Monismo e dualismo

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Aldo Stella*

La storia del nostro  pensiero occidentale, ma forse anche del pensiero orientale – che tuttavia conosco di meno –, è contrassegnata dalla consapevolezza della necessità di intendere adeguatamente l’Uno.

Questo Uno va inteso come qualcosa che è in sé “indistinto” oppure, invece, come qualcosa che è in sé articolato e, dunque, “distinto”? Questo è il grande tema. Le concezioni del “monismo” e del “dualismo”, se cerchiamo di cogliere l’essenza concettuale di questa loro contrapposizione, potrebbero venire ridotte a questo problema: l’Uno è un Uno in cui le differenze naufragano, vengono meno, spariscono si dissolvono, oppure è un sistema, ossia è una unità all’interno della quale si collocano le molteplici differenze non più irrelate, ossia distanti, ma intrinsecamente connesse e vincolate?

Nella concezione eleatica, l’Essere di Parmenide è precisamente un modo di intendere l’Uno e di intenderlo “in senso forte”, come quell’absolutum, che, proprio perché assoluto, è sciolto da ogni relazione, è sciolto da ogni vincolo. Si badi. È sciolto da ogni vincolo ad altro da sé; se è assoluto, infatti, non ammette qualcosa di diverso da sé, è il tutto abbracciante, è il “puro” essere, così che ciò che è altro dall’essere è nulla, dunque non è, perché solo l’assoluto è. Ma, inoltre, non prevede una relazione al suo interno.

Quindi, non c’è una differenza dall’assoluto, un altro rispetto all’assoluto, ma, più radicalmente, non c’è neanche una differenza nell’assoluto, perché, se l’assoluto fosse in sé distinto, diverso dalle sue componenti, sarebbe in relazione con queste sue componenti e cesserebbe di essere l’absolutum, sciolto da relazioni, sciolto da vincoli.

Ebbene, questo è il modo di intendere l’Assoluto in senso forte, tale che solo l’assoluto può venire pensato come essente. Proprio per questa ragione, e cioè per la ragione che solo l’assoluto veramente è, Parmenide diceva che il mondo, l’esperienza, il divenire, la molteplicità sono un errore dei sensi. Il  mondo è apparenza, inganno, non essere, che contraddittoriamente si presenta come essere: per questa ragione, il mondo ordinario deve essere lasciato al suo intrinseco contraddirsi, che coincide con il venir meno della pretesa da esso esibita, quella di essere la verità, di essere veramente. Platone, mosso forse da un’eccessiva tenerezza nei confronti del mondo, come avrebbe detto poi Hegel, cerca di salvare il mondo, cerca di salvare la molteplicità, e afferma che ciascun ente partecipa tanto dell’essere quanto del non essere. Questa penna, ad esempio, “è” una penna, dunque partecipa dell’essere, ma “non è” un orologio, dunque partecipa anche nel non essere.

Come si può notare, già Platone introduce la diade, la relazione tra essere e non essere, facendo in una qualche misura “essere il non essere”, cioè costruendo una contraddizione, per la quale ciò che non è viene pensato come se fosse. E tuttavia, non si può non riconoscere che solo mediante questa costruzione si riesce a “lasciar essere” il mondo, e non più solo l’Essere  inteso come Assoluto.

Con l’introduzione del concetto di “essere relativo”, accanto all’Uno si danno anche “i molti”, cioè l’esperienza. Ora, non si deve dimenticare che questa famosa dialettica Uno-molti, che caratterizza la storia del pensiero occidentale – ma non solo –, di volta in volta si è specificata, nel corso del suo evolversi, aut come valorizzazione dell’Uno contro i molti, a scapito dei molti, aut dei molti a scapito dell’Uno, come se si potesse estremizzare il discorso e pensare l’Uno, a prescindere dai molti, e i molti, a prescindere

dall’Uno.

Questa valorizzazione o dell’Uno o dei molti, nei casi in cui si è andato configurando un pensiero autenticamente raffinato, è stata intesa come necessità di ricondurre i molti all’Uno. Del resto, anche nel dire “una” molteplicità, comunque si ripropone l’Uno.

