L’ecografia e lo studio del fegato

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Cesare Bartolucci*

Nell’ormai quarantennale storia dell’ecografia lo studio del fegato è uno degli argomenti che di più ha sollecitato l’attenzione dei ricercatori.

Affascinava molto poter riuscire a valutare in modo indolore le condizioni di un organo che in passato era visibile (e non in toto) tramite una laparotomia esplorativa, quindi con l’apertura chirurgica dell’addome.

Oggi l’ecografia occupa un posto di primo piano nella diagnostica epatologica, senza nulla togliere al ruolo primario e fondamentale dell’anamnesi e dell’esame obiettivo.

L’indagine ecografica è semplice, veloce, ripetibile. Non utilizza radiazioni ionizzanti, ma ultrasuoni.

L’identificazione delle lesioni avviene infatti per “contrasto” di ecostruttura.

L’apparecchiatura ha costi relativamente modesti, può essere multidisciplinare e pertanto può essere utilizzata da più specialisti.

Il successo diagnostico è subordinato alla costituzione del paziente, ai suoi aspetti clinici, alla sua collaborazione attiva ed alla presenza di obesità e meteorismo.

Non a caso la comunità epatologica giapponese nel 2008 ha raccomandato l’uso della RMN in “soccorso” all’ecografia per superare tali limitazioni.

L’ecografia fornisce indicazioni sulle dimensioni e sull’ecostruttura del fegato.

Una delle alterazioni di più frequente riscontro è la steatosi epatica generata da un’anomalia acquisita del metabolismo intermedio con deposizione più o meno massiva di trigliceridi negli epatociti.

L’eziologia è varia ed è prevalentemente legata ai ritmi ed agli stili di vita imposti dai nostri tempi (abuso di alcool, di farmaci, disordini alimentari, diabete, sindrome metabolica, obesità, etc.).

Trattandosi di una condizione reversibile l’ecografia è molto utile nel follow up della steatosi.

Per quanto concerne le altre epatopatie diffuse l’ultrasonografica evidenzia l’epatomegalia, lo stato delle strutture vascolari e l’eventuale splenomegalia. Il valore diagnostico dello studio del parenchima è piuttosto limitato non registrandosi spesso significative alterazioni strutturali nelle epatiti acute.

Ben diverso è il discorso relativo alle patologie croniche.

Nel caso delle epatiti croniche e della cirrosi gli echi parenchimali non sono più distribuiti in maniera fine e regolare, ma in modo ispessito ed irregolare, venendosi a configurare il quadro del “coarse pattern” (parenchima grossolano) incisivamente e sinteticamente così definito dagli anglossassoni.

In tale situazione è insoddisfacente la capacità dell’ecografia di evidenziare la comparsa di piccoli noduli tumorali insorti su cirrosi. (Le percentuali oscillano dal 10 al 14 per cento nei lavori di Dodd del 1992, di Kim del 2001, di Bennet del 2002).

Le ditte produttrici stanno investendo molto nella ricerca per migliorare la tecnologia anche in considerazione che l’epatocarcinoma su cirrosi rappresenta il 4% delle neoplasie nel mondo e che è più frequentemente associato a cirrosi post epatitica piuttosto che a cirrosi alcolica.

Una “consolazione”, se così la si può chiamare, è che nel futuro l’incidenza dell’epatite C post trasfusionale dovrebbe fortemente ridursi, almeno stando ad un lavoro di TABOR del 1989 che stimava in trenta anni il tempo necessario per raggiungere un traguardo così importante.

L’ecografia del fegato consente la visualizzazione di lesioni intraparenchimali isolate o multiple.

Le più frequenti sono rappresentate delle cisti biliari, dagli angiomi, dalle calcificazioni, dalle aree di iperplasia nodulare focale, dagli ascessi, dagli ematomi e dalle neoplasie primitive o secondarie.

Le linee guida dell’AISF (Associazione Italiana Studio Fegato) affermano che “la visualizzazione di lesioni di 1 centimetro non è la regola e deve essere piuttosto considerata occasionale”.

In un’elevata percentuale dei casi le lesioni propongono quadri ecografici tipici così da permettere una diagnosi di certezza.

Esistono comunque problemi di diagnosi differenziale laddove non sia consentita una precisa distinzione con la sola ecografia.

Il ricorso a tecniche “pesanti” come la RMN o la TAC è quasi sempre risolutivo.

Eseguendo un’ecografia del fegato non ci si può esimere dall’esplorazione della colecisti e delle vie biliari.

Per quanto riguarda queste ultime gli ultrasuoni forniscono informazioni sul loro calibro e sulla presenza di calcolosi endoluminale.

A livello colecistico esiste una corposa letteratura riguardante la litiasi biliare.

Grazie all’ecografia è possibile individuare i calcoli già sul nascere quando ancora si parla di microlitiasi o addirittura di fango biliare o persino di bile densa.

La non invasività e la ripetibilità dell’esame permettono di controllare l’evoluzione della terapia litolitica o l’insorgere di complicazioni come l’idrope o l’empiema.

Oggi si è unanimemente d’accordo nel ritenere che l’ecografia debba rappresentare il primo esame nell’approccio alle patologie della cistifellea essendo in grado di visualizzare oltre ai calcoli anche le patologie di parete come le colecistiti acute e croniche, le colecistosi ed i tumori.

Pur essendo una metodica con molti aspetti vantaggiosi non bisogna dimenticare che la sonda ecografica rappresenta la “prolunga” delle mani del medico e che come tale va impiegata nell’ambito di un piu’ ampio ragionamento clinico.

4 immagini ecografiche di casi di calcolosi della colecisti e di evidenziazione della vena porta e delle vene sovraepatiche

 

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