Dire “Dio” in cinese: la traduzione del Signore del Cielo da una prospettiva filosofico-interculturale

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Alessandra Chiricosta*

 

«La Cina è altro mondo»: in quest’affermazione dello stesso Ricci è racchiusa gran parte della ragione del successo che riuscì a conquistarsi in quella terra, e che ancora ne rende celebre e interessante l’operato. Non solo, difatti, Matteo Ricci riuscì laddove molti altri fallirono, ovvero nel comprendere ed essere compreso nell’ambito di un contesto culturale così lontano, nelle varie accezioni di questo termine, come la Cina. Ma, soprattutto, contribuì alla creazione di un precedente metodologico che oggi, a distanza di quattrocento anni, propone sviluppi originali al pensiero filosofico e possibilità di risoluzioni per temi centrali all’etica della pace e dell’armonia mondiale. Come si evidenzierà in corso d’opera, difatti, questo contributo intende mettere in relazione alcune questioni sollevate dall’operato ricciano con alcune istanze della filosofia contemporanea, in particolare quelle emerse nella declinazione cosiddetta Interculturale del pensiero filosofico.

A differenza della maggior parte dei suoi predecessori e contemporanei, Ricci ebbe la capacità non solo di cogliere la sostanziale Alterità della realtà cinese, che risiede nella lingua, nelle usanze, nell’organizzazione amministrativa e politica, nel pluralismo e relativismo religioso, del tutto estraneo ai canoni di una religione unica perché vera; nella riunione dei poteri religioso e politico nella persona dell’imperatore; nella totale assenza di un pensiero trascendente e soteriologico autoctono; ma, soprattutto, di riconoscere uno statuto di totale pariteticità all’Impero cinese rispetto alle monarchie europee: la Cina era un “mondo” a tutti gli effetti, in virtù della sua estensione geografica; della sua storia millenaria; della ricchezza economica, che la rendeva indipendente da qualsiasi potenza esterna, dovuta alle grandi risorse della natura e a quelle dell’ingegno e dell’arte dei suoi abitanti; della complessa organizzazione sociale e politica, che la rendeva oggetto di studio e ammirazione; la sua forte identità nazionale, che le permetteva anche di ignorare addirittura l’esistenza di potenze esterne e lontane dai propri confini.

Questo grande rispetto per la cultura cinese portò il Ricci a trovare la strada ottimale per la diffusione del Vangelo in un dialogo fatto di comprensione, studio e ascolto, che non impone un pensiero in virtù di una superiorità bellica, ma tramite la creazione di un linguaggio e di un senso mutuamente comprensibili.

Le questioni sollevate dal Ricci, nei suoi testi e nel suo operato, si ripresentano oggi, mutatis mutandis, con un carattere di ancora maggiore urgenza e importanza. In un mondo glocale, che si trova ad essere sempre più in un dialogo che relativizza le posizioni dei singoli interlocutori, si rende necessario articolare un pensiero che tenga conto della realtà imprescindibile della differenza e della traducibilità. Se tradere è, nel contempo, consegnare e tradire, il tradimento è implicito nel concetto stesso di traducibilità: ciò non verrà qui visto come un invito al solipsismo, bensì come dato di un dialogo che non si vuole esaurire in una mera sovrapposizione di monologhi, che cerca di cogliere l’Alterità e la differenza proprio in quanto tali.

Ciò per giungere a quanto più precipuamente caratterizza la propria Identità (seguendo l’affermazione goethiana che «chi conosce solo la propria lingua, non ne conosce nessuna») che, considerata come realtà in continua costruzione e ridefinizione, si apre, nel dialogo, alla formazione di “giochi linguistici” nuovi e originali. Se nel dialogo è impensabile e inauspicabile una comprensione completa dei due dialoganti, che annulli le differenze reciproche, il rispetto dell’Altro in quanto tale, o meglio, degli altri, pluralmente intesi, muove proprio dall’assunzione di responsabilità implicita nell’obbligo di responsività, nel senso levinassiano del termine, a cui la “chiamata dell’Altro” mi lega.

Pur essendo destinata a rimanere sempre parziale, a mantenere un nucleo di oscurità e inintelligibilità, la comprensione, o meglio, il tentativo di comprendere l’Altro è comunque un’attitudine auspicabile: in una com-prensione che non intenda esaurire, annichilire l’Altro nell’Identico, bensì abbracciarlo proprio come portatore di quella diversità che lo rende sempre differente; nella dimensione spazio temporale differita, che mette in crisi il “normale” rapporto soggetto-oggetto, aprendo all’interim della comunicazione.