Lo stesso Platone, che pure ha introdotto il concetto di “essere” e “non essere” relativi, tuttavia tendeva poi a ricondurre all’unità dell’idea la molteplicità delle cose: l’idea del bello, per Platone, è la condizione di possibilità delle molteplici cose belle; l’idea del giusto è il fondamento delle molteplici cose giuste, e così via.  Si potrebbe dire che, per Platone, gli occhi del corpo ci propongono la molteplicità e l’occhio della mente ci consente di ricondurre la molteplicità all’Unità che dà senso ad essa.

Potremmo aggiungere che, in fondo, la stessa contrapposizione che c’è in Paolo fra la carne e lo Spirito non può non venire ricompresa nell’unità dello Spirito. Lo stesso dogma trinitario, “tre persone, una sola sostanza”, indica la necessità dell’emergere dell’Unità oltre la molteplicità, per costituirne il fondamento.

Cartesio, che è stato considerato dai nostri scienziati contemporanei il “dualista” per eccellenza – basti pensare alle accuse che gli ha rivolto Antonio Damasio nell’opera L’errore di Cartesio: l’errore sarebbe appunto quello di aver pensato la dualità di corpo e mente –, allorché intende il fondamento lo intende in forma unitaria. Il “cogito” è l’atto pensante e l’atto, per sua natura, è unitario.

Non sarà tuttavia inutile ricordare a Damasio, e a coloro che intendono fare scienza empirica e sperimentale, che conoscere scientificamente significa “analizzare” e analizzare significa scomporre. Se si intende conoscere l’individuo – ancorchè “individuo” significhi “indiviso e indivisibile” – non si può evitare di scomporlo, perché lo si vuol ridurre-ricondurre ai suoi elemeti semplici. Nel processo dell’analisi è chiaro che da un “Uno”, l’individuo appunto, non si può che ottenere una diade.

Cartesio ha definito “mente” e “corpo” le componenti di questa diade per la semplice ragione che, nell’atto stesso dello scomporre, c’è un soggetto che pone in essere la scomposizone, e che è dunque “attivo”, e un oggetto su cui la scomposizione viene compiuta e che risulta inerte e “passivo”: per questa ragione ha distinto la mente, che è attiva, dal corpo, che è passivo.

Tuttavia, Cartesio non ha mai commesso l’errore di intendere questa distinzione come separatezza, perché l’ha sempre ricomposta nell’unità del “cogito”.  All’innegabilità del “cogito” Cartesio perviene in forza del dubbio stesso: mediante il dubbio vengono meno tutte le certezze; se non che, del dubbio non si può dubitare, senza riproporlo. Che equivale a dire: non si può negare di pensare senza pensare. Il pensiero riconduce a sé anche l’altro da sé, il quale, proprio perché “pensato”, non è altro dal pensiero, ma nel pensiero.

Ecco, come si vede l’unità del pensare non è intesa nella forma di una unità monolitica, ma nella forma di una unità che si articola al suo interno: si sdoppia in un pensante e in un pensato. Hegel dirà che il concetto è “l’unità dell’unità e della non unità”, cioè il suo farsi altro a se stesso, pur rimanendo se stesso.  L’idea in sé deve farsi mondo, deve farsi molteplicità, distinzione, per poi tornare in sé, dopo aver inglobato la molteplicità e averla risolta di nuovo nell’unità dell’Idea in sé e per sé.

Hegel, non a caso, rimproverava a Schelling di intendere l’Assoluto proprio come quell’Uno indistinto in cui le differenze sono semplicemente annullate, sono state cancellate. Egli, riferendosi all’assoluto di Schelling, diceva che è “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. Il “togliersi” del finito, insomma, non può venire inteso come una “cancellazione empirica”, ma come la negazione della pretesa del finito di essere la verità, di essere cioè un “vero essere”.

