Alimentazione, nutraceutica e sostanze naturali: la nuova frontiera alle pandemie del terzo millennio


Rosaria Ferrieri*

Fin dai tempi più antichi è nota la relazione tra cibo e salute. La stima dei valori energetici in ogni situazione fisiologica o patologica va integrata dalla valutazione qualitativa dei micro e macro nutrienti, con particolare attenzione a tutti quei fattori che attraverso la loro introduzione possono innescare o disattivare meccanismi patologici importanti, in primis il processo infiammatorio.

Le malattie che affliggono questo millennio sono per lo più legate a tale processo: l’obesità  e le sue complicanze metaboliche (o “globesità” ) , le patologie cardiovascolari, il cancro sono viste quindi come espressione di un lungo processo “trasformativo” (o degenerativo che dir si voglia) che pone le sue premesse in predisposizioni genetiche, e che con successive e sempre più precoci modificazioni “epigenetiche” mediate anche attraverso il sistema immunitario possono poi esprimersi attraverso l’innesco di fenomeni metabolici che traggono proprio dall’alimentazione la componente individuale più importante (ed anche forse meno valutata in primis).

Se si esaminano le implicazioni fisio-patologiche di patologie le più varie (cardiovascolari, metaboliche, tumorali, endocrinologiche, ecc.) e dei meccanismi che possono influenzare il loro sviluppo e decorso, ci si rende conto di come l’alimentazione (e quindi la nutraceutica e anche l’integrazione fito-nutrizionale) riesca ad influenzare in maniera a volte determinante il destino stesso della malattia, laddove, con tecniche applicate da scienze anche più moderne e sofisticate (come la genomica e la metabolomica) si sta studiando appunto di prevenire lo “switch” metabolico di patologie ereditarie proprio attraverso la nutrizione e la nutraceutica . È questa la “nuova frontiera” terapeutica nelle malattie pandemiche del terzo millennio; ma paradossalmente è una problematica difficile da affrontare in quanto coinvolge abitudini di vita le più diverse, status socio-economici differenti ed anche forse interessi economici che non sempre sono indirizzati ad  incoraggiare comportamenti di tipo preventivo.

Non potendo in questo contesto sviluppare tutti i capitoli collegati a questo nuovo paradigma clinico-diagnostico proverò a sintetizzare qualche concetto basilare riguardante  la “pandemia cancerosa” che a tutt’oggi rappresenta l’ambito più interessante di ricerca.

A-Le cellule cancerose sono metabolicamente più attive e captano più glucosio delle cellule normali (1)– Si sa la velocità della glicolisi è aumentata di circa 10 volte in cellule tumorali; ne è prova la scoperta e l’utilizzo diagnostico della Tomografia ad emissione di positroni (PET) che si esegue con somministrazione per via endovenosa al paziente di molecole di glucosio marcate con radioisotopi che emettono positroni; tra queste la più utilizzata è il fluoro-desossi-glucosio (18F-FDG). Oncogeni (come il PI3K) e oncosoppressori (come la p53) possono influenzare lo switch tra glicolisi anaerobica e ciclo degli acidi tricarbossilici (modulando l’espressione di specifici enzimi) e aumentare la captazione di glucosio e di glutammina. Quindi, il destino metabolico del glucosio nelle cellule tumorali contribuisce al fenotipo tumorale; ed allora una alimentazione con alte quantità di glucosio ( e cibi ad elevato Indice Glicemico) è sicuramente promotore del metabolismo della cellula tumorale; come anche l’utilizzo di integratori che fungono da “fattori di crescita” delle cellule tumorali stesse, determinando una accelerazione del metabolismo. La visione del cancro come “malattia metabolica” è stata provata dagli studi che hanno condotto alla formulazione della teoria dell’“effetto Warburg” che porta a produrre energia con risorse limitate e a favorire percorsi metabolici che possano sostenere la proliferazione cellulare: lo Switch metabolico comporta la riduzione dell’uso del ciclo degli acidi tricarbossilici ed aumenta l’attività della glicolisi anaerobica (agevolata, appunto, anche dall’innesco di fattori trascrizionali), determinando un elevato consumo di glucosio e la produzione di acido lattico.

B-La attività delle cellule Natural Killer è inibita  dall’alimentazione ad alto indice glicemico  (2) – Le cellule NK sono le più attive nella sorveglianza antineoplastica e antivirale , sono in grado di produrre citochine (come IFN-gamma) e non necessitano di attivazione specifica: sono capaci di  eliminare fino a 2 miliardi di cellule neoplastiche in poche settimane (3). Se la loro attività viene a ridursi ciò costituisce un rischio per l’insorgenza delle patologie tumorali; quindi le farine bianche, gli zuccheri raffinati, l’alcol ecc. sono alimenti da ridurre o eliminare , sia in prevenzione ma anche in corso di patologia neoplastica) per consentire un migliore funzionamento della prima linea di difesa cellulare; non è anche da dimenticare che  le cellule NK provvedono a disinnescare il processo infiammatorio che si attiva con la presenza dell’IGF-1. È proprio attraverso il processo infiammatorio che l’ambiente diventa favorevole alla progressione neoplastica, come dimostrato in numerosi studi e tale infiammazione favorisce anche il processo di angiogenesi tumorale. Anche in questo caso l’attivazione non è automatica, ma viene ad essere determinata in seguito all’ipossia tessutale, come richiesta di vascolarizzazione accessoria da parte del tessuto: lo switch angiogenico può verificarsi in qualsiasi fase della progressione tumorale, in dipendenza del tipo di tumore, ma, nella maggior parte dei casi, risulta essere un prerequisito per la crescita del tumore stesso.

C-Il processo di angiogenesi tumorale  e le strategie naturali per contrastarlo: la PEA e la curcumina- I meccanismi responsabili per l’angiogenesi tumorale non sono ancora stati delucidati completamente, ma si propone uno schema semplificativo. Le cellule endoteliali giocano un ruolo importante nella neovascolarizzazione dei tumori indotta dai microtumori. Da questo punto di vista il fattore prossimale più importante per l’angiogenesi è il fattore di crescita endoteliale vascolare [vascular entothelial growth factor (VEGF)]. Il VEGF è un dei fattori di aumento della permeabilità vascolare e della promozione della metastasi più importanti e potenti. Su di esso agiscono vari fattori proinfiammatori e proangiogenetici come il NO e le prostaglandine, ma anche il TNF-α.
La stabilità e coerenza della matrice extracellulare è un’altro dei fattori fondamentali di controllo dell’angiogenesi, dato che per poter vascolarizzare un tumore è necessario che la matrice extracellulare perda di coerenza e permetta la diffusione di vari fattori e la crescita del nuovo vaso.
Anche le condizioni di ipossia sono favorevoli al processo di angiogenesi. In condizioni di normossia il fattore inducibile da ipossia [Hypoxia-inducible Factor 1 (HIF-1)] viene degradato, ma in condizioni di ipossia viene degradato di meno ed è quindi libero di interagire con altri cofattori e stimolare l’angiogenesi. Dato che il microtumore è, prima della vascolarizzazione, ipossico, in esso vengono espressi vari cofattori angiogenetici.

Uno dei punto di snodo fondamentali che unisce questi processi sono le attività del fattore nucleare kappa B (NF-kB) e della proteina attivatrice-1 (AP-1), due fattori di trascrizione genica (sempre in eccesso nelle cellule tumorali) fondamentali nella risposta proinfiammatoria LPS-indotta. Essi controllano molte attività cellulari: l’NF-kB media l’attività immunitaria, l’infiammazione, le collagenasi e la proliferazione cellulare, e l’AP-1 soprattutto la proliferazione cellulare. Di particolare interesse il legame tra NF-kB ed infiammazione, perché questa facilita l’angiogenesi, l’invasione e le metastasi, e d’altro canto è un importante fattore protumorale.