Il testo ricciano Il vero significato del Signore del Cielo si mostra, alla luce di queste considerazioni, di un’impressionante attualità: le questioni poste in essere, difatti, anche se non totalmente sviluppate, rappresentano il cuore della problematica di un dialogo interculturale che ora, a distanza di quattrocento anni dalla redazione del libro, si dispiega in tutta la sua complessità. L’opera di Matteo Ricci travalica da subito i confini di una mera traduzione: partendo dal titolo stesso, infatti, si osserva che il reale oggetto della trattazione risiede nel significato, nel senso del “nominare Dio” nel contesto della Terra di Mezzo. Siamo, dunque, di fronte ad un problema che, nella nostra cultura, pertiene strettamente all’ambito filosofico, e che ha trovato nell’ermeneutica filosofica il suo metodo più proprio di indagine. Non si tratta, difatti, solo di trovare un significante adatto, questione già di per sé ardua e ricca di implicazioni, come andremo ad osservare; ma anche, e soprattutto, di ricercare, creare un contesto di significazione in cui il nominare Dio possa realmente essere portatore di senso. Un senso, questo, certamente differente rispetto all’ottica di origine, che costringe lo stesso Ricci ad un’opera di rielaborazione, ripensamento delle proprie griglie interpretative e ad un’apertura, non sempre dichiarata, talvolta negata, verso nuovi orizzonti di senso. Matteo Ricci si trovò, per primo, a tradurre non solo termini, ma concetti che non appartenevano alla cultura di cui era ospite. Iniziò, dunque, un’opera titanica: rendere mutuamente intelligibili due “mondi”, nell’accezione heideggeriana del termine, fino a quel momento quasi totalmente impermeabili l’uno all’altro. Quest’impresa non fu certo né semplice né indolore, si è consumata in tempi lunghi, fatti di aperture e chiusure, di dialoghi accennati, interrotti, ripresi, fino ai giorni nostri.

I missionari Gesuiti non si accontentarono di utilizzare, nelle lingue asiatiche, le traduzioni più semplici e immediate della terminologia religiosa cristiano-occidentale, e misero in discussione anche quella precedentemente utilizzata da altri missionari, spesso frutto di ulteriori traduzioni da altre lingue: si comprese, infatti, che la traduzione non è solo una questione terminologica, bensì epistemologica; che al modificarsi del contesto in cui un termine è adottato, non basta semplicemente trovare una traduzione letterale del termine in questione, ma occorre reinserire il concetto in un orizzonte di senso che ne garantisca la significatività. Assieme ai suoi confratelli, Valignano elaborò quello che più tardi sarebbe stato chiamato metodo della “inculturazione”, ossia dell’assimilazione dello straniero alla cultura del paese, per potere, dall’interno, acquisito il credito necessario, trasmettere insegnamenti e dottrine. Non si tratta, però, solo di una brillante mossa strategica: letta a distanza di quattrocento anni, e interpretata alla luce di un’ermeneutica diatopica e dialogica, come suggerisce la Filosofia Interculturale, il metodo Gesuita appare come il primo passo verso una considerazione differente del rapporto con gli altri, pluralmente intesi, che ne coglie la dignità umana non al di là, ma proprio in virtù delle reciproche differenze.

I Gesuiti, dunque, crearono i primi ponti per una reale comprensione degli “universi di senso” estremo orientali, non, come vedremo, senza forzature o fraintendimenti, ma gettando, comunque, le basi per uno studio attento delle lingue e delle culture asiatiche che, nel tempo, avrebbe portato alla possibilità di un vero e proprio dialogo.

Le rappresentazioni date dai Gesuiti hanno determinato per lungo tempo la percezione europea dell’Estremo Oriente, condizionando, come potremo constatare, anche la percezione delle religioni e filosofie provenienti da queste aree. Sarà proprio il contatto con delle tradizioni religiose, filosofiche, culturali così antiche e complesse che porrà questioni di difficile soluzione alla cultura – soprattutto religiosa – europea, costringendola a ripensare sé stessa anche da questo punto di vista.

Una delle questioni centrali affrontate da Matteo Ricci in questo libro, espressa già nel titolo scelto per il Catechismo, è la traduzione del termine “Dio”. Più che mai qui, difatti, ne va del senso più profondo del messaggio cristiano, della sua comprensione autentica e della sua possibile divulgazione in Cina. Il problema sostanziale risiede nel fatto che, alla stregua di molti paesi dell’Estremo Oriente e del Sudest asiatico, in Cina non esisteva un termine che identificasse un Dio monoteisticamente inteso. L’assenza del significante denota chiaramente l’assenza anche del significato e la presenza di un contesto religioso-culturale difficilmente compatibile con la tradizione teologica e filosofica europea. Già altrove il problema si era posto in tutta la sua gravità, ma le scelte lì compiute non soddisfacevano il Ricci: il Giappone, in cui il capostipite dei missionari dell’Ordine di Gesù in terra d’Oriente, Francesco Saverio, aveva operato, presentava un’analoga situazione. La decisione ivi assunta era stata quella di introdurre un nuovo nome, che non avesse legami con la tradizione locale, evitando così di correre il rischio di denotare in modalità non ortodosse il nome di Dio. Questo era stato semplicemente traslitterato dai caratteri latini a quelli giapponesi, sottolineando l’assoluta novità della religione Cristiana rispetto non solo allo Shintoismo autoctono, ma anche alle altre importate dalla Cina. Come ci testimonia lo stesso Francesco Saverio, infatti, la Terra di Mezzo rappresentava la cultura egemone nell’area dell’Estremo Oriente (anche il sistema di scrittura a caratteri ideografici viene importato dalla Cina), e per questa ragione si rendeva necessario, da un punto di vista missionario, conquistare il cuore dell’impero per poter giungere anche nelle sue periferie più remote e negli stati vassalli.

