Identità e differenza

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Aldo Stella*

1. Il concetto di identità

Il tema dell’identità, inteso nella sua accezione più ampia, ossia nel senso di una qualunque identità determinata, ha valore essenziale. Tale tema riveste un ruolo fondamentale non solo in ambito psicologico-psicoanalitico, ma anche in ambito filosofico, dove si cerca, appunto, una fondazione onto-logica della cosiddetta “esperienza”.

Gioverà ricordare che l’espressione italiana “identità” deriva dalla espressione latina idem, la quale è un pronome che sta ad indicare “il medesimo”, “lo stesso”, “la medesima cosa”.

Allorché si usa il termine “identico”, si intende dunque indicare ciò che permane il medesimo nonostante il variare del tempo e dello spazio: l’identico non muta, sì che il suo permanere un medesimo risulta proprio in forza del confronto con qualcosa che invece muta. Se tempo e spazio non mutassero, allora non apparirebbe la medesimezza dell’identico, ossia il suo permanere lo stesso in spazi diversi e in tempi diversi.

Già da questa prima considerazione risulta evidente che l’identità si costituisce in forza di un confronto: un confronto con sé e un confronto con qualcosa di diverso da sé. Il confronto con la differenza, rappresentata qui da spazio e tempo, consente di precisare che la cosa è rimasta identica a se stessa. Senza il confronto, e cioè senza la relazione, non si porrebbe l’identità, giacché quest’ultima si esprime come una relazione nella quale il primo termine risulta identico al secondo: è la forma dell’identità con sé di ogni cosa, dove il “con” indica, appunto, che la cosa è se stessa perché si identifica con sé, si riferisce a sé.

La questione è sottile, quanto decisiva, e merita il necessario approfondimento. Per precisarla ulteriormente, muovo da questa domanda: che cosa consente di porre la determinatezza dell’identità? In altri termini: che cosa consente all’identità di porsi in forma determinata? La risposta non può che essere la seguente: il limite. Il limite è ciò che de-termina l’identità, perché le consente di avere una configurazione che la specifica e, nello specificarla, la distingue da ogni altra identità. E questo è un punto di estrema rilevanza.

È innegabile che il limite, e solo il limite, consente la posizione dell’identità determinata. È però altrettanto innegabile che il limite presenta due facce, una che guarda il limitato e una che guarda il limitante, così come accade se si disegna su una lavagna una circonferenza e si definisce con la lettera “A” ciò che è contenuto in essa e con “non A” ciò che le è esterno. Anche l’immagine rivela che la posizione di “A” è vincolata alla posizione di “non A”, nel senso che “A” si pone solo perché si differenzia da “non A”, ma la differenza, “non A” appunto, è essenziale perché “A” si presenti nella sua forma specifica.

Volendo esprimere tutto ciò in forma concettuale, si dovrà affermare che l’identico si pone come tale in virtù del suo essere se stesso e non altro: “A” è “A” per la ragione che non è “non A”, sì che l’identità si rivela, a rigore, esclusione della differenza.

Questo è precisamente il nocciolo della questione: la differenza viene bensì esclusa, ma per venire esclusa essa deve venire richiesta, dal momento che si ha bisogno della sua presenza e se ne ha bisogno proprio per poterla escludere. Se, insomma, “non A” non fosse, neanche “A” sarebbe, così che la relazione negativa a “non A” è condizione della posizione stessa di “A”.

 

2. La relazione come costitutiva dell’identità

Per esprimere in forma più chiara un tema così rilevante, prendo in esame la definizione di identità che ci viene offerta da Aristotele nel V libro della Metafisica: «L’identità è una unità d’essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose»2.

L’identità esprime, dunque, o che una cosa è identica a un’altra (A id. B, A è B) o che una cosa è identica a se stessa (A id. A, A è A). Nell’un caso come nell’altro è da rilevare che l’identità si costituisce come identità tra due termini. V’è da sottolineare, pertanto, quanto era già emerso e che trova ora conferma nel passo di Aristotele: la relazione è costitutiva dell’identità. L’alterità (non A), infatti, non può non venire richiesta, anche se viene richiesta per venire negata, affinché risulti la medesimezza sostanziale dei termini che la forma, invece, presenta come distinti. Ciò vale anche quando si afferma l’identità della cosa con se stessa. Anche questa identità, daccapo, si esprime nella forma “A è A”, ossia come una relazione, sancita dalla copula “è”, e tale relazione altro non è che un’identità, proprio per la ragione che il primo termine coincide con il secondo. D’altra parte, però, è da rilevare che, se i termini non si disponessero come due, allora non si potrebbe rilevare – né si potrebbe affermare – il loro essere un medesimo. Con questa conclusione: la relazione funge e opera nel concetto di identità. Solo per la ragione che i termini sono due, di essi può dirsi l’identità. Se non che, non appena si dice l’identità, la loro differenza dovrebbe venir meno, dovrebbe sparire: i due, poiché identici, sono in effetti uno.