A loro volta NF-kB e AP-1 mediano l’espressione di iNOS (e quindi la produzione di NO), di COX (e quindi le prostaglandine) ed il TNF-α. Questi fattori proinfiammatori, sommati all’azione dell’ipossia tramite HIF-1 e AP-1 e vari altri cofattori, inducono l’espressione di VEGF e aumentano l’infiammazione. La VEGF a sua volta, causa una cascata metabolica che porta ad una degradrazione della matrice extracellulare, alla proliferazione endoteliale ed in definitiva all’angiogenesi.

La terapia antiangiogenetica di taluni tumori è una delle strategie messe in atto recentemente  e in tal senso sono  in fase di studio alcune molecole naturali con  effetto antiangiogenetico, una delle quali è la PEA ( palmitoiletanolamide) : derivato degli acidi grassi di membrana (amide tra acido palmitico ed etanolamina, composto endogeno presente largamente negli organismi viventi animali e vegetali) possiede proprietà cannabimimetiche, pur non legando direttamente i recettori per i cannabinoidi CB1 e CB2 in vitro.

Poiché essa è prodotta on demand durante l’infiammazione ed agisce localmente antagonizzando lo stimolo infiammatorio è stata definita ALIAmide (Autacoid Local Injury Antagonism Amide). la PEA riduce il processo pro-infiammatorio e proliferativo indotto da Aβ, noto come gliosi reattiva, valutato sia come vitalità cellulare che come rilascio di mediatori pro-infiammatori. Inoltre la PEA è stata capace di ridurre l’espressione di molecole proangiogeniche, quali il TNF-α, la MMP-9, VEGF, e la trascrizione di quest’ultimo, mostrando così la sua capacità anche nel modulare l’angiogenesi connessa alla gliosi reattiva indotta.

Una altra sostanza con effetti simili è la Curcuma longa. Si tratta di una spezia utilizzata da secoli nella medicina tradizionale indiana (ayurvedica) ed hawaiana, La tradizione ayurvedica riporta l’origine dell’uso della curcuma a 10.000 anni fa, quando il dio Rama venne sulla Terra. Se ne usa la polvere (gialla, pertanto viene anche indicata come zafferano delle Indie) della radice essiccata., che ha un sapore piccante. I curcuminoidi e la curcumina agiscono sul processo di angiogenesi tumorale tramite processi multipli ed interdipendenti, che risultano essere: una azione a livello dei fattori di trascrizione Nf-kB (fattore nucleare kB) e della AP-1 (proteina attivatrice-1), legati ai processi infiammatori, e l’Egr-1 (questa azione ha attenuato l’espressione della IL-8 in linee cellulari ed ha evitato l’induzione della sintesi di VEGF); l’inibizione dell’angiogenesi mediata dall’ossido nitrico e dall’iNOS e l’inibizione dell’espressione di COX-2 e LOX;  l’ azione a livello di fattori angiogenetici: il fattore di crescita endoteliale vascolare [VEGF], principale fattore di migrazione, gemmazione, sopravvivenza, e proliferazione durante l’angiogenesi, e il fattore di crescita basilare dei fibroblasti [bFGF]; e infine l’ azione a livello della stabilità e della coerenza della matrice extracellulare (ECM), con downregolazione della MMP2 (metalloproteinasi-2 di matrice) e della MMP9, e upregolazione della TIMP1 (inibitore tessutale della metalloproteinasi-1).

4- Il ruolo dei lipidi: la scienza che consente di valutarne rischi e benefici in corso di patologie neoplastiche – Lo studio del  complesso sistema metabolico cellulare si è arricchito negli ultimi anni di tecniche avanzate che ne consentono l’analisi più dettagliata; in particolare , l’avvento delle scienze cosiddette “omiche” ha reso possibile di identificare simultaneamente migliaia di specie molecolari, le più diverse, consentendo un approccio medico/terapeutico molto più mirato e per aspetti che prima del loro impiego non venivano nemmeno considerati; tra queste scienze consideriamo qui la “lipidomica”, una disciplina facente parte della metabolomica, che mira a definire struttura e funzioni di tutte le specie molecolari di lipidi presenti a livello cellulare: questi, come tali, non solo sono presenti nella matrice a doppio strato delle membrane cellulari (quindi influenzano le diverse funzionalità di essa) ma fungono da deposito di energia e ricoprono il ruolo anche di secondi messaggeri, partecipando ai meccanismi di Cell-signaling ( attraverso domini cosiddetti “raft”). La separazione e identificazione di queste molecole si basa sulla metodica di Gas-cromatografia (Gc o HPLC) attualmente accoppiate anche a tecniche di spettrometria di massa  con varie sorgenti ( tecniche MALDI o ESI o NMR). L’enorme complessità del lipidoma cellulare (comprendente fino a circa 200.000 differenti specie derivate da lipidi) si sta rivelando una fonte di informazioni utili e utilizzabili in diverse patologie, tra cui quella cancerosa: oramai è ampiamente accertata l’ipotesi del ruolo dei lipidi, come modulatori diretti di funzioni proteiche o segnali intracellulari, come ligandi per recettori di membrana o nucleari nonché come neuro modulatori. Questi studi sono stati determinanti nella  ridefinizione di pattern clinico-diagnostici in corso di patologie neoplastiche che ora prendono in considerazione la lipidomica come strategia terapeutico/nutrizionale per la modulazione del processo infiammatorio e/o degenerativo e la regolazione del messaggio di “apoptosi” tumorale (utile quindi anche in prevenzione, per la sua funzione di modificazione “epigenetica” dei vari processi). Pertanto, la composizione della dieta e dei prodotti che in essa vengono utilizzati (con particolare riferimento ai prodotti lavorati nelle industrie alimentari) rappresenta un importante “messaggio”cellulare che, come è stato ampiamente dimostrato, ha anche “effetto epigenetico” influenzando l’espressione genica e riuscendo a “mutare” un trend metabolico (vedi ad esempio l’effetto delle diete sulle concentrazioni di omocisteina nel sangue). Oltretutto, proprio dallo studio approfondito del ruolo dei lipidi come modulatori e /o trasmettitori sono stati individuati altri nuovi target terapeutici a cui essi possono contribuire. E qui torniamo a parlare della palmitoiletanolamide (PEA), amide tra acido palmitico e etanolamina, largamente presente come composto endogeno negli organismi animali e vegetali, che abbiamo già presentato come inibitore dell’angiogenesi tumorale. La PEA, sintetizzata a partire dal precursore fosfolipidico, viene rilasciata in seguito a stimoli lesivi al fine di prevenire l’eccessiva propagazione della risposta infiammatoria o di inibire le reazioni di ipersensibilità ritardata, risultando efficace anche nella riduzione di produzione della ciclo ossigenasi ( COX-2)  e di TNF-alfa. Oltre all’attività antiinfiammatoria, la PEA presenta una serie di effetti farmacologici che, nel campo della lotta al dolore,  la stanno rendendo sempre più interessante anche per le innumerevoli applicazioni terapeutiche e le scarse interazioni farmacologiche: effetto analgesico importante tramite l’attivazione degli endocannabinoidi e tramite l’attivazione del recettore PPAR-alfa  la cui stimolazione produce profondi e rapidi effetti in modelli di dolore acuto, infiammazione persistente e dolore neuropatico; inoltre altri effetti documentati sono risultati essere:  riduzione dello stress ossidativo ( riduzione nella produzione di NO), con protezione dell’endotelio vascolare miocardico, effetto tramite regolazione dei recettori PPARS  a livello non solo dell’infiammazione ad essi correlata ma anche di altri meccanismi che riconoscono l’utilizzo di altri sottogruppi di PPARs , tra cui la metabolizzazione dei lipidi e degli zuccheri essendo alcuni tipi di recettori (il PPAR-gamma) presente nel tessuto adiposo. Ma al momento attuale altri i tessuti in cui i PPARs sono espressi (muscolare, cervello, retina, colon, sistema immunitario , epitelio mammario, ecc) sono allo studio per valutare la possibilità e l’efficacia nell’impiego della PEA in diversi tipi di patologie comprese quelle tumorali , in quanto i composti cannabinoidi si sono rivelati in grado di inibire la proliferazione e di indurre apoptosi in un considerevole numero di linee cellulari tumorali umane appartenenti appunto ai citati tessuti. E sembra che tale attività si stia confermando (5) (6).

