e qualche altra dividere i terreni, i filari delle culture, i contorni alberati dei campi.

Credo che non ci sia per me un tempo migliore per rilassarmi di quei minuti in cui riesco a cogliere le sfumature di questi panorami che oramai conosco perfettamente a memoria e che pure non cessano di stupirmi, di sbalordirmi ogni volta che li osservo, come fosse la prima.

Al mattino, quando il sole si affaccia appena dal bordo del mare all’orizzonte, si dipingono di luce rosata e fresca che rompe l’oscurità, al tramonto, quando il sole scende lentamente dietro alle montagne, si infiammano di rosso, di ocra e fucsia schizzando il viola, l’indaco e l’azzurro del cielo.

Ci sono le colline della primavera che abbagliano lo sguardo di verde, quelle gialle a cavallo della mietitura, bruciate dal sole dell’estate e le colline secche, polverose di agosto.

Ci sono le colline dell’autunno, umide, sfocate dalla bruma che sale dal fondovalle e quelle nitide, brillanti dei giorni rigidi dell’inverno, illuminate dalla luce fredda e tagliente.

«Sempre caro mi fu quest’ermo colle e questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte in guardo esclude…». Probabilmente questi versi di Leopardi non sarebbero mai stati scritti senza l’ispirazione della vista della campagna maceratese.

Ogni vento porta con sé i suoi colori e li pennella sui campi, sui terreni e lungo le pendici dei monti. Lo scirocco tinge di grigio le nubi e di piombo l’azzurro del cielo, garbì o montanaccio – cioè il libeccio – è invece luminoso e nervoso e dipinge di argento le pendici dei campi rivoltando le foglie d’ulivo. Quando tira di bora, il cielo incredibilmente terso ed azzurro è animato da schizzi di nubi bianche che nascono in mare a Nord-Est e corrono veloci dietro alle montagne.

«…Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo…ove per poco il cor non si spaura».

I crinali dei colli si sfumano frastagliati come onde che si rincorrono fino a confondersi e accompagnano il nostro sguardo a cercare oltre il confine del cielo che ai miei occhi ed al mio cuore suggerisce il “Mistero” al di là dell’orizzonte. Il “Mistero” cui umilmente inginocchiarsi perché è ovvio che l’infinito non può entrare dentro il nostro piccolo cervello se non per metafora; sarebbe come tentare di svuotare l’oceano avendo a disposizione un cucchiaio o un secchio!

Ci sono tanti punti di osservazione dei nostri panorami: il fondovalle, i crinali dei colli, le cime delle montagne ma anche l’Adriatico stretti tra cielo in alto e schiume delle onde.

Ho ancora negli occhi la vista della nostra costa dal mare in un giorno di bora in cui con Marco e Gianni abbiamo traversato a vela a metà agosto l’Adriatico facendo una volata da Pola a Civitanova. Siamo salpati di tardo pomeriggio e col vento teso da Nord-Est abbiamo veleggiato al traverso per tutta la notte. La mattina dopo, alle prime luci dell’alba, eravamo già in prossimità delle nostre rive.

L’aria profumata, così tersa e pulita faceva cogliere in lontananza particolari in tante altre occasioni indistinguibili: tutti i campanili e le chiese, tutte le torri, la Madonnina di Loreto, i borghi arroccati sotto i Sibillini e mille case di campagna disperse in mille fazzoletti di campi variopinti.

Mentre gli occhi scorrevano questa incredibile “visione” cercando di dare un nome ad ogni colle, ad ogni paese… dopo Potenza Picena e Montelupone, al di là della vallata lo sguardo si fissava su Recanati e allora «…io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno e le morte stagioni, e la presente e viva, e ‘l suon di lei. Così tra questa infinità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare

 

 

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