Anche questo è un punto da mettere bene in evidenza. Allorché si afferma l’identità, questa deve venire considerata come un’identità di due cose (o, che è lo stesso, di una cosa con se stessa), ma, proprio per la ragione che di tali cose si afferma l’identità, esse non possono non risultare, in effetti, un’unica realtà. La dualità, che è solo formale, funge dunque da premessa per poter pervenire all’unità sostanziale, alla medesimezza, che è ciò che si intende affermare allorché si afferma l’identità. Per affermare lo idem, o l’unità, si deve, insomma, comunque presupporre la differenza, così che, anche quando affermo l’identità della cosa con se stessa, sono costretto a sdoppiarla, a reduplicarla, ossia a introdurre una relazione nel suo essere, onde inscrivere la molteplicità all’interno dell’unità. Per questa ragione Aristotele afferma che una cosa viene considerata come due cose.

Per le ragioni addotte, l’identità non può mai svincolarsi dalla differenza, sì che, se concettualmente essa dovrebbe valere come un processo in cui l’esito, l’unità, dovrebbe attestare il toglimento del punto di partenza (la dualità), è altresì da rilevare che tale esito non si realizza mai pienamente di fatto, ma mantiene soltanto valore ideale: nessuna identità può valere come assolutamente autonoma e autosufficiente, anche se questo dovrebbe essere il suo autentico significato. Che è quanto dire: l’unità (l’identità) effettiva dovrebbe valere come una ablatio alteritatis, la quale, però, non si pone mai veramente e proprio per questa ragione l’identità tende ad esprimersi nella forma dell’uguaglianza. Quest’ultima mantiene valenza relazionale, così come, del resto, anche l’unità si esprime come unificazione, come sintesi, nelle quali la dualità non viene definitivamente superata, ma innegabilmente conservata.

Ciò che intendo affermare – e che è stato già espresso, ma in forma cursoria – è che l’identità ha valore ideale. All’identità, intesa nella sua purezza ideale, non si perviene mai veramente; di fatto l’identità, quella che ciascuna cosa “ha” con se stessa, mantiene la differenza come intrinseca e costitutiva. Non per niente la formula “A id. A” (“A = A”, “A è A”) esprime, anche a livello grafico, la dualità, così che non si potrà evitare di parlare di relazione di identità, come appunto accade nell’ambito proprio della logica formale. Del resto, se si afferma, come ho fatto in precedenza, che “non A” è essenziale ad “A” per costituirsi come “A” – ed è essenziale anche se “A” si pone come esclusione di “non A” –, allora risulta chiaro che la differenza non è estrinseca all’identità, ma la costituisce dal suo interno. Non ha senso, insomma, pensare che l’identità si costituisca in forma autonoma e indipendente e solo in un secondo tempo, a muovere da questa sua posizione autosufficiente, possa anche relazionarsi alla differenza. Non ha senso perché la relazione (anche se negativa) alla differenza è la condizione che consente di determinare “A”: dunque, la relazione alla differenza è costitutiva dell’identità e intrinseca alla sua struttura.

Proprio per questa ragione ho affermato che ogni identità è, in effetti, in sé relazione: relazione alla differenza che è esterna, ma anche relazione alla differenza che è interna, le quali altro non sono che le due forme in cui si esprime la differenza. Lo stesso principio di identità, che afferma che “ciascuna cosa è identica a se stessa”, non fa che evidenziare quanto ho cercato di indicare fin qui. Nel dire “identico a sé”, infatti, si fa comunque valere una relazione, perché “identico” equivale a “identico a”, così che il riferimento si impone innegabilmente. Dire identico a sé, pertanto, significa porre una relazione con sé, ossia uno sdoppiamento di sé con sé, sdoppiamento che implica una relazione nella quale i relati sono diversi per essere due, ma sono identici per ricomporsi effettivamente nell’unità.