Concludendo questo mio contributo vorrei sottolineare l’importanza della ricerca in campo nutraceutico per poter dirimere la questione dell’utilità o meno dei cosiddetti integratori alimentari (più precisamente detti nutraceutici) , nei confronti dei quali esiste molto scetticismo e parecchia disinformazione, molti colleghi medici ancora considerano queste supplementazioni inutili o addirittura dannose. La verità però è molto diversa. Intanto un numero immenso di studi dimostra l’utilità preventiva e terapeutica di sostanze nutrizionali (così come di fitoterapici).  Inoltre viene stimato che oltre il 90% delle persone presenti una o più deficienze nutrizionali, non così gravi da far insorgere un’avitaminosi acuta, ma sufficienti ad alterare nel tempo il metabolismo e ad aumentare il rischio di malattie croniche; questa condizione che viene riconosciuta come “la malnutrizione del terzo millennio” si caratterizza con l’associazione di malattie metaboliche” da accumulo” (diabete, iperlipemie, ecc) con patologie carenziali anche gravi ( in primis quelle da carenza di vitamina D  e vitamine del gruppo B).

 

Bibliografia

(1) Vander Heiden MG, Cantley LC, Thompson CB: Understanding the Warburg effect: the metabolic requirementsof cell proliferation– Science – 2009 -; (5930):1029-33

(2) Levy EM e coll:Natural killer cells in human cancer:from biological functions to clinical applications– J.Biomed.Biotechnol.- 2011-:676198

(3) Purdy AK e col.: Natural killer cells and acne:regulation by killer-cell Ig-like receptors –KIR—Cancer Biol Ther 2009 Dec ; 8(23): 2211-20

(4) Jennifer L. et al: Clinical application of metabolomics in Oncology: a review- Clin. Cancer. Res 2009. 15 (2) 431-440  5-

(5) Grimaldi  C. and Capasso A.: The endocannabinoid system in cancer therapy: an overviw . Curr.Med.Chem .- 2011:  18(11), 1575-1583

(6)- Guindon J., Hohmann G.- The endocannabinoid system and cancer: therapeutic implication– Brit. Journ. Pharmacol. –2011:  163, 1447-1463

 

 

 




Il mercato e le politiche per l’obesità infantile

John Cawley*

Assumendo una prospettiva economica, quest’articolo illustra come l’influenza del mercato abbia contribuito al recente aumento dell’obesità infantile negli Stati Uniti, e propone una serie di misure politiche per arginare il fenomeno. I rischi per la salute associati all’obesità infantile, tra cui asma, ipertensione, diabete di tipo II, malattie cardiovascolari e depressione, hanno indotto le autorità mediche a dichiarare la sua crescita sintomo di uno “stato di allerta” per la salute pubblica dei cittadini americani.

 

In che modo il mercato ha contribuito all’aumento dell’obesità infantile?

Ciò che innanzitutto ha contribuito all’affermarsi di un saldo calorico sempre più positivo, è stata la riduzione del prezzo dei beni alimentari più calorici. Secondo il U.S. Bureau of Labour Statistics infatti, tra il 1989 e il 2005, il prezzo reale dei grassi è diminuito del 26.5%, quello di dolci e zuccheri del 33.1%, mentre quello di frutta e verdura è cresciuto del 74.6%. Gli alimenti densamente energetici sono dunque disponibili sul mercato a prezzi nettamente inferiori rispetto a cibi a basso contenuto calorico.

La crescita dei salari ha inoltre aumentato il costo-opportunità della preparazione casalinga dei pasti, scoraggiando l’investimento di tempo in attività culinarie a favore della prima migliore alternativa disponibile. Questa circostanza è particolarmente vera per chi possiede almeno un diploma di scuola secondaria, perché in media chi è più istruito ha uno stipendio più alto rispetto a chi possiede un titolo di studio inferiore. Anche i cambiamenti tecnologici hanno favorito la riduzione del tempo per cucinare, creando incentivi per l’utilizzo di pasti preconfezionati. Si è così verificato un significativo spostamento dei consumi verso alimenti industriali trasformati che, considerato il prezzo basso e l’immediata reperibilità, hanno a loro volta influito sull’andamento dei tassi di obesità. L’evidenza empirica dimostra inoltre che tra coloro che hanno tratto maggiore vantaggio dalle innovazioni tecnologiche, si osservano i maggiori aumenti di peso. Del resto, l’incidenza dell’obesità è direttamente proporzionale alla disponibilità di alimenti trasformati, quindi superiore nelle economie più sviluppate. Anche i cambiamenti nel mercato del lavoro femminile hanno inciso sulla riduzione del tempo dedicato all’economia domestica. Insieme all’aumento del costo opportunità sopra menzionato, la crescente forza lavoro “in rosa” ha contribuito all’aumento della frequenza dei pasti consumati fuori casa.

Il consumo di pasti fuori casa è peraltro è strettamente connesso all’obesità perché da un lato è difficile stabilire il loro contenuto calorico e dall’altro le porzioni servite sono spesso molto più abbondanti del necessario.

Un ruolo importante in relazione all’aumento dell’obesità infantile è giocato dalla pubblicità. E’ stato dimostrato, ad esempio, che se un bambino consumasse soltanto alimenti pubblicizzati dai media, la sua dieta sarebbe ben lontano dalle raccomandazioni nutrizionali indicate per gli americani (Dietary Guidelines for Americans). Basti osservare la sostituzione progressiva delle pubblicità di frutta e verdura con quelle di ristoranti fast-food, bibite e snack.

Anche la politica agricola potrebbe incidere indirettamente sulla crescita dei tassi di obesità. La politica di sostegno agli agricoltori è infatti stata fortemente criticata perché sussidia la produzione di mais e, di conseguenza, quella di sciroppo di glucosio-fruttosio (ottenuto con amido di mais) che è largamente presente nelle bibite gasate, nei succhi di frutta, nelle caramelle e in molti altri alimenti dolci.

 

Le ragioni economiche per l’intervento nel mercato e strategie per scegliere le politiche pubbliche più efficaci

Le autorità di sanità pubblica devono intervenire nel mercato per contenere i costi e i rischi dell’obesità. Ci sono diverse ragioni economiche che giustificano l’intervento dello Stato e ognuna di esse si può tradurre in azione politica.