Grazie alla sua lunga permanenza in Cina, alla profonda conoscenza sia della lingua che della cultura cinese, Matteo Ricci si rese conto che la roccaforte non sarebbe mai stata espugnata in virtù di autorità differenti da quelle riconosciute dal Celeste Impero stesso. Già il Buddhismo, largamente diffuso e ormai sinizzato all’epoca della missione di Ricci, era fortemente osteggiato da alcuni membri dell’elite dominante, che ne sottolineavano la componente “barbara” e la lontananza dal sistema religioso e sociale tradizionale, incentrato sull’etica confuciana e sull’esaltazione delle antiche dinastie autoctone. In una Cina chiusa agli occidentali, che non permetteva libertà di movimento, né di scambi commerciali al suo interno agli stranieri, l’immagine degli europei era assai negativa: barbari ignoranti e maleodoranti, per la maggior parte, del tutto ignari delle più elementari basi linguistiche e del complesso rituale che organizzava lo splendore dell’Impero. Quale possibilità aveva di essere riconosciuta l’autorità religiosa proveniente dall’Occidente?

L’intuizione del Ricci fu che solo trovando un fondamento all’interno dell’accreditata tradizione cinese sarebbe stato possibile far accettare il messaggio cristiano, gettando così le basi per quel processo che in epoca contemporanea viene definito inculturazione.

Se già problematico al giorno d’oggi, all’epoca del Ricci tale metodo presentava dei rischi altissimi, quali quelli che si manifestarono dopo la sua morte, indicati nella celeberrima Questione dei riti: il conservare tratti culturali propri della cultura ospite non significa, forse, contaminare la purezza dell’insegnamento, snaturarlo, rischiare di cadere nell’eterodossia? Ma procediamo con ordine.

Ricci non solo, come si è detto, entrò come letterato tra i letterati, padroneggiando i capisaldi della cultura confuciana, ma grazie ai suoi studi riuscì a trovare dei termini all’interno della tradizione cinese che potessero servire alle sue necessità: Shang di e Tian. Per capire le implicazioni insite nell’utilizzo di tali termini, occorre accennare brevemente al contesto in cui si sono originati.

Si narra che tre dinastie ereditarie, Xia, Shang e Zhou, si siano succedute in Cina nel periodo che va dal 2300 circa a.C. al 475 a.C. La grande importanza che il pensiero cinese attribuisce alla continuatività storica sottopone la visione delle vicende del passato ad un’incessante opera di interpretazione ed interpolazione in funzione della politica e della concezione vigenti nell’epoca dell’indagine; tutto ciò rende assai difficoltoso ricostruire le varie tappe lungo le quali non solo uno stesso pensiero, ma addirittura interi sistemi si siano evoluti. Nonostante le difficoltà che tale concezione spiraliforme porta agli studiosi, molte prove documentarie di natura archeologica, antropologica e storiografica aiutano le ricerche riguardanti anche i periodi più antichi.

Una delle maggiori fonti di informazioni storiche, lo Shujing (Classico dei documenti), testo annoverato da Confucio tra i cinque classici della cultura cinese, risulta condizionato dalla visione filosofica del periodo delle “Primavere ed Autunni” (770-454 a.C.) e degli “Stati Combattenti” (453-222 a.C.).

In esso, infatti, alle tre mitiche dinastie vengono anteposti due leggendari sovrani o di, Yao e Shun. Anche uno tra i più grandi storici della Cina antica, Sima Quan (145-90 a.C.), nel suo Shiji (Memorie di uno storico), parla di re precedenti alle tre dinastie, aggiungendone però altri due, onde raggiungere il numero complessivo di 5, fondamentale per la cosiddetta Dottrina dei 5 Principi Agenti, dominante in epoca Han.

Sempre nello Shiji si parla anche di tre huang, re predinastici, la cui figura trovò maggior attenzione in epoche successive, ma non in maniera diffusa. In ogni caso è interessante sottolineare che la successione di 3-5 continuò ad essere mantenuta per un lungo periodo di tempo nell’interpretazione storiografica della Cina antica.

Nel suo complesso tale epoca fu sempre osservata come una mitica Età dell’oro, in cui rintracciare modelli di comportamento sia individuale che sociale e politico, soprattutto nell’ottica confuciana. Allo stato attuale delle indagini, le Tre Dinastie vengono viste come i momenti differenti dello sviluppo dello Stato in Cina, e le relazioni tra di esse appaiono più come una coeva presenza di forze alternativamente dominanti che come una successione vera e propria.

Tralasciando la dinastia Xia, riguardo alla quale ancora troppo poco risulta documentabile (se non alcune tracce sopravvissute nell’organizzazione socio-politica e religiosa di epoche successive), la dinastia Shang si mostra come direttamente collegata con quella Zhou, essendosi le due contese il potere assoluto per un ampio lasso di tempo.