 

3. L’io, l’altro, il diverso

Se quanto è stato detto vale per ogni identità determinata, a fortiori esso vale anche per quella particolare identità che è l’identità personale, che potremmo anche indicare con l’espressione “io”.

L’io, in apparenza, risulta porsi in forma autonoma e autosufficiente. A muovere da questa sua presunta consistenza indipendente, esso si relazionerebbe al mondo e ad ogni altro io. Se non che, l’io assume una posizione determinata solo in forza della relazione all’altro da sé, sì che è solo apparenza quella che lo descrive come irrelato e indipendente. Più radicalmente, esso si pone solo all’interno della relazione e, pertanto, il movimento dell’entrare e dell’uscire dalla relazione si rivela un movimento del tutto parvente.

Intendo dire che l’io può uscire da una determinata relazione (con l’oggetto x) ed entrare in un’altra determinata relazione (con l’oggetto y), ma non può porsi prescindendo dalla relazione come tale. Esso, insomma, si pone solo in quanto si rapporta all’altro, perché senza la relazione all’altro l’io non si determina come “questo” io, diverso da ogni altro, ma in relazione con il mondo e con gli altri io.

Da questo punto di vista, la differenza risulta costitutiva dell’identità e quell’io che pretendesse di negare l’altro – e negare è necare, cioè uccidere – non farebbe che negare se stesso. Senza l’altro, l’io non sarebbe: per questa ragione l’io dovrà imparare a dialogare con l’altro, giacché dialogando con l’altro, e solo dialogando con l’altro, l’io troverà un’armonia con se stesso.

Il punto è veramente importante. Esso consente di intendere la ragione profonda per la quale la differenza, l’altro io, non solo deve venire tollerato, ma deve venire accolto, amato, giacché, solo accogliendo l’altro, l’io è veramente in grado di accogliere e di amare anche se stesso.

L’altro, questo è ciò che intendo affermare, non è qualcosa di estrinseco, che possa venire accantonato e respinto, ma vale come l’essenza stessa dell’io, che è sé solo in quanto esce da sé e si incontra con il suo fondamento autentico, che è l’altro.

Da questo punto di vista, se con l’espressione “diversità” intendiamo la differenza intesa nella sua forma estrema – facendo valere l’etimo dell’espressione, che indica il di-vertere, ossia il “volgersi altrove, il “separarsi” –, se ne dovrà allora concludere che è proprio con la diversità che l’io dovrà imparare a dialogare.

Il “diverso” può trovare espressione in forme molteplici, da quella che lo descrive come il più lontano dalle nostre idee a quella che lo assume come appartenente ad un altro paese, ad un’altra razza, ad un’altra religione, e così via. Anche il portatore di deficit, il disabile, il diversamente abile è un altro che può venire vissuto per la sua lontananza, la quale a volte risulta inquietante, perturbante, destabilizzante. E tuttavia, è con chi viviamo come massimamente lontano che dobbiamo imparare ad instaurare un rapporto intimo, profondo, significativo, giacché avvicinare il diverso significa avvicinare veramente l’io a se stesso, significa cioè riconsegnargli quell’identità che inizialmente poteva sentire come alienata e perduta.

Saper dialogare con il diverso, o con colui che “inizialmente” viene avvertito come tale, significa aprire l’io ad orizzonti nuovi, a nuove esperienze; equivale, cioè, a consentirgli un arricchimento che certamente sarebbe stato impensabile se l’io si fosse chiuso e avesse preteso di avere rapporti solo con chi sente massimamente vicino.

Non solo, dunque, la differenza è essenziale all’identità, ma altresì la diversità esprime la ricchezza più autentica della vita, l’esperienza più significativa che l’io fa nel suo esistere. Chiudersi all’esperienza della diversità equivale a mutilare l’io, a costringerlo entro ambiti angusti, in un arroccamento difensivo che non fa che aumentare la sua sofferenza, perché aumenta la sua paura.

«Solo chi non ha paura di perdersi si salverà» recitano i Vangeli e il significato di questa espressione è profondo: chi si attacca ostinatamente a se stesso e alle proprie cose è destinato a perdersi, perché si consegna ad una vita chiusa e ottusa, segnata dalla paura e dall’aggressività, che alla paura è inesorabilmente vincolata. Di contro, chi si apre alla differenza e, più radicalmente, alla diversità impara a distaccarsi da sé, si dispone a quell’oblio di sé che è condizione per una vita serena e armoniosa, per un incontro fattivo con l’altro e per una condizione di autentico benessere.