In primo luogo, nel libero mercato i produttori generalmente non forniscono tutte le informazioni di cui i consumatori avrebbero bisogno. Il governo dovrebbe dunque intervenire laddove il mercato fallisce, dando ai consumatori quelle informazioni nutrizionali che li aiutino a scegliere in modo più consapevole. Il Nutrition Labelling and Education Act (Nlea) del 1990 effettivamente obbliga i produttori a indicare i valori nutrizionali sulle confezioni degli alimenti, ma per il momento non esiste nessuna legge che vincoli anche ristoranti o fast-food a fare lo stesso. Intuitivamente, basterebbe estendere il campo di applicazione dell’Atto anche agli esercizi commerciali di ristoro, indicando il contenuto calorico dei piatti sul menu. La seconda ragione economica che spinge a chiamare l’intervento statale, riguarda il fatto che i costi dell’obesità sono largamente sostenuti dalla società nel suo complesso. Uno studio del 2003 stima per esempio che, attraverso Medicare e Medicaid – programmi federali per la sanità negli Usa – i contribuenti statunitensi pagano soltanto metà dei costi per la cura di malattie legate all’obesità (Finkelstein et al., 2003).

Il terzo motivo riguarda nello specifico l’obesità dei più giovani. I bambini non sono ovviamente ciò che tradizionalmente gli economisti definiscono “consumatori razionali”: non possono valutare in modo critico le informazioni a loro destinate, né sanno pesare in anticipo le conseguenze delle loro azioni.

Se il problema dell’asimmetria informativa può essere risolto con politiche mirate, lo stesso non si può dire per le altre due questioni, che necessitano invece un intervento di tipo indiretto. Da un punto di vista economico, il modo più corretto per scegliere tra diversi interventi è analizzare il rapporto costo-efficacia. Il primo passo da fare dovrebbe essere stimare tutti i costi e i benefici associati a ogni possibile intervento e ordinarli sulla base del costo, per consentire ai policymaker un’allocazione delle risorse il più efficiente possibile.

L’interesse della politica si può concretizzare in diverse azioni. Si potrebbero ad esempio introdurre delle tasse o dei sussidi che scoraggino il consumo di alcuni alimenti e incoraggino quello di cibi più sani insieme alla pratica di attività fisica. L’introduzione di una tassa su un prodotto molto calorico può rivelarsi efficace a tal punto da incidere sui livelli di obesità, agendo così anche sui suoi costi sociali. Un’altra possibilità è il sussidiare uno stile di vita sano e “colpire” l’obesità in modo indiretto. Ad esempio, negli Stati Uniti, alcuni governatori locali hanno dato dei sussidi per la frequentazione di parchi pubblici, palestre o piscine, e hanno finanziato corsi di educazione alimentare o attività di sport di squadra nelle scuole pubbliche. Tanto negli Stati Uniti quanto altrove, un luogo in cui si potrebbe rivelare molto utile intervenire sono proprio gli istituti scolastici. Le autorità locali potrebbero ad esempio richiedere il ritiro dalle scuole dei distributori automatici di bibite e merendine o proteggere i bambini dalle pubblicità dei cibi spazzatura. I più giovani sono infatti più sensibili al consumo dei prodotti reclamizzati e questo ha chiaramente conseguenze negative sui trend dell’obesità.

Per quanto concerne le politiche agricole, i Governi dovrebbero invece promuovere analisi costi-benefici per valutare il beneficio netto dei sussidi alla produzione e del sostegno dei prezzi, in modo da identificare – ed eventualmente modificare o cancellare – quei programmi pubblici che indirettamente contribuiscono all’incremento dell’obesità.

 

Conclusioni

Sono oggi ancora poche le analisi costi-benefici per valutare l’efficacia dell’intervento pubblico. Tuttavia in letteratura ci sono diversi studi che, utilizzando il metodo Qaly – Quality Adjusted Life Years – , hanno calcolato quanto costerebbe alle casse statali “risparmiare un anno di vita umana” attraverso l’attuazione di una determinata misura politica. Il criterio decisionale per un’analisi costi-benefici dovrebbe essere, in generale, scegliere l’intervento con il più basso costo per Qaly e continuare lungo quella strada finché il budget non si esaurisce o finché il costo non supera una certa soglia. Un segnale importante arriva dal recente innalzamento di tale soglia che da 50mila dollari è arrivata addirittura a 200mila dollari (Roux, 2000; Hirth, 2000). Studi recenti dimostrano che, potenzialmente, sono molti gli interventi da mettere in atto per la diminuzione dei tassi di obesità: alcuni riguardano la prevenzione, mentre altri, più specifici, le cure mediche. Anche piccoli cambiamenti nel comportamento, diretti o indiretti che siano, potranno infatti rivelarsi un aiuto sostanziale per la riduzione dei tassi di obesità in età infantile nei prossimi decenni.

 

Riferimenti bibliografici

Finkelstein, E., Fiebelkorn, I., and Wang, G., “National Medical Spending Attributable to Overweight and Obesity: How Much and Who’s Paying?” Health Affairs Web Exclusive, May 14, 2003.

Hirth, R.A. (2000) Willingness to pay for a QALY: in search for standards Medical Decision Making Vol.20 No3

Roux, L. (2000) “Evaluation of Potential Solutions to the Health and Economic Problems Presented by Physical Activity: A Cost-Utility Analysis,” unpublished manuscript, Centers for Disease Control and Prevention, 2005.

 




Nutrizione, salute e interventi di politica economica in Europa

Mario Mazzocchi*

Mai come oggi l’opinione pubblica è stata soggetta ad una campagna di sensibilizzazione sulle implicazioni per la salute di scelte nutrizionali inadeguate. Le valutazioni prodotte recentemente degli elevati costi sanitari associati ad abitudini alimentari improprie hanno portato il tema delle misure nutrizionali ai primi posti nell’agenda delle priorità politiche, sia a livello europeo che nei singoli stati membri dell’Unione.

L’ultimo rapporto dell’International Obesity Task Force (IOTF) ha sottolineato il forte aumento nei tassi di obesità in Europa e in alcune aree la popolazione maschile adulta sovrappeso od obesa raggiunge il 67%, livello osservato precedentemente solo in alcune zone degli Stati Uniti.

Il fatto che i tassi maggiori emergano nelle regioni meridionali non sorprende, se si considera che il problema tende ad essere più rilevante nelle aree con reddito pro-capite più basso. Anche nei paesi in via di sviluppo in cui persistono situazioni di sottoalimentazione e fame, l’obesità è diventata un fenomeno rilevante con pesanti conseguenze sanitarie ed economiche.

In Europa, il dato più preoccupante è quello relativo ad adolescenti e bambini, che lascia prevedere un aumento esponenziale delle malattie legate all’alimentazione nei prossimi decenni. Sebbene non esistano ancora statistiche ufficiali e coerenti a livello europeo, uno studio sui dati esistenti a livello nazionale sembrerebbe indicare l’Italia come il paese con il più alto numero di bambini sovrappeso per la fascia tra i 7 e gli 11 anni: secondo i parametri IOTF più di un bambino su tre (circa il 36%) ha un eccesso di massa corporea.