Una delle caratteristiche principali nel contesto della civiltà arcaica in Cina è la stretta interconnessione tra sfera politica, familiare e religiosa, che, in un certo qual modo, non venne spezzata neanche con la successiva formazione di un potere statale accentratore. Il modello dei legami di parentela struttura l’intera società cinese sin dalle sue origini: il sommo sovrano dell’epoca Shang, wang, poteva essere tale solo ed unicamente in quanto capo, xing, del clan dominante, dal quale traeva la sua stessa forza e la sua autorità. Quest’ultima non investiva solamente il campo strettamente politico e militare, bensì anche quello sacrale e religioso; il legame di parentela, sopravvivendo alla morte stessa, garantiva una continuità tra il mondo dei vivi e l’oltretomba manifestato dal culto degli antenati: in ciò non si deve scorgere solamente l’espressione di un rispetto verso la propria stirpe, bensì la vera e propria sanzione di un ordine cosmico. Il complesso sistema di riti che regolava tale culto, infatti, si può considerare come il corrispettivo di un mito di fondazione, non a caso totalmente assente nel periodo arcaico. Il rito assolve alla precipua funzione di riattualizzare ogni qual volta venga officiato una legge universale, di sancirla nuovamente in modo da renderla viva e operante. Tale legge, secondo la cultura cinese, si manifesta in tutti i piani dell’esistenza. Se, dunque, la famiglia è la struttura attorno alla quale si dipana l’ordito di qualsiasi realtà che colga l’uomo nel suo vivere sociale, anche lo spazio, il tempo, la vita spirituale dovranno, in qualche modo, essere definite per suo tramite. Interpretare il volere degli antenati in merito alle vicende della vita mortale instaura un principio di continuità tra i due mondi, allargando la concezione comune di tempo e spazio in maniera tale da contenere anche l’al di là, essendo quest’ultimo regolato dai medesimi principi che strutturano il genos.

La stessa divinità dell’epoca Shang, Shang di, il Sovrano dall’Alto, che nell’ultima fase della dinastia presenterà tutte le caratteristiche di un Essere Supremo, al principio non era visto altrimenti che come il più importante e inaccessibile di tutti gli antenati, ma pur sempre uno di essi, presumibilmente il capostipite, a cui il sovrano mortale si poteva rivolgere solo ed esclusivamente attraverso la mediazione dei propri avi più prossimi.

Il clan dominante presentava al suo interno una suddivisione in lignaggi, il più importante dei quali costituiva la stirpe reale, wangzu. Le norme di successione non sono ancora così chiare: attraverso lo studio dei nomi postumi dei sovrani, ovvero nomi rituali che venivano assegnati ad ogni sovrano dopo la morte, si è evinto che in ciascuno di essi fosse presente uno dei 10 “tronchi celesti”, caratteri usati nel calendario per indicare un ciclo di dieci giorni tra loro raggruppati (ciò rende ancora più evidente il legame del sovrano con la sanzione di un tempo sacro). Tra questi nomi si è evidenziata l’alternanza in particolare di due lignaggi, fatto peculiarmente assorbito anche dalla successiva cultura Zhou, che manifesterebbe il fatto che al sovrano di un gruppo sarebbe dovuto succedere un erede del gruppo opposto, seguendo la concezione secondo la quale tutti i membri maschi di una medesima generazione si potevano considerare alla stregua di fratelli. Tale principio poteva essere disatteso solamente se non fossero state attuabili due clausole, ovvero che non fossero presenti figli maschi come capi del lignaggio o che il sovrano in questione non fosse stato meritevole. Quest’ultima evenienza sarebbe stata accertata tramite il responso oracolare, utilizzato per ogni aspetto importante nella vita all’epoca Shang. Una delle più tipiche forme di comunicazione con gli antenati era costituita dalla scapulomanzia, ovvero divinazione attraverso ossa di animali, in particolare scapole di buoi, e gusci di tartaruga. Attraverso delle operazioni fortemente ritualizzate, le ossa e i gusci venivano levigati e ammorbiditi, in modo tale da rendere possibile lo scavare delle piccole cavità su di esse, poste in file regolari.

Sottoponendo i gusci all’azione di una fonte di calore, si assisteva alla comparsa, dalla parte convessa del guscio, di due linee, una trasversale l’altra verticale, oggetto d’interpretazione. L’esito dell’oracolo veniva poi trascritto sul guscio stesso. Progressivamente il sovrano divenne il solo detentore del “diritto” di interpretare gli oracoli, a sanzione della sua figura di unico collegamento tra i due mondi: il clan reale domina sia il mondo terreno che quello ultraterreno, quindi solamente coloro che appartengono a tale lignaggio sono in grado di comprendere le direttive degli antenati, giacché è proprio il legame di  parentela che consente di superare le barriere del tempo e della morte.

