Gli estremi della parabola: i patriarchi della memoria

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Riccardo Bosi*

*pediatra di famiglia

Affascinato dalla varietà delle culture e impegnato in situazioni di disagio dell’infanzia, crede in un approccio antropologico e inter-culturale alle sfide della sua professione – Roma

Osservando dei neonati in particolare le teste, le teste una accanto all’altra come si vedono al Nido, in maternità, non si può non riconoscere che sono tutte molto simili. La stessa circonferenza, le fontanelle aperte, i capelli lanuginosi, qualche bozza o asimmetria di troppo.

Un lattante di pochi mesi è venuto alcuni giorni fa nel mio studio portato dal nonno: i genitori si scusano, ma sa, lavorano sempre, così sono venuto io…. È impacciato. Ci sorridiamo. È un nonno di campagna, abbronzato, rughe, le mani callose. Stavolta è la somiglianza della testa del vecchio con quella del bambino che balza agli occhi. In entrambe – pelate – campeggiano come fari due occhi limpidi, d’un azzurro di cielo d’alba il primo, di un celeste lacrimoso, tenero e antico il secondo. Si somigliano davvero tanto.

Teste simili, certo, eppure ovvie le enormi differenze di contenuto di quelle due scatole craniche. Differenze – mi dico – custodite nelle pieghe delle meningi, nascoste chissà dove tra le circonvoluzioni della corteccia. 

Mentre visitavo il bimbo, e valutavo – erano lì per questo – l’integrità delle competenze neuro-motorie, mi sono sorpreso a riflettere a lungo. La mente parte. La sera stessa avevo già messo giù – di getto – alcune idee nel mio taccuino “di viaggio”. Eccole. Pretesa di teorizzare? Per carità. Piuttosto una provocazione a me stesso. Mai perdere la capacità di sapersi stupire dell’ovvio, perché l’ovvio sovente cela il mistero. Ecco tutto. Il mistero degli estremi della parabola, ad esempio. Mistero che è nel contempo miracolo, così discreto che avviene sotto i nostri occhi ogni giorno e non ce ne accorgiamo. Milioni di volte. Da milioni di anni. Dovunque.

La vita va dal totalmente elastico, modificabile, leggero, plastico, idratato, intercambiabile, originale, iperattivo dell’età del bambino piccolo fino alla rigidità, fissità, strutturazione, pacatezza, secchezza, “pesantezza”, scarsa modificabilità  dell’anziano.

Si nasce totalmente “plastici” e nel contempo “vuoti”, leggeri, “acquosi”, disponibili ad incamerare dati, a capitalizzare esperienze, a memorizzare emozioni, competenze, immagini, procedure, volti, strategie, modelli di comportamento. Si deve imparare tutto: dal linguaggio alle prassie più elementari (le prassie sono comportamenti e schemi motori), come legarsi le stringhe o dare un calcio ad un pallone; dalla gestione degli affetti e delle emozioni alla scoperta del proprio corpo, dell’esistenza, del proprio “sé”, del mondo e degli altri, fino alle scelte più decisive della vita.

Mentre il bambino è “elastico ma vuoto”, l’anziano è “rigido ma pieno”.

Ha combattuto la sua battaglia: ha fatto le sue scelte, ha imparato dai suoi errori, si è saziato dei suoi amori. Le infinite strutture cerebrali, i collegamenti neuronali, le reti di pensiero, le ragnatele della memoria, i labirinti delle emozioni, i sentieri coraggiosi delle scelte mano a mano si cristallizzano, si vetrificano, si strutturano. L’uomo comincia dalla prima infanza a “riempire” e plasmare i suoi circuiti che divengono sempre più fitti, interdipendenti, strettamente correlati tra loro. La “memoria” di tutto ciò che è avvenuto durante la vita va trovando, (anche attraverso delle operazioni di cancellazione di dati) un suo originalissimo equilibrio, va prendendo la sua “forma”, forma apparentemente invisibile eppure assai più reale ed essenziale di quella esterna, somatica (di quanto siamo belli o brutti, insomma).

Tutte queste misteriose connessioni (che “ospitano” emozioni, memoria, affetti, intelligenza) diventano col passare del tempo rami sempre più solidi, sempre più antichi, più complessi e immodificabili.

Potremmo paragonarli ad un albero che, dopo avere vissuto la stagione della crescita, il momento della gemmazione, la fioritura e l’abbondanza dei frutti, tende ad una forma definitiva. Con l’architettura dei suoi rami, con la larghezza dei suoi anelli, con la complessità delle sue radici, l’albero parla, è la voce narrante di una vita. Dopo avere ospitato uccelli di ogni tipo, salutato cieli e stagioni, sofferto gelate, mutilazioni e potature, il tronco ormai vecchio – spesso custode di secoli – rimane alfine spoglio ed inerte, patriarca della memoria.

Contorti e feriti da venti e tempeste, ma belli come coralli e unici come frattàli, anche i rami del vecchio – la linfa vitale apparentemente esaurita –  si stagliano essenziali e definitivi nel cielo. L’uomo, quell’uomo, è pronto a restituire “pieno” quel contenitore misterioso ed affascinante quale è la sua mente, ospitata ormai da un corpo cadente.

Appare “naturale” che, dopo aver vissuto infinite esperienze, conosciuto migliaia di volti, provato amori, affetti, separazioni, lutti, distacchi, gioie e dolori di ogni tipo, ad un certo punto si reclami l’infinito e l’eterno come libertà dai limiti del tempo e dello spazio.

È la vita stessa, radice ormai troppo grande, bella e ricca per poter dimorare in un vaso diventato così piccolo e fragile, che chiede di cambiare “stato”, di avere una definitiva “muta”. Non entrando più nell’involucro che l’ha contenuta – ormai fragilissima teca – manda il suo ultimo segnale.

La  visita è terminata. Colgo un dolcissimo sguardo d’amore del vecchio per il bambino. Vorrei dire tante cose, ma non c’è tempo, non è il caso, la gente fuori aspetta, altri bambini piangono. “Addio nonno, ma lo sa che lei è prezioso per suo nipote, lei è come un albero secolare, potrebbe insegnargli tante cose…la giusta forma dei rami, l’importanza dei frutti, o la bellezza del poter fare ombra”. Mi legge nel pensiero? Non lo so, ma incrocio un suo ultimo sguardo così limpido e grato che mi fa piacere pensare di sì.

 

 

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