L’eccesso di peso e in particolare l’obesità sono riconosciuti come fattori determinanti per le malattie non trasmissibili, in particolare diabete, malattie cardiovascolari, ipertensione e tumori. La valutazione dei costi rimane un complesso esercizio per gli economisti, in particolare risulta problematica la valutazione dei costi indiretti, cioè non rilevabili direttamente dalle spese sanitarie. L’Organizzazione Monetaria della Sanità (OMS) valuta che i costi diretti dell’obesità in Europa arrivino fino al 7% dei costi sanitari complessivi, mentre alcuni studi specifici valutano un ulteriore 3-4% per la componente indiretta (es. riduzione nella produttività del lavoro, diminuzione dei redditi famigliari, ecc.). Secondo le linee guida promosse dall’OMS, la tendenza all’obesità può essere contrastata correggendo le diete caratterizzate da un eccessiva componente energetica rispetto ai fabbisogni, in particolare il consumo eccessivo di grassi saturi, sale e zucchero e l’insufficiente consumo di frutta, ortaggi e alimenti ricchi di fibre.

L’intervento sulle scelte nutrizionali richiede misure complesse ed articolate, la cui efficacia è ancora oggetto di discussione e spesso con implicazioni non chiare per gli attori della catena agroalimentare e i consumatori stessi. Recentemente si è svolto presso l’Università di Reading, in Inghilterra, un convegno dell’Associazione Europea degli Economisti Agrari dedicato all’analisi degli aspetti politici ed economici del legame tra aspetti nutrizionali e salute (http://www.eaae.rdg.ac.uk/). La base di partenza dei contributi scientifici è stata quella di superare la logica di interventi a livello di singolo prodotto e di considerare invece l’aspetto complessivo della “dieta” del consumatore, frutto di diverse determinanti di natura sociale, economica e psicologica. Si tratta di una nuova frontiera per le politiche agroalimentari e per la ricerca, con una necessità di confronto e integrazione con le misure di carattere sanitario e la necessità per la ricerca di un approccio più marcatamente interdisciplinare.

 

Politiche nutrizionali nell’Unione Europea e negli stati membri

L’Unione Europea non ha una politica nutrizionale comune, ma diverse politiche comunitarie hanno un impatto sui comportamenti di consumo alimentare. Recentemente si è aperto il dibattito sulle implicazioni della Politica Agricola Comunitaria (PAC) in termini di comportamenti alimentari, con posizioni contrastanti. I detrattori della PAC sottolineano gli effetti perversi di misure quali il sostegno ai prezzi di frutta, verdure e ortaggi, i sussidi al consumo di latte intero nelle scuole o la vendita sottocosto di burro all’industria dolciaria per favorirne lo smaltimento. D’altra parte, l’impatto di queste misure sembra piuttosto limitato, mentre diversi ricercatori sostengono che nel suo complesso la PAC abbia un effetto positivo in termini nutrizionali. In effetti, secondo le stime OCSE, il sostegno al prezzo di frutta e verdura in Europa è marginale rispetto a quello di latticini e zucchero. Inoltre, l’impatto finale sui prezzi al consumo è considerato scarsamente rilevante rispetto ai margini dell’industria di trasformazione e della grande distribuzione, per cui difficilmente una ricalibrazione degli strumenti comunitari avrebbe gli effetti desiderati nel reindirizzare le abitudini alimentari dei consumatori europei.

Le politiche europee più rilevanti sono invece quelle relative alla promozione della salute e alla protezione del consumatore. Le prime sostengono campagne di informazione, le seconde regolamentano aspetti fondamentali quali ad esempio l’etichettatura nutrizionale sui prodotti trasformati. L’aspetto legislativo più influente è al momento la regolamentazione delle cosiddette nutrition claims (indicazioni nutrizionali), con una proposta di regolamento europeo che prevede il rispetto di alcuni standard minimi in termini di contenuto di grassi saturi, zucchero e sale e stabilisce diverse norme sulla pubblicità relativa agli aspetti nutrizionali, non ultime la presenza di una base scientifica alle indicazioni fornite e la facilità di interpretazione delle etichette.

Alcuni paesi hanno invece adottato politiche nutrizionali più decise. Un caso esemplare è quello della Finlandia, che negli anni ‘70 aveva il più alto tasso di mortalità per malattie cardiovascolari, ma un cambiamento sostanziale nelle abitudini alimentari ha condotto ad una riduzione nei tassi di mortalità fino al 68% in alcune regioni nelle ultime tre decadi. L’intervento politico è consistito in azioni preventive (programmi educativi), in cambiamenti nelle caratteristiche nutrizionali degli alimenti serviti in scuole e mense, ma anche in ristoranti e supermercati, grazie ad una strategia di concertazione di coinvolgimento diretto delle comunità locali e degli attori della catena agroalimentare. È interessante notare che la Finlandia adottava politiche protezionistiche e di sostegno dei prezzi ben prima dell’ingresso nell’Unione Europea e alcuni studi hanno evidenziato un miglioramento della situazione quando le misure nazionali sono state sostituite da quelle della PAC. In generale, i paesi del Nord-Europa sono quelli più avanzati nell’adozione di politiche nutrizionali, anche perché il problema dell’obesità è emerso anteriormente rispetto ai paesi mediterranei. In Inghilterra, dove il tasso di obesità nel 2002 era al 22%, sono già in atto massicce campagne di informazione per aumentare il consumo di frutta e verdura e ridurre quello di sale, oltre a misure per migliorare l’alimentazione nelle mense scolastiche e a piani locali per promuovere l’attività fisica. Inoltre, verso la fine del 2004 è stato pubblicato un Libro Bianco che mira ad estendere l’intervento politico fino all’adozione di standard nutrizionali per i prodotti trasformati (da stabilire in concertazione con l’industria alimentare) e ad un interessante schema di etichettatura che prevede una segnalazione “a semaforo”, con etichette rosse per i cibi nutrizionalmente inadeguati, verdi per quelli più salutari e gialle per quelli a rischio.

In Italia, nonostante recentemente si sia osservata una maggiore sensibilità al problema soprattutto in risposta al preoccupante dato sull’obesità infantile, l’intervento politico rimane limitato. Il Piano Sanitario Nazionale prevede azioni informative e il monitoraggio dell’obesità. Sono state inoltre pubblicate e distribuite linee guida per un’alimentazione più sana, mentre altre misure provvedono a finanziare campagne informative televisive e a promuovere una serie di iniziative educative in circa 10000 scuole, con distribuzione di pacchetti informativi e l’organizzazione di una competizione a livello scolastico.

 

I potenziali strumenti di politica nutrizionale

Lo spettro delle misure adottabili è ben più ampio e nel seminario di Reading si è discusso in particolare degli strumenti più controversi, soprattutto l’introduzione di tasse o sussidi sui nutrienti contenuti nei prodotti alimentari.

La cosiddetta “fat tax”, calibrata per aumentare il prezzo degli alimenti con contenuto eccessivo di grassi saturi o altri nutrienti dannosi e discussa soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, rischia di essere uno strumento iniquo e di difficile implementazione. Iniquo perché andrebbe probabilmente ad incidere maggiormente sulle fasce più povere della popolazione, per le quali la quota di spesa destinata all’alimentazione è più rilevante, difficilmente implementabile perché una simile politica non può essere adottata unilateralmente da uno Stato membro e non rientrerebbe comunque nelle attuali competenze dell’Unione Europea.

Alternative più interessanti, ma comunque sempre di difficile introduzione anche per la potenziale reazione dell’industria agroalimentare, sono la tassazione a livello di input produttivi per forzare le aziende trasformatrici ad utilizzare in misura minore gli ingredienti meno sani o l’introduzione di sussidi a livello di commercio al dettaglio, per rendere meno costosi prodotti quali frutta e verdura.