Nell’ultimo periodo della dinastia Shang il culto per gli antenati inizia a perdere di sostanzialità, trasformandosi sempre di più in un complesso sistema di rituali totalmente formali; tale situazione viene ereditata dai Zhou, i quali, in un primo momento, sembrano mutuare i medesimi principi della regalità dei loro predecessori, inserendosi, come viene mostrato da ritrovamenti funerari, nella scansione a due lignaggi e mantenendo la figura di Shang di come essere supremo. I rapporti, però, tra tale divinità ed il mondo dei mortali dovevano necessariamente mutare: Shang di, sebbene fosse ormai giunto ad un punto avanzato del processo di spersonalizzazione che ne rese possibile l’adozione da parte di una dinastia differente, era pur sempre il primo antenato di una stirpe reale per nulla legata da parentela con i Zhou. Fu così che questi ultimi si rivolsero ad una divinità posta ancora più in alto di Shang di, ovvero Tian, il cielo, (che giunse al Ricci con il nome di Tian zhu, il Signore del Cielo). La grande espansione territoriale che caratterizza l’epoca Zhou, infatti, aveva reso necessaria la presenza di una divinità che potesse essere sentita come tale non solo nel ristretto ambito coperto da pochi clan. Ovviamente il rendere la divinità suprema separata dal contesto dei legami parentali poneva ai Zhou il problema di creare un principio differente che sancisse il loro inequivocabile diritto al governo: ciò si risolse nella teorizzazione del tianming, mandato celeste, assegnato direttamente dal Cielo ad una dinastia. Una caratteristica del tianming, che lo rende assai differente dalle concezioni occidentali di investitura divina, risiede nel fatto di poter essere revocato nel momento in cui si renda evidente il fatto che l’assegnatario non si è mostrato all’altezza del compito. Segni di tale inettitudine potevano essere sia di ordine politico, riscontrabili in un malgoverno che provocava ampi dissensi sia nelle classi alte che nella popolazione stessa, che di ordine “naturale”, quale carestie e calamità varie, interpretabili, in una concezione che vede il cosmo come un’unità interconnessa, come segnali di disapprovazione della natura stessa nei confronti di un sovrano colpevole di aver violato le leggi universali. Per poter governare il sovrano doveva, infatti, mostrare di possedere il de, virtù, termine che solo successivamente si connotò di valenze etiche: nell’epoca Zhou serviva ad indicare il concetto antropologico di mana, ovvero quella potenza magica presente nella totalità del cosmo di cui solo uno sciamano riesce a rendersi interprete e veicolo. Nel caso in cui l’operato del sovrano apparisse come privo di de, non conforme alla qualifica di tianzu, figlio del cielo, il mandato doveva essere revocato ed assegnato ad una più degna dinastia.

La concezione Zhou del tianming ebbe una notevole fortuna lungo l’intero arco della storia cinese: grazie anche al principio di continuità con la propria tradizione di cui si è precedentemente trattato, l’idea di un mandato revocabile, direttamente assegnato dall’ordinatore delle leggi universali che sottendono ogni ambito dell’esistenza cosmica sarà utilizzato addirittura da Mao per affermare la legittimità della propria rivoluzione.

La scelta di un significante per il “nome di Dio”, derivato dalla tradizione locale, non si mostrava, dunque, né semplice né priva di implicazioni. Innanzi tutto, il richiamo alla dimensione degli antenati pone Shang di in una dimensione non tanto creazionista, quanto generativa. Ricordiamo, difatti, come nella tradizione pre-Han i miti di creazione scarseggiono, mentre assai maggiore spazio è stato assegnato al principio della generatività.

Nell’ambito della successiva tradizione cinese, poi, il termine Shang di venne utilizzato per designare una delle divinità del pantheon daoista, mentre Tian, che, indicando il “Cielo”, aveva nella lingua cinese un’accezione simile a quella occidentale di “Provvidenza divina”, presentava però il rischio di presentare il Dio cristiano come una divinità impersonale. Il problema della definizione del Dio cristiano in Cina fu risolto, stando alle Fonti Ricciane, allorché un giovane catecumeno «salutò il quadro di Cristo con l’appellativo di “Signore del Cielo” (Tian zhu)», nonostante tale termine fosse anche utilizzato per indicare una divinità negli scritti canonici buddhisti. Come ricorda Ricciardolo[1], il termine Tian zhu appare per la prima volta nelle cronache cinesi nello Shiji dello storico Sima Qian, per indicare il primo di otto spiriti delle montagne e dei grandi fiumi, fatto del quale né Ruggeri né Ricci erano a conoscenza. Dopo un colloquio col Valignano, si decise, comunque, di adottare tale termine. Curiosamente, la decisione di adottare il termine Tianzhu per definire il Dio cristianamente inteso era stata presa anche in un tempo precedente ed in un contesto leggermente differente, quale quello nestoriano. Allorché, difatti, nel VIII secolo il pensiero dell’eresiarca Nestorio era penetrato nel territorio cinese – ricordiamo, per inciso, che il cristianesimo nestoriano trovò fortuna e protezione presso la corte della dinastia mongola degli Yuan -, la medesima necessità avvertita da Ricci di tradurre il nome di Dio era stata sentita, conducendo ad una analoga scelta. Saeki[2] sostiene che la motivazione di tale decisione sia dovuta ad uno dei primi traduttori dei testi nestoriani in lingua cinese, appartenente all’ambito daoista. Si tratta del patriarca Lü, fondatore della scuola contemplativa daoista Jindanjiao (insegnamento per la scuola dell’elisir di vita) che, nella sua opera di traduzione, assimilò la figura del Dio cristiano a quella della divinità daoista. In ciò, come si avrà modo di approfondire in seguito, si inizia ad intravedere la problematicità della decisione ricciana di trovare nel solo pensiero confuciano un valido interlocutore.