In questa prospettiva, è l’altro che salva l’io dal male radicale, che è precisamente il suo egocentrismo. Quest’ultimo configura il male radicale perché vale come la radice di ogni altro male. Non è soltanto la causa di ogni pretesa, di ogni violenza e di ogni sopraffazione, ma è anche la ragione del conflitto che l’io ingaggia con se stesso: l’ego sembra volere il bene dell’io, e invece lo porta alla rovina.

In effetti, la nostra condizione naturale ci porta ad osservare il mondo sempre e solo a muovere dal punto di vista dell’io, sì che attaccarsi a tale prospettiva, fino al punto di assolutizzarla, sembra la via più semplice e spontanea. Ma proprio in questa condizione apparentemente naturale si nasconde la somma insidia. Non andrà mai dimenticata la seduzione serpentina che induce l’uomo e la donna a commettere il peccato originale: essi mangiano la mela perché vengono sedotti dall’idea di diventare come Dio.

Il sogno onnipotente riemerge continuamente nel cuore dell’uomo, alimentato dalle sue brame di potere, espressione di un egocentrismo che non vuole incontrare ostacoli alle proprie mire egemoniche. Ebbene, questo sogno onnipotente si capovolge sempre e comunque in penosi sensi di impotenza, i quali, a loro volta, producono nuovi sogni onnipotenti, nell’illusione che questi possano compensare il senso di inferiorità e di fragilità, in un circolo vizioso che strangola l’io e lo condanna ad una condizione servile.

Il circolo vizioso – e dunque la condizione servile – può venire spezzato solo da una scelta coraggiosa dell’io, quella di staccarsi dall’ego e di aprirsi all’altro, che significa aprirsi alla vita, con la sua ricchezza, la sua varietà, la sua difformità, la sua diversità.

Aprirsi alla differenza che sta di fronte all’io, ancor meglio alla diversità, equivale, del resto, a creare le migliori condizioni per aprirsi alla differenza che è interna all’io e che lo costituisce intrinsecamente. In effetti, nel momento stesso in cui affermiamo che la differenza è essenziale all’identità, noi ci sottraiamo alla considerazione esclusivamente rappresentativa e approdiamo ad una considerazione autenticamente concettuale o speculativa.

Per la rappresentazione, infatti, il differente si pone “fuori” dell’identico e il limite funge da “contorno” che separa l’uno dall’altro. La prima cosa che deve venire rilevata è che quel limite, che si pone tra identico e diverso, consente bensì, a livello rappresentativo, di distinguerli, ma fa poggiare la loro distinzione sul loro reciproco vincolarsi: il limite separa, ma solo perché congiunge; distingue, ma vincolando inscindibilmente i distinti.

E proprio questa consapevolezza consente di fare un salto, onde collocarsi ad un livello ulteriore, quello nel quale si perviene a sapere che quel limite, che la rappresentazione dispone tra le cose, in effetti è intrinseco e immanente a ciascuna di esse. Intendo dire che ogni determinazione, incluso l’io, proprio per la ragione che si pone in forza della differenza, ha nella differenza la propria essenza, sì che essenza della determinazione finita è il suo essere sé uscendo da sé, cioè l’essere sé e non sé, l’essere contraddicendosi.

La differenza, pertanto, non è solo altra dalla identità, ma, più radicalmente, è altra in essa. Si potrebbe anzi dire che la differenza esterna è l’esteriorizzazione della differenza intrinseca, ossia la disposizione spaziale, dunque rappresentativa, di una differenza che, concettualmente, immane all’identità. E, reciprocamente, la differenza intrinseca, che ha valore concettuale, non può non assumere forma esteriorizzata.

Questa è la ragione vera del sorgere del concetto di “inconscio”. Se l’altro che ci sta davanti, che si pone di fronte all’io, è la differenza più esteriore, l’altro che si colloca nell’io, l’inconscio, è la differenza espressa nella forma più interiorizzata: è quella differenza che ciascuno incontra “dentro” se stesso.

 

Note

1 Aristotele, Metafisica, III, 4, 999 a, Rusconi, Milano 1978, p. 151.

 

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