Provocatoria, ma non quanto può sembrare a prima vista, è la proposta di introdurre una “tassa sull’obesità”. In un certo senso questa esiste già in alcuni paesi, dove ad esempio le compagnie di assicurazione impongono premi più alti ad individui sovrappeso essendo questi considerati maggiormente a rischio per certi tipi di patologie. In una prospettiva analoga, alcuni studiosi hanno proposto l’introduzione di incentivi e sgravi fiscali per gli individui che dimostrano di intraprendere attività e spese mirate alla riduzione del proprio peso. La lista di potenziali interventi politici è comunque nutrita e include misure per la regolamentazione della pubblicità (in particolare quella mirata alle fasce infantili), l’introduzione di standard nutrizionali per i prodotti in commercio, il riconoscimento della responsabilità legale delle aziende produttrici di alimenti. Viste le implicazioni per industria e grande distribuzione, misure di questo genere implicheranno alti livelli di concertazione e difficilmente verranno introdotte nel breve termine. L’evoluzione più probabile è che correzioni da parte di industria e distribuzione saranno indotte da pressioni sul lato della domanda, risultato delle campagne di sensibilizzazione ed informazione. A livello di azione politica, così come avvenuto in Finlandia e in altri paesi nord-europei, anche l’Italia dovrà co-ordinare più efficacemente politiche sanitarie ed agro-alimentari, con sviluppi fondamentali a livello di amministrazioni regionali, data l’autonomia legislativa in materia sanitaria in seguito alla Legge costituzionale 3/2001.




“Obesità” e fattori ambientali

Simonetta Marucci*

*Endocrinologa, Nutrizionista, Esperta in Disturbi del

Comportamento Alimentare – ASL2 Perugia. Centro per DCA: Palazzo Francisci

(Todi)

Il diffondersi del problema “obesità” ha ormai dei caratteri talmente epidemici da far coniare il termine “Globesity”, ad indicare come, l’estensione della patologia vada di pari passo alla globalizzazione dei modelli alimentari consumistici.

Il grande paradosso è che, oggi, a diventare obesa è la popolazione più povera, anche in paesi in via di sviluppo, e non basta invocare fattori sociali, come il passaggio da una economia rurale ad una urbana, ed economici, connessi al fatto, ad esempio, che in molti paesi, frutta e vegetali siano più costosi di grassi, zuccheri e carne e la Coca-cola sia più economica dell’acqua minerale.

Neanche il fatto, seppur vero, che la vita prevalentemente sedentaria abbia contribuito ad un bilancio energetico sempre più positivo, basta da solo a spiegare perché il mondo stia diventando sempre più “grasso”.

La ricerca dell’ultimo decennio si è orientata sulla possibile influenza di sostanze ambientali sul metabolismo, e si è raccolta una quantità impressionante di prove su una serie di sostanze chimiche, a cui è stato dato il nome di “interferenti endocrini” (endocrine disruptors: ECDs), che hanno come target i recettori presenti nel Sistema NeuroEndocrino, modificandone i meccanismi omeostatici2.

Nel tessuto adiposo essi interferiscono con l’adipogenesi ed il controllo del bilancio energetico.

Gli ECDs sono stati definiti come “molecole esogene in grado di interferire con la produzione, il rilascio, il trasporto, il legame, il metabolismo e l’eliminazione degli ormoni naturali responsabili del mantenimento dell’omeostasi nell’organismo e della regolazione dei processi di sviluppo” e la stessa Commissione Europea per la salute umana e l’ambiente li definisce “sostanze esogene in grado di causare danni alla salute sia nell’organismo che nella sua progenie in seguito ad alterazione dell’assetto ormonale”3 .

Sono stati classificati oltre un centinaio di interferenti endocrini  tra le innumerevoli sostanze di sintesi immesse dall’uomo nell’ambiente, negli ultimi cinquant’anni.

Le categorie principali sono:

Esteri dell’acido ftalico: usati come additivi nelle materie plastiche per aumentarne la morbidezza e la elasticità (PVC)

Insetticidi: DDT e suoi metaboliti, che svolgono azione antiandrogena, e competono con i recettori del Testosterone. Pur essendo ormai vietato da diversi anni, continua ad essere utilizzato in molti Paesi in via di sviluppo e, attraverso la catena alimentare, si sono trovate tracce persino nel latte delle donne Eschimesi…

Erbicidi e anticrittogamici;

Tensioattivi: molto utilizzati in preparati destinati alla agricoltura;

Antiossidanti: presenti negli additivi alimentari;

Policlorobifenoli (PCB): si formano in seguito a pirolisi di composti clorurati e nei processi di incenerimento dei rifiuti solidi urbani o industriali.

L’azione degli ECDs sull’equilibrio ormonale si esplica attraverso un legame coi recettori degli ormoni steroidei, all’interno della cellula, nella quale riescono ad entrare grazie alle loro proprietà lipofile.    Il loro bioaccumulo avviene prevalentemente proprio a  livello del tessuto adiposo e questa caratteristica giustifica le loro proprietà tossicologiche poiché si può verificare una elevata assunzione attraverso i latticini, il grasso della carne ecc. laddove gli animali destinati ad uso alimentare vengano allevati in ambienti inquinati.

L’azione degli interferenti endocrini nell’organismo si esplica non solo nel metabolismo, ma anche sulle funzioni riproduttive e sullo sviluppo pre e postnatale, e le donne esposte ai pesticidi per motivi professionali, hanno un numero maggiore di aborti.

Queste sostanze prendono anche il nome di xerormoni poichè, legandosi in maniera competitiva agli organi bersaglio, possono simulare l’azione dell’ormone endogeno in senso stimolante o inibitorio.

L’effetto finale sull’organismo è diverso a seconda del periodo in cui avviene la massima esposizione e, naturalmente, sarà la fase della embriogenesi e dell’organogenesi quella più suscettibile di influenze patogene, anche a dosaggi molto bassi e privi di effetto negli individui adulti.

Il problema più grosso è dimostrare il nesso causale tra la esposizione e la espressione degli effetti sull’organismo, poiché i tempi di latenza sono piuttosto lunghi e molte influenze sulla attività riproduttiva e sulla funzione tiroidea, derivanti da esposizione nella vita intrauterina, correlate ad interferenze con le funzioni ormonali steroidee, si possono rilevare solo in età adulta.

Gli interferenti endocrini sono soggetti a bioaccumulo, per cui, anche se la esposizione non è elevata, essendo però persistente e, praticamente, ubiquitaria, gli effetti vanno considerati non a breve ma a lungo termine.

 

Obesità come patologia ambientale

Negli ultimi anni, grazie alla mole crescente di studi sugli effetti degli ECDs, è stato possibile fornire un inquadramento più articolato e convincente anche al grandissimo allarme per l’incremento della obesità, dichiarata dall’OMS come uno dei 10 rischi per la salute nel mondo, dove ormai si calcola che gli adulti sovrappeso superino il miliardo e gli obesi siano oltre 300 milioni, con un incremento preoccupante del problema in età infantile: gli esperti mettono in guardia dalle patologie legate alla obesità infantile che danno a questi bambini una aspettativa di vita inferiore a quella dei propri genitori.

Il rischio per la salute è legato alla Sindrome metabolica, cardiopatie, epatopatie, problemi psicosociali e riproduttivi4e la prevenzione diventa di cruciale importanza.Accanto a fattori comportamentali, legati alla riduzione della attività fisica, alimentari, soprattutto legati alla grande abbondanza di cibo ipercalorico, e genetici, ci sono ormai prove inconfutabili sul ruolo delle sostanze chimiche ambientali, di provenienza industriale o agricola, come interferenti con le vie metaboliche e neuro endocrine di modulazione dei meccanismi della fame e della sazietà.