Alla luce di ciò, inoltre, si rende evidente come l’adozione dei termini Shang di e Tian zhu – che Ricci utilizza in egual misura e in maniera interscambiabile – in una prospettiva cristiana non fosse neutrale, e aprisse ad un’ampia gamma di fraintendimenti, sia in Cina che, ancor di più, a Roma, lontana dalle problematiche che avevano condotto a scelte di tal fatta. Il sostegno teologico a tale impresa era rappresentato da una sorta di fides implicita, di rivelazione parziale in certe realtà culturali altre rispetto a quella europea, che andava corretta alla luce della Vera interpretazione. Per questa ragione il Catechismo del Tian Zhi Shu Yi diviene uno strumento essenziale e imprescindibile, per evitare di cadere in interpretazioni fuorvianti ed eterodosse. La scelta della struttura dialogica con cui viene presentato il messaggio Cristiano risulta vincente per evitare questi rischi: Ricci, dialogando con un letterato confuciano, confuta, secondo l’arte appresa al Collegio Romano, tutte le possibili fonti di ambiguità, presentando alla Cina un esempio emblematico anche della logica, della fisica e della metafisica aristotelico-tomistiche. In realtà, Ricci scelse di mantenersi nell’ambito della speculazione filosofica, discutendo solo di ciò che poteva essere compreso e dimostrato con l’intelletto, limitandosi a trattare solo della rivelazione naturale, non chiamando in causa la rivelazione positiva. Questo per dimostrare ai cinesi come il pensiero cristiano non solo non fosse incompatibile con la tradizione confuciana, ma anzi, ne fosse il più spontaneo e compiuto esito: il Cristianesimo, nella visione di Ricci, era una religione del tutto compatibile con i valori indicati da Confucio, prima che subissero il travisamento dato dalla commistione con il Daoismo e con il Buddhismo.

Questo processo che, ad un occhio esterno, può apparire macchinoso e infondato, si colloca benissimo nel contesto cinese, in cui i rapporti tra religione e filosofia appaiono assai più sfumati che nella nostra tradizione. A voler essere più precisi, la distinzione tra religione e filosofia è una conseguenza della partizione del sapere occidentale, che non trova l’analogo in molte altre culture.

I confuciani leggevano il Catechismo ricciano, dunque, come un trattato etico-morale in linea con la propria tradizione, non presentando questa alcuna limitazione di ordine dogmatico riguardo alla figura di un Essere Supremo, anzi, a detta di Confucio stesso, disinteressandosi di ciò che è al di là di questa vita.

In realtà, come si è accennato il rapporto con il Buddhismo e con il Daoismo risulta assai più complesso rispetto alle intenzioni del Gesuita maceratese, che, pur desiderandolo non riesce ad operare un distacco completo e definitivo da queste due religioni. Il problema nasce sostanzialmente come questione linguistico-semantica: come abbiamo potuto osservare, il Buddhismo è la prima religione che, trovandosi ad importare concetti alieni alla cultura cinese, è costretta a fronteggiare e risolvere problemi di traducibilità non solo di termini, ma di interi orizzonti di senso. La risoluzione di questi porta, come si è detto, alla formazione di un Buddhismo sinizzato. Inoltre, tale sinizzazione del Buddhismo passa sovente attraverso l’utilizzo di una terminologia mutuata in larga parte dal Daoismo, fatto che intreccia strettamente i destini delle due Vie.

Problemi analoghi si presentano anche nella esplicazione del Cristianesimo, religione proveniente da un contesto di senso ancora più distante, nel Celeste Impero. Nella lingua cinese appresa da Matteo Ricci erano ormai presenti significanti che potevano rendere concetti prima sconosciuti nella Terra di Mezzo: il problema è che questi termini erano quelli mutuati dalla sintesi tra religione buddhista e cultura autoctona.

Insomma, il Ricci si trova a criticare aspramente il valore veritativo di una tradizione religiosa di cui, purtuttavia, adottava significanti e linguaggio. Oltre al già citato Tian Zhu, la maggior parte dei termini che si riferiscono alla dimensione ultraterrena sono mutuati dal Buddhismo, o con esso condivisi: Tian tang, Palazzo Celeste, utilizzato dal Ricci per indicare il Paradiso, era stato adottato dal Buddhismo per tradurre il sanscrito devaloka, dimora degli dei, dislocata, nella cosmologia indiana (non solo buddhista), tra la terra e i brahmalokas, le dimore di brahma; Di yu, l’Inferno, era il termine scelto per tradurre il sanscrito naraka, luoghi di espiazione ultraterreni buddhisti, divisi in tre sezioni. Anche la parola per designare il Diavolo, Mo gui, condivide la traslitterazione della prima sillaba con Mara, il “tentatore” di Siddharta Gautama. Il termine per designare gli angeli, ovvero tian shen, spiriti celesti, è il medesimo che traduce il sanscrito deva – mentre il Protestantesimo ha preferito adottare un corrispettivo più letterale del significato greco di αγγηλλος, ovvero tian shi, messaggeri celesti. Anche nella scelta del nome di Dio le tradizioni Protestanti si differenziano dalla scelta di Ricci. A metà del IX secolo, la questione della traduzione del termine Dio si presentò anche ai rappresentanti delle Chiese evangeliche che volevano introdursi nel Celeste Impero: desiderando discostarsi dal lessico Cattolico, le differenti chiese cristiane preferirono utilizzare talvolta Shang di, talaltra Shen – termine, questo, che indica in generale uno spirito. Tale ambiguità permane nelle diverse edizioni della Bibbia presenti in lingua cinese.

