Belmonte piceno e la strada delle “cento porte”: come trasferire il pianerottolo delle scale sulla strada

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Lucio Sotte*

«D’in su la vetta della torre antica,

Passero solitario, alla campagna

Cantando vai finché non more il giorno;

Ed erra l’armonia per questa valle.

Primavera dintorno

Brilla nell’aria, e per li campi esulta,

Sì ch’a mirarla intenerisce il core..»

Sono convinto che Leopardi non avrebbe mai potuto scrivere questi versi se non fosse vissuto a Recanati e non avesse fatto esperienza della dolcezza, dell’armonia, dello splendore delle vallate e delle colline marchigiane che, allora come ora, si aprono allo sguardo di chi si affacci ad una delle finestre della libreria di Monaldo dove Giacomo si concentrava nei suoi “studi pazzi e disperatissimi”.

Chi voglia veramente visitare e capire le Marche deve dedicare due o tre giornate a percorrere qualcuna delle tante vallate dei fiumi che dagli Appennini scorrono verso Est incidendo le ondate  di colline che disegnano il nostro paesaggio dai monti fino al mare. È questo uno dei miei svaghi preferiti e, quando gli impegni me lo permettono, vado a rubare con gli occhi i colori variopinti della campagna ed indovino i nomi dei paesi che si stagliano sulle cime dei colli.

Spesso si tratta di antichi castelli trasformati nei secoli in piccoli borghi, oppure di poche case raggruppate intorno ad una chiesa o ad un vecchio convento ed in questi casi mi domando sempre qual’è l’uovo e qual’è la gallina: è nato prima il convento che è stato successivamente circondato di case oppure, proprio perché c’era un piccolo agglomerato urbano, i frati decisero nel trecento o nel quattrocento di insediare proprio lì una chiesa e poi il chiostro e poi la sala capitolare ed infine l’intero convento?

Uno dei posti più suggestivi delle mie scorribande è quello che va sotto il nome di “crinale farfense”: si tratta della campagna del fermano, tra le vallate del tenna a Nord e dell’aso a Sud. Farfense perché è un susseguirsi di piccoli borghi con antichi insediamenti che un tempo erano nel territorio del complesso monastico di Farfa. Conservano ancora esempi straordinari di chiese del periodo romanico ma anche di epoca successiva: molte settecentesche. Queste ultime hanno spesso grandi dimensioni che sembrano quasi sproporzionate per i piccoli borghi in cui sono inserite e fanno stupire per il gusto delle scelte architettoniche, per l’amonia degli arredi, per la precisione che si riscontra anche nei più piccoli dettagli. C’è inoltre da dire che molti dei loro “tesori” e soprattutto molti dipinti che conservavano sono stati depredati durante la campagna napoleonica e trasferiti all’Accademia di Brera di Milano o direttamente in Francia e da lì in tutto il mondo. Questa è la fine che hanno fatto ad esempio una sessantina di tavole di Vittore e Carlo Crivelli che arricchiscono le collezioni dei musei europei, americani ed addirittura giapponesi e che sono state “sottratte” dagli edifici religiosi di questi piccoli paesi.

Permettetemi una piccola digressione.

Più passa il tempo e più me ne convinco: i testi di storia raccontano la campagna d’Italia di Napoleone come un susseguirsi di epiche vittorie per la “liberazione” del nostro paese, invece, mano a mano che passano gli anni e mi guardo intorno, mi sto rendendo conto che dalle mie parti – ma presumo per analogia in tutta Italia – si sia trattato all’incontrario di una vera e propria invasione col suo seguito di grandi violenze, accompagnate da rapine, ruberie e furti perpetrati in tutti i modi ai danni del popolo italiano e del suo patrimonio culturale, religioso, artistico, civile. Con in più una matrice ideologica che in qualche maniera giustificava il latrocinio e le violenze con la scusa della liberazione dall’arretramento culturale del nostro paese! È il bello è stato che all’epoca molti italiani ci hanno anche creduto ed hanno aderito con grande ingenuità ed altrettanto entusiasmo a questa distruzione culturale e materiale del nostro territorio.

Purtroppo questa storia si è ripetuta tante volte in Italia prima e dopo la campagna napoleonica ed il periodo che viviamo corre il rischio di essere un’ulteriore messa in vendita a prezzi da realizzo dei nostri “gioielli” di casa.

Torniamo però al crinale farfense, alla sua campagna, ai suoi piccoli paesi e soffermiamoci su uno piccolissimo: Belmonte Piceno posto su uno sperone che si affaccia dal versante Sud della vallata del tenna. Viene citato tra i primi insediamenti piceni già presenti al tempo dell’antica Roma. Ora è un piccolo borgo di 683 abitanti. Vi consiglio di visitarlo per scoprire una curiosità che vale una piccola gita, se venite da queste parti. L’ho scoperta ormai da molti anni un giorno in cui mi sono incamminato per una delle due strade che percorrono il piccolo borgo. Si tratta precisamente di via Marino Lucido su cui si affaccia la facciata interna delle case che sovrastano le mura che guardano verso il mare perché esposte a Sud Est. Camminando ho iniziato quasi per gioco a contare i portoni che si aprivano sulla strada: un portone, due portoni, tre portoni, poi una finestra, poi di nuovo tre o quattro portoni e poi altri tre, poi una finestra e poi di nuovo tre portoni e tre portoni ancora….. e via di seguito per tutta la lunghezza della strada. Incuriosito da questa ininterrotta serie di portoni che si susseguivano uno accanto all’altro, sono ritornato indietro sui miei passi ed ho voluto ricontarli. Mi sono reso conto che in poco più di 100 metri si contavano 47 portoni e solo 12 finestre. Via Lucido è dunque un seguito ininterrotto di portoni con qualche rara finestra intercalata: una porta ogni due o tre metri. Non riuscivo proprio a capacitarmi e continuavo a percorrere la strada avanti ed indietro fino a quando un portone di fronte a me si è aperto: è uscita una vecchietta che scendeva da una scala che finiva appunto dietro a quel portone. La signora appena uscita ha poi aperto il portone accanto, alla sua sinistra, ed è entrata in una grande stanza dove ha preso un cesto per poi ritornare sulla strada ed aprire il terzo portone, sempre alla sinistra del precedente, che immetteva anche in questo caso su una rampa di scale che stavolta però non venivano dal piano di sopra, ma andavano a quello di sotto….

Allora finalmente ho capito l’antifona ed il perché delle serie ininterrotta di portoni: il portone centrale di ogni casa si apre su una stanza che sta a livello della strada e quelli ad esso laterali si aprono su due rampe di scale che raggiungono rispettivamente il piano di sopra e quello di sotto al piano stradale. Tutto questo accade semplicemente perché il pianerottolo tra le scale non è interno alle mura, come sarebbe logico in qualsiasi casa costruita secondo i criteri edilizi consueti, ma è invece il piano stradale. Come dire che via Marino Lucido è una strada ma è anche il pianerottolo ininterrotto di tutte le case che si affacciano sulla strada da cui si raggiungono i tre piani di cui tutte le case sono forniti, uno a livello della strada e gli altri due rispettivamente sotto e sopra il livello stradale.

Perché forse al tempo in cui queste case sono state costruite la strada non era pensata come uno spazio pubblico diviso da quello privato interno alle mura di casa. La strada era un’estensione della casa perché in molti paesi il pubblico ed il privato si confondevano tra loro.

 

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