È stata dimostrata l’associazione degli ECDs con l’induzione dell’ obesità, attraverso il loro effetto sullo sviluppo degli adipociti e sul controllo omeostatico dell’adipogenesi e del bilancio energetico, promuovendo l’accumulo di lipidi5.

L’esposizione intrauterina e nelle prime fasi dello sviluppo gioca un ruolo fondamentale nel rischio di sviluppare una obesità in età adulta, alterando epigeneticamente i geni coinvolti nella strutturazione degli equilibri metabolici6, e favorendo soprattutto l’obesità viscerale, la insulinoresistenza e la sindrome metabolica.

Sostanze quali pesticidi, organo fosfati, policlorobifenili, bifenili polibromurati (ritardanti di fiamma), ftalati, bisfenolo A, metalli pesanti ed alcuni solventi si sono rivelati causa di aumenti di peso in numerosi studi su animali, alterando gli ormoni che controllano il peso e la sensibilità ai neurotrasmettitori responsabili dei meccanismi omeostatici7.  Alcuni di questi prodotti, del resto, sono stati progettati proprio allo scopo di incrementare la crescita del bestiame aumentando i depositi lipidici.

Anche i fitoestrogeni, tra cui la genisteina e la daidzeina, contenuti in particolare nella soia, influenzano l’accumulo e la distribuzione del tessuto adiposo, soprattutto nei maschi, determinando anche un aumento della insulinoresistenza8.

Il Tessuto adiposo è un complesso organo PNEI (PsicoNeuroEndocrinoImmunitario), che è preposto alla regolazione dell’appetito in relazione alla situazione metabolica, ed è strettamente connesso con il sistema Immunitario e le risposte infiammatorie.

I depositi di grasso sottocutaneo e viscerale sono costituiti da adipociti differenziati e preadipociti capaci di proliferare, incorporati in una matrice di tessuto connettivo.  Lo stroma contiene anche cellule endoteliali e mast-cellule, fibroblasti e macrofagi che contribuiscono alla attività metabolica complessiva rilasciando Adipochinine come TNF-α e IL-6.   Il grasso viscerale, che rappresenta un maggiore fattore di rischio per lo sviluppo della sindrome metabolica e per patologie cardiovascolari, secerne più IL-6 e meno leptina ed adiponectina, anoressizzanti e antiinfiammatorie, rispetto al grasso sottocutaneo.

Aumentati livelli di IL-6 si associano ad aumentato rischio cardiovascolare e contribuiscono alla situazione infiammatoria presente negli obesi e confermata da livelli mediamente elevati di Proteina C reattiva9.

Il TNF-α, potente citochina infiammatoria, prodotta dal tessuto adiposo, agisce in maniera paracrina regolando la sensibilità insulinica attraverso una interferenza con il trasportatore del glucosio (GLUT4), e stimolando la lipolisi con aumento degli Acidi Grassi liberi.

L’esposizione agli ECDs interferisce sul metabolismo energetico, sia attraverso un meccanismo ormonale, sia attraverso l’attivazione di reazioni infiammatorie che l’organismo mette in atto per difendere la propria omeostasi e che determina una serie di modificazioni biochimiche e molecolari che finiscono col contribuire all’insorgenza della obesità.

Gli ormoni sessuali, inoltre, influenzano la quantità e la distribuzione del grasso, e sono stati individuati numerosi xenoestrogeni ed antiestrogeni che agiscono inibendo le aromatasi ed alterando così i rapporti tra estrogeni ed androgeni10.   Il metabolismo è influenzato anche da un’interferenza con la funzionalità tiroidea da parte di  ECDs, a partire dalla vita intrauterina, e con l’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene soprattutto per quello che riguarda il controllo dell’appetito e le reazioni adattative alle alterazioni dell’apporto nutrizionale, come avviene, ad esempio, nel digiuno, dove si attiva l’asse dello stress allo scopo di attivare quelle reazioni di “risparmio” finalizzate alla difesa del peso corporeo ed alla sopravvivenza.

 

ECDs ed epigenetica

L’esposizione agli ECDs è, come si è detto, più pericolosa nel feto, sia perché esposto ad un maggiore bioaccumulo legato al fattore “tempo”, e ad un metabolismo molto attivo, sia perché non sono presenti, in questa fase dello sviluppo, tutti quei sistemi di riparazione del DNA, di appropriatezza delle difese immunitarie, di efficienza della Barriera Emato Encefalica, che rendono l’adulto più protetto.

Alcuni spiegano il tasso di obesità attuale con l’accumulo di contaminanti ambientali iniziato nei neonati di circa 20 anni fa11.  A conferma di questa ipotesi abbiamo i dati sulla esposizione al Dietilstilbestrolo (DES), che veniva somministrato, negli anni ’40-’70, a donne con gravidanze a rischio e che hanno dato esito ad un aumento di incidenza di tumori nei nati che erano stati esposti al trattamento prenatale.   Modelli animali da esperimento hanno confermato il nesso di causalità tra esposizione e patologia ed hanno rivelato, inoltre, una maggiore incidenza di aumento di peso ed insulinoresistenza nei topi esposti al DES.

L’esposizione di più generazioni avviene attraverso l’esposizione materna, con alterazione da parte degli ECDs degli ormoni, del cervello, del comportamento, fino ad un cambiamento della programmazione epigenetica attraverso una molteplicità di meccanismi molecolari.  Il neonato, poi, continua ad essere esposto anche attraverso il latte materno o artificiale, (non dimentichiamo neanche le materie plastiche dei biberon…), e può subire alterazione delle proprie cellule germinali che si renderanno poi manifeste nella generazione successiva!

E’ quindi anacronistico ed irrealistico attribuire le problematiche dell’obesità solo a scelte personali che coinvolgano la quantità degli alimenti e la corretta attività fisica, ma occorre considerare una maggiore complessità di elementi causali che vedono un ruolo importante giocato dai fattori ambientali.

La cosiddetta “ipotesi obesogena ambientale” è ormai sostenuta da molti dati della letteratura scientifica che obbligano a rivedere il paradigma dell’approccio a questa patologia.  E’ evidente che la salute umana, fino a poco tempo fa considerata una problematica per lo più individuale, diventa ora sempre di più legata a fattori indipendenti dalle scelte più o meno “virtuose”, ma è esposta a scelte fatte da altri, motivate il più delle volte da motivazioni politiche ed economiche più che di prevenzione e promozione della salute.

Alcune scelte possono essere certamente fatte dai consumatori, riguardo alla conservazione, alla cottura, alla preferenze di cibi biologici, e a prodotti freschi a Km0, ma il consumatore non può incidere in maniera significativa sulle condizioni dei propri rischi di esposizione ad EDCs, la presenza dei quali, ad esempio, spesso non viene indicata nelle etichette.

Questo è un motivo fondamentale per cui occorrerà sempre di più tenere alta la guardia sulla presenza di queste sostanze nell’ambiente e agire come consumatori informati oltre che, come medici e nutrizionisti, cercare di educare i nostri pazienti orientandoli verso scelte consapevoli.

 

Note

1 Baillie-Hamilton PF. Chemical toxins: a hypothesis to explain the global obesity epidemic. J Altern Complement Med. 2002;8(2):185–192.

2 (http://www.epa.gov/endo/pubs/edsparchive/2-3attac.htm).