Il Vero, l’Assoluto, quindi, non è l’indistinto primigenio, l’uno prima della differenziazione; questo “uno” è il presupposto, che domanda di venire superato per pervenire all’Uno che è del Concetto, il quale ricompone in sé la differenza, senza cancellarla. L’esperienza sensibile, comunque, ci testimonia che A non è non A; dunque, per quel tanto che A non é non A, dovremo riconoscere che si dà una moltepilicità.

Del resto, la diade è la forma minima in cui la molteplicità trova espressione. E allora, giunti a questo punto, ritengo fondamentale riflettere sul concetto di relazione, perché è fondamentale.

Ebbene, la relazione è precisamente quel costrutto all’interno del quale si conciliano dualità e unità. In ogni relazione, o nel modo ordinario di pensare la relazione, si configurano due termini e un nesso che li congiunge. In fondo, questo costrutto concettuale è in sé l’essenzializzazione del tema di cui noi stiamo parlando; una dualità, ma non irrelata, anche perché una dualità irrelata è una contraddizione in termini.

Dire “due”, infatti, significa dire che l’unità è stata presa due volte: se dico “due” mele, io non considero l’aspetto per il quale una non è l’altra, ma considero l’aspetto per il quale la medesima qualità, l’essere mela, si ripete due volte. Quindi, è chiaro che nel dire la “dualità” implicitamente indico anche una unità, una omogeneità che sussiste fra i termini, i quali sono due perché omogenei, confrontabili.

La relazione, insomma, non fa che sottolineare quest’aspetto di omogeneità. Se non che, la cosa interessante è il concetto di relazione sembra indiscutibile, ma non lo è veramente. In effetti, tutta la scienza moderna si occupa del concetto di relazione; la scienza, infatti, studia non le entità in sé, ma le relazioni che sussistono tra le entità, tant’è vero che la stessa entità viene scomposta nelle sue componenti elementari: l’atomo, i neutroni, i protoni e così via; è sempre una procedura per scomposizione, volta alla ricerca di quell’elemento che dovrebbe essere il mattone su cui erigere l’intero edificio del conoscere, quell’elemento che poi non risulta mai una particella, un qualcosa di materiale.

Se non che, già Platone aveva discusso il concetto ordinario di relazione e ne  aveva colto l’intrinseca problematicità.

A rigore, il concetto di relazione è in sé aporetico, se la relazione viene intesa come quel “medio” che si pone tra due estremi, cioè come costrutto mono-diadico. Se, infatti, indico gli estremi con le lettere A e B, e il medio con la lettera C, mi trovo nella necessità di dover pensare un medio che sussista tra C e A e un nuovo medio che sussista tra C e B, e così via all’infinito. Per questa ragione la relazione, così intesa, dà luogo all’aporia che è stata definita del “terzo uomo, all’infinito”.

La relazione, che sembrava il concetto fondamentale perché in grado di inglobare il due nell’uno, se pensata attentamente risulta un costrutto contraddittorio. Che sia tale lo si può cogliere anche da un altro punto di vista, più sofisticato del precedente.

Se si pensano i due termini che la costituiscono, e che possono venire indicati come A e B, non si può non rilevare che, per un verso, ciascuno dei due deve avere una propria identità, che lo distingue da quella dell’altro (poiché l’identità si pone come qualcosa di autonomo e indipendente dalla differenza, A dovrebbe venire pensato come indipendente da B, e viceversa). Non di meno, se sono in relazione, significa che l’una identità si pone aprendosi all’altra, nel senso che l’una si pone solo perché si relaziona all’altra, così che la relazione postula l’indipendenza e, insieme ma contraddittoriamente, l’indipendenza dei termini. Questo significa che, se ci si dispone dal punto di vista dell’incontraddittorio, anche la relazione come “costrutto mono-diadico” deve togliersi, affinché solo il Vero, l’incontraddittorio sia.

E questo Vero non può non essere l’Uno. Non l’Uno prima della differenziazione, bensì l’Uno che viene restituito dal superamento della differenziazione stessa.