La traduzione del termine “anima” risulta più complessa: riflettendo la filosofia Scolastica, Matteo Ricci l’articola in tre livelli, ovvero anima vegetativa, sensitiva e intellettiva. Per indicare le prime due, il Ricci antepone le parole zhi, pianta, e jue, coscienza, al termine hun, che designa, nella tradizione cinese, quello spirito che sopravvive alla morte fisica del corpo; per la terza, invece, viene mutuato dal Buddhismo il prefisso ling, splendente, intelligente, sempre preposto al termine hun. Quest’ultimo prefisso è largamente impiegato nel testo, per indicare anche i corrispettivi di “intelletto” e “intelligenza”.

Più che un paradosso, la dipendenza della terminologia cattolica da quella buddhista risulta essere il necessario risultato di una condivisione di contesti di significazione, di un orizzonte di senso di matrice estranea al panorama autoctono cinese: non a caso il Buddhismo, originatosi in India, condivide le origini indoeuropee del Cristianesimo, presentando un ambito semantico assai più affine alla nostra cultura rispetto al contesto delle lingue sino-tibetane. Proprio questa affinità pone le due religioni in un contrasto più diretto, secondo il pensiero di Ricci, tanto più che all’affinità del modo di porre le domande e dell’oggetto stesso del domandare corrispondono risposte assai lontane e contrastanti. Per inciso, ricordiamo che altri missionari, sempre Gesuiti, ma operanti in Paesi asiatici diversi dalla Cina, come quelli del Sudest asiatico, offrono un’interpretazione assai differente del Buddhismo e della possibilità di instaurare un dialogo con questa Via. Così, Cristoforo Borri nell’attuale Vietnam e vari altri confratelli in Siam vedono sostanziali affinità soprattutto con l’etica e la morale buddhiste, tali da consentire un fertile interscambio. Ma questa, come si direbbe, è un’altra storia.

Al di là delle singole scelte di campo, legate al contesto temporale e spaziale in cui si trovò ad operare, ciò che risulta di sommo interesse, come si accennava all’inizio della presente esposizione, è il lascito ricciano non solo nell’ambito del metodo missionario, ma anche in quello filosofico. Nonostante il suo pensiero rimanga per molti aspetti sostanzialmente legato all’aristotelismo tomista, che nel dialogo con il letterato confuciano intessuto nel Tian Zhi Shu Yi difende da visioni diverse, l’apertura ricciana verso la possibilità di un ascolto reciproco, che passi necessariamente per un apprendimento serio ed approfondito della lingua e del contesto culturale dell’interlocutore, apre un sentiero nuovo ed eversivo, che assume forme ed esiti assai interessanti nella metodologia filosofica contemporanea. Come un fiume carsico, il cui percorso nascosto scava in profondità rocce millenarie, per poi riemergere con una portata sempre maggiore, la questione degli altri, pluralmente declinati, delle loro lingue e culture, della loro resistenza ad una qualsiasi reificazione o cristallizzazione, si affaccia alla riflessione filosofica contemporanea con drammatica urgenza.

Nell’epoca contemporanea, che vede il mondo assumere una dimensione globale e nel contempo locale, il tessuto delle relazioni umane, che ne costituisce una parte fondamentale, assume pieghe e conformazioni nuove, talvolta frutto dell’esasperazione di dinamiche obsolete – e pur tuttavia ancora presenti nelle relazioni tra culture diverse – talaltra determinate dai nuovi assetti che la storia ha dispiegato. Non più rinchiudibile nell’ottica di una sola prospettiva, il pensiero filosofico si trova ad oggi a fronteggiare una tra le sue sfide più rischiose, ovvero quella che lo pone di fronte alla sua stessa precarietà, limitatezza, parzialità. I tempi, i luoghi e i non-luoghi odierni aprono dinamiche che approssimano sempre di più “l’Altro”, non più pensabile solo come concetto-limite, come realtà complementare all’Ipse, ma come entità a sé stante, concreta, esistente nonostante l’assolutizzazione del medesimo. Dalle periferie, dai confini, dai limiti dello spazio di cui l’Io si percepiva narcisisticamente il centro, gli altri, pluralmente declinati, parlanti lingue diverse, portatori non solo di  logoi, ma anche di mythoi – per dirla con Panikkar – differenti vengono a reclamare una dignità a lungo negata, ad esigere compensazione per i lunghi secoli di colonialismo, non solo inteso come dominazione fisica, politica ed economica, ma anche come supremazia culturale. Dall’alto della propria posizione egemone, determinata in gran parte da dinamiche di sfruttamento e violenza, di reificazione della differenza ad oggetto di osservazione, nel più felice dei casi, il “pensiero unico” del cosiddetto “Occidente” viene nella contemporaneità glocale ad essere duramente messo in discussione, ad essere relativizzato, considerato non più come “faro illuminante” in virtù di un più perspicuo utilizzo di una ragione umana universale, bensì come voce tra le altre.

La pretesa di Universalità del pensiero filosofico occidentale viene contestata proprio in virtù della sua incapacità di tematizzare e comprendere le questioni che la polifonia e la polilogia contemporanea solleva, del suo carattere assertivo e poco disposto ad un dialogo, di cui molto si è parlato ma che raramente ha trovato una concretizzazione. Perché tale doverosa critica non conduca ad un solipsismo relativistico che, postulando l’impossibilità di una comprensione tra contesti linguistici e culturali differenti, neghi de facto ogni incontro con la diversità che non avvenga “nei termini dell’identico”, occorre che la filosofia si ponga in questione, estrinsecando la sua natura culturale e contestuale, rinunciando ad ogni pretesa di universalità che preceda il confronto dialogico con realtà filosofiche provenienti da altre culture e parlanti lingue diverse.

