Le ombre di Querciabella

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Adolfo Leoni*

Il bambino alzò il braccio a mezz’aria con la mano aperta e le dita verso l’alto. Poi, pian piano chiuse il palmo e lo riaprì. Più volte, più volte, ritmicamente. Come se stesse salutando persone conosciute.

Il padre girò il volto là dove il piccolo guardava. Non vide anima viva. Solo la grande quercia si stagliava dinanzi a loro, imponente e scheletrica. Abbandonata. Non aveva più un fiore che l’addolcisse, né una foglia che adornasse i rami secchi. Da anni, ormai, era un albero senza vita che protendeva al cielo le sue braccia esangui e mozzate. I giovani del luogo non si erano però rassegnati a quella morte. Così, la quercia era stata avviluppata con decine di nastri colorati che spiccavano sul grigio spento della sua corteccia antica. Un gesto semplice di chi avrebbe voluto vedere quella grande pianta ancora viva. Una testimonianza d’amore per quell’albero secolare.

In primavera, ed ancor più in estate, quando Querciabella era ancora florida e prospera, i ragazzi di Belmonte, di Montegiorgio, di Falerone, delle Piane la raggiungevano a piccoli gruppi. Sotto quell’ampia chioma verde sostavano a lungo per le loro merende, oppure vi riparavano dopo un tonificante bagno nel Tenna. E ogni volta, prima di lasciarla, l’abbracciavano prendendosi per mano, facendo catena umana. Riuscivano a cingerla solo se erano in sette, addirittura in otto. In meno non sarebbero riusciti.

Da secoli, Querciabella vigilava il quadrivio. Sorvegliava i viandanti e li rifocillava con la sua ombra. Se avesse avuto un viso umano, avrebbe sorriso ai falciatori e alle loro donne che, d’estate, montati sui grandi carri agricoli, risalivano il fiume per la mietitura in montagna. Ascoltava silenziosa le loro canzoni spensierate, cantate con serenità e vigore sul fare del mattino. Guardava, la quercia, i bambini di campagna che le passavano davanti ogni mattina per recarsi a scuola, e i drappelli di persone che di buon’ora si dirigevano per la messa a villa Fontebella.

Nella graziosa chiesetta adiacente alla maestosa villa dei conti, nel giorno di festa si ritrovavano fianco a fianco nobili e popolani. Spesso, carovane di zingari sostavano in quei luoghi. Era allora che le nenie dei figli del vento si spandevano per la valle.

Di tanti matrimoni, di tante feste popolari, di tanti balli tradizionali l’albero era stato testimone. Anche della morte, però, l’immensa quercia restava muta spettatrice. Come quando la quercia sorella era stata abbattuta.

Su quella piana, poi, secoli prima era stata combattuta una battaglia sanguinosa, una delle più feroci del Rinascimento. Le milizie dell’Euffreducci s’erano scontrate con quelle del vescovo Bonafede. A centinaia erano caduti gli uomini con la testa fracassata dai colpi di bombarda, con il petto squarciato dalle pesanti spade, calpestati dagli zoccoli dei cavalli al galoppo. E Querciabella si domandava il perché di tanto strazio. Qualche secolo più tardi, le truppe giacobine s’erano riposate sotto quelle fronde prima dell’attacco a Castel Clementino che avrebbe portato all’uccisione del giovane Navarra e alla strage dell’ignara popolazione.

L’altezza di Querciabella, inoltre, le aveva dato la possibilità di vedere lontano, verso il Tenna. In quelle acque cercate per refrigerio, in tanti erano scomparsi tra i flutti. Buche sconosciute, mulinelli improvvisi avevano rubato i corpi di giovani e di adulti. Più tardi e più avanti il fiume avrebbe restituito cadaveri gonfi e rigidi in un gesto che sembrava imprecare contro una fine ingiusta.

Ma non solo le guerre e le acque avevano fatto le loro vittime. Anche la strada aveva preteso le sue. E in numero sempre maggiore. Prima, uomini stritolati dalle ruote dei carri; poi, con la modernità, l’inferno delle lamiere d’auto contorte nello scontro a velocità pazzesche.

Il bambino non sapeva tutto ciò. La vita gli regalava ancora qualche anno di spensieratezza.

Ora salutava con la mano quella quercia maestosa. Ma non solo essa. Ai piedi dell’albero, seduti uno accanto all’altro e sorridenti, erano in molti a rispondere al suo saluto. Paolo e Luigi, Aurelio e Mario, Antonia, Maria, Duilio…

Le Ombre guardavano in silenzio la strada e i passanti. Nessuno notava quelle presenze. Solo i bambini, ancora dal cuore stupito, potevano vedere. E salutare. Non per un addio. Per un a Dio.

 

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