Potremmo dire che, poiché ogni deteminazione si pone in forza del limite e poiché il limite che la determina la riferisce anche ad altra determinazione, allora ogni determinazione è “sé e il suo altro”. Ogni cosa è sé e il suo altro, perché può venire presa solo in quanto si struttura in forza dell’altro. La stessa espressione “astratto” sta ad indicare lo abs-tractum, ossia il ciò che è stato tirato fuori dal vincolo, che lo rende dipendente dalla differenza. “Concreto”, di contro, significa cum-cretum, e indica ciò che è “cresciuto insieme”. Concreta, dunque, è l’unità delle relazioni, l’unità dei rapporti, nel senso che in ogni relazione l’atto del congiungere intende pervenire ad un punto ideale in cui i congiunti siano Uno e la differenza loro sparisca.

In questo punto ideale, poiché si realizza una autentica ablatio alteritatis, un toglimento della differenza, viene meno anche la relazione, poiché viene meno la dualità.

Potremmo, per concludere, individuare tre livelli: un primo livello, che potremmo definire “percettivo-sensibile”, nel quale ogni determinazione sembra avere una sua autonomia e una sua autosufficienza (la penna è la penna ed io la posso prendere indipendentemente da qualunque altra determinazione, indipendentemente dall’orologio, indipendentemente dalla scrivania, e dal microfono e così via). Questo è il livello che ci viene attestato dalla percezione ordinaria.

Un secondo livello, che definiamo “concettuale”, nel quale si evidenzia come ogni determinazione sia intrinsecamente vincolata a tutte le altre. Non si dà, infatti, A senza la relazione a non A e la struttura relazionale del mondo altro non è che la sua struttura razionale. Non a caso, la ragione coglie i nessi, i nessi logici – causa ed effetto, per esempio – e la scienza è lo studio di queste relazioni costitutive che tessono la trama del mondo, cioè la trama dell’esperienza.

Siamo ancora in un livello nel quale l’unità è pensata come in sé differenziata, come in sé articolata, fatta di molteplici differenze: l’unità del sistema. Rispetto al livello precedente è un grande salto di qualità, perché prima ci sembrava che ogni cosa fosse indipendente da tutte le altre, ora siamo in grado di cogliere il tutto come insieme di parti, come l’unità di una molteplicità.

Tuttavia, si deve intendere anche un ulteriore livello, quello nel quale non vengono affatto cancellate le differenze, ma vengono inverate, cioè viene tolta ad ogni determinazione la pretesa di essere assoluta, indipendente da ogni altra.

Il livello ulteriore, il terzo livello, è quello nel quale si passa dalla unificazione all’unità vera e propria, all’Uno Assoluto. Ciò non significa un tornare ad un indistinto primigenio, ma un oltrepassarlo, un andare oltre rispetto ad esso. Insomma, un individuare, tornando al concetto di relazione, quel punto, che è il fine stesso del congiungere, dove il due diventa Uno. Bene, questo punto – va ribadito – non può che essere ideale, perché nel momento in cui il due diventa Uno, la relazione viene meno, scompare, ed è chiaro che noi, con gli occhi del corpo, non vedremo mai questo punto e non lo vedremo neanche con gli occhi della mente, se la mente rimane troppo attaccata al concetto di relazione. Lo coglieremo solo se saremo in grado di intendere l’incontraddittorio come condizione che rende possibile il coglimento della contraddizone e, dunque, che rende possibile il superamento di quest’ultima.

Emerge così un senso di unità, che prende avvio dal mondo delle determinazioni finite e giunge a trascenderlo configurandone l’ideale compimento. Questo Uno, questo ideale compimento del molteplice, deve permanere “ideale”: non si darà mai come un fatto che potremo osservare, come un fatto che potremo descrivere perché, in quanto lo descrivessimo come  fatto di esperienza, lo avremmo reso determinato, lo avremmo fatto rientrare in quel mondo delle determinazioni finite che invece domanda di venire trasceso.

 

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