Ripensare metodologie, temi, presupposti e postulati è oggi una necessità che si presenta in tutta la sua urgenza al pensiero filosofico “occidentale”, per non rimanere confinato in una prospettiva parziale, relativa, incapace di render conto della complessità odierna e di prospettare  soluzioni percorribili alle problematiche che affliggono il mondo glocale.

Istanza etica, morale e politica, l’apertura della filosofia all’Intercultura si presenta non tanto nei termini della fondazione di un’ennesima disciplina, quanto di un movimento rinnovatore dell’intero panorama filosofico, che colga l’occasione offerta dal pensiero plurale per riguadagnare un ruolo di guida, sottratto dal primato della tecnocrazia economica, nelle società odierne.

L’esigenza di una pensiero della vita eticamente inteso, difatti, portatore di dialogo, di strumenti atti ad una reciproca comprensione che si opponga a scenari di conflitto e “scontri tra civiltà”, mostra sempre di più il suo carattere di urgenza. La filosofia è chiamata, dunque, a riarticolarsi come phronesis, come pensiero pratico che ecceda dai limiti dei percorsi accademici e si immerga nuovamente nella vita, pensandola e interpretandola nella poliedricità e plurivocità delle sue manifestazioni. Fondamentale è, in tale contesto, una rilettura del concetto di cultura, intesa come realtà non entificata e cristallizzata, bensì dinamica e fluida, che sollecita una più stretta interlocuzione tra filosofia ed antropologia. La riflessione sul linguaggio, sulle diverse lingue e sulla possibilità di una comprensione reciproca, che non riduca gli altri nei termini dell’identico si manifesta, inoltre, come nodo centrale di questa declinazione del pensiero filosofico, il cui percorso viene qui letto come sviluppo di istanze legate all’Ermeneutica Filosofica.

Non a caso, due dei maggiori esponenti di questa corrente, ovvero Gadamer e Ricoeur, affrontano, in diverse misure e modalità la questione della molteplicità delle lingue e dei contesti di senso che in queste si dischiudono, sollevando la questione della traducibilità come istanza non solo epistemologica, ma soprattutto etica. La necessità di aprirsi alla pluralità delle lingue è vista da Gadamer come imprescindibile per fronteggiare il rischio sempre più pressante di conflitti su scala mondiale[3], mentre Ricoeur richiama al concetto di ospitalità[4], anche linguistica, come dovere che oltrepassa la necessità epistemologica di una verità pedissequamente traducibile. Entrambe i filosofi richiamano, inoltre, il mito biblico di Babele come cifra della contemporaneità. Nel mito, si ricorda, la ricerca di un’unicità linguistica e logica è segno di una ubris mortifera, del desiderio di assolutezza che nega la pluralità e plurivocità della creazione. Letto in chiave filosofico-interculturale, si potrebbe affermare che il mito babelico veda nella pluralità delle lingue, e delle possibilità di senso da queste espresse, la soluzione al delirio logo-centrico dell’identico.

Plurilogico, polifonico e plurilinguista, il percorso della Filosofia Interculturale non si presenta nelle forme di un’ennesima partizione del sapere filosofico, ma come progetto morale, etico che dovrebbe investire la totalità dell’investigazione filosofica, riarticolandone in senso plurale forme, metodologie e presupposti. Tale plurivocità di approcci non è da considerarsi come un segno di fragilità, bensì come tratto distintivo di una forma di pensiero che, in quanto “incontro”, non può per sua stessa natura presentare eccessive rigidità o schematismi, richiamandosi sempre e comunque ad una dimensione contestuale e dialogica. In ogni confronto con un pensiero espresso in una lingua-cultura altra, è necessaria una destrutturazione reciproca dei due dialoganti, a cui deve, però, far seguito una ricostruzione di un linguaggio e di un procedere metodologico ugualmente comprensibile ai due. Vengono così a porsi le basi di ciò che Panikkar definisce “dialogo dialogale”, strumento primo dell’Intercultura, che deve la sua fondazione ad un primato morale ed etico, più che logico, avente come mira la realizzazione di scenari di pace mondiale in cui gli squilibri determinati dal neo-colonialismo vengano progressivamente sanati.

Il primo ponte gettato dal metodo ricciano, sebbene modificato in conseguenza di scenari spaziali e temporali assai mutati, ci sembra trovare delle forme compiute in tale originale sviluppo, che, come fece il Nostro maceratese, spinge ciascun pensatore ad aprirsi ad un “altro mondo” ed alla fecondità che tale dialogo dischiude.

Note

[1]   Ricciardolo, G. (2002) Jesuit Missionaries and Chinese Intelligentsia during the Late Ming and Qing Dynasties in «Ming Qing Yanjiu», Napoli

[2]   Saeki, (1951) The Nestorian Documents and Relics in China, Tokyo

[3]   Gadamer, Hans Georg (2006). “La diversità delle lingue e la comprensione del mondo” in Linguaggio. A cura di Donatella Di Cesare. Roma-Bari: Laterza.

[4]   Ricoeur, Paul (2008). Tradurre l’intraducibile. Roma:Urbaniana University Press.

 

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