3 Ogden CL, Yanovski SZ, Carroll MD, Flegal KM. The epidemiology of obesity. Gastroenterology. 2007;132(6):2087–2102.

4 Grun F, Blumberg B. Endocrine disrupters as obesogens. Mol Cell Endocrinol. 2009;304(1–2):19–29.

5 Li S, Hansman R, Newbold R, Davis B, McLachlan JA, Barrett JC. Neonatal diethylstilbestrol exposure induces persistent elevation of c-fos expression and hypomethylation in its exon-4 in mouse uterus. Mol Carcinog. 2003;38:78–84.

6 Baillie-Hamilton PF. Chemical toxins: a hypothesis to explain the global obesity epidemic. J Altern Complement Med. 2002;8(2):185–192.

7 Penza M, Montani C, Romani A, Vignolini P, Pampaloni B, Tanini A, et al. Genistein affects adipose tissue deposition in a dose-dependent and gender-specific manner. Endocrinology. 2006;147(12):5740–5751.

8Spranger J, Kroke A, Mohlig M, Hoffmann K, Bergmann MM, Ristow M, Boeing H, Pfeiffer AF. Inflammatory cytokines and the risk to develop type 2 diabetes: results of the prospective population-based European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC)-Potsdam Study. Diabetes. 2003;52:812–817.

9 Horiguchi T. Masculinization of female gastropod mollusks induced by organotin compounds, focusing on mechanism of actions of tributyltin and triphenyltin for development of imposex. Environ Sci. 2006;13:77–87.

10 Needham LL, Barr DB, Caudill SP, Pirkle JL, Turner WE, Osterloh J, Jones RL, Sampson EJ. Concentrations of environmental chemicals associated with neurodevelopmental effects in U.S. population. Neurotoxicology. 2005;26:531–545.

11 Newbold RR, Padilla-Banks E, et al. Environmental estrogens and obesity. Mol Cell Endocrinol. 2009;304(1–2):84–89.

 

 

 




Alimentazione e salute: riflessioni preliminari

Paolo Massobrio*

  • Presidente Club di Papillon, esperto dietetica EXPO 2015 Milano

 

Cosa siamo ? Lo dice Ludwig Andreas Feuerbach, nella sua “essenza  della religione”. “Siamo situati all’interno della natura; e dovrebbe  essere posto fuori di essa il nostro inizio, la nostra origine?  Viviamo nella natura, con la natura, della natura e dovremmo tuttavia  non essere derivati da essa? Quale contraddizione!”. Dunque siamo ciò  che mangiamo e questo assunto è più evidente, oggi, guardando le popolazioni lontane, di paesi che magari vivono soltanto della pesca e  di poco altro. Tutte comunità che, nel momento in cui hanno subìto  l’arrivo del progresso, sotto forma di acilitazione alimentare, hanno iniziato a manifestare patologie che prima non esistevano. E il paradosso è che persino nei paesi poveri s’è manifestata l’obesità, frutto della carenza di una certa attività fisica che connotava quella data comunità. Questo caso, che è uscito con forza durante i lavori di preparazione del dossier di candidatura per l’Expo 2015, che ha per titolo “Nutrire il Pianeta, Energia per la vita”, ha fatto riflettere non poco. Cos’è infatti il buono della vita, legato all’aspetto dell’alimentazione ? E’ solo il piacere ? Troppo poco, troppo banale e semplicistico. Ma tuttavia è questa la risposta della società moderna, viziata dal “carpe diem”, dal tutto e subito, nell’alimentazione come nella medicina, che toglie invece la soddisfazione di appropriarci di quel rapporto dell’uomo dentro alla natura cui faceva accenno Feuerbach. Ora, la congiuntura internazionale nella quale ci troviamo, che dà segni di recessione ovunque, spiana la strada ad un ritorno all’essenzialità delle cose, e forse, se non è troppo tardi, alla conoscenza di un ordine che regola la vita sulla terra e quindi anche l’aspetto dell’alimentazione. Dentro a un ordine, infatti, c’è il segreto di una vita buona; nel dis-ordine, c’è solo la strada della dimenticanza e poi della distruzione. E sembra una contraddizione, ma spesso la strada della conoscenza di ciò che è per noi l’ordine che regola l’universo mondo, parte dalla decisione di una dieta alimentare. La parola che deriva dal greco diaita, tuttavia, non significa principalmente rinuncia, ma sana e corretta alimentazione. Il che significa riappropriarsi del proprio corpo e ricominciare a   considerare l’alimentazione come un percorso dentro alla natura, non un sacco da riempire, di qualunque cosa appaghi la fame. Ma è più felice uno che può permettersi caviale e champagne tutti i giorni o uno che coglie il valore, anche fisico, che ha il calibrare le verdure fresche con il pesce, le carni, la frutta ? Il primo dimentica e rincorre il prossimo piacere, ormai già codificato; il secondo si stupisce ancora della piacevolezza della stagionalità dei cibi, che hanno una loro logica, anche in base alle stagioni. Il piacere fine a se stesso riduce la misura della persona; la tensione al gusto in ogni cosa la amplifica. Sono due filosofie diverse, che ci portano ad un’altra domanda: è più felice chi conosce di più, chi afferra più fattori, o chi conosce poco ? La risposta è scontata. Ma in realtà che cosa si conosce, avviandosi verso un tipo di alimentazione che accoglie ciò che il tempo fa arrivare sui campi e poi in tavola ? Si conosce il senso del dono, ossia di un essere umano che è al centro dell’Universo: col sistema stellare ma anche con quello produttivo e alimentare. La tendenza ormai dilagante al cosiddetto chilometro zero o chilometro ravvicinato fa parte di questa riscoperta. È incredibile pensare ad esempio ai frutti che arrivano in una stagione calda (le pesche, le angurie, i meloni…), che immediatamente regalano freschezza, ovvero ciò di cui abbiamo effettivamente bisogno. Ecco, l’esempio di questi frutti, che vanno di pari passo con quelli invece “concentrati” dell’autunno (si pensi alle castagne, ai cachi…) ci mette direttamente in sintonia con l’incipit di Feuerbach. Il problema della società moderna è il delitto di questa sorpresa, perpetuato dall’arrivo di un frutto che non ha più una connotazione stagionale. Da qui la perdita di una conoscenza, senza della quale, paradossalmente, si rischia di perdere anche il senso di un’origine (chi siamo da dove veniamo ?) oltreché dei sapori autentici. Da questo punto di vista un atto materiale come l’alimentazione ha un fortissimo legame spirituale. E lo dico pensando a qualsiasi posizione umana riguardi una persona. Il cibo che si richiama a un ordine ci fa stare bene, anche con la mente, ma dentro a questo ordine offre un indizio interessante. Perderlo è un peccato, ossia “un di meno” che toglie qualcosa alla felicità dell’oggi.




Alimentarsi e salute, il progetto

Lucio Sotte

La produzione, conservazione, distribuzione, scelta e manipolazione del cibo sono il fondamento di una corretta alimentazione che, tenendo conto della nostra invidiabile tradizione culinaria – vedi dieta mediterranea – si deve aprire agli apporti positivi della contaminazione con gli elementi di altre culture alimentari con cui veniamo in contatto ed alla luce delle più recenti acquisizioni della dietetica medica e della scienza e tecnologia applicate in questi settori.

Il recupero del “chilometro zero” suggerisce di favorire una nuova politica agraria che sfrutti appieno le straordinarie risorse della nostra terra, del nostro clima e della nostra tradizione agricola che tutto il mondo ci invidia e dei metodi antichi e moderni di manipolazione e conservazione dei prodotti della terra che rendono il cibo “made in Italy” un elemento di distinzione e di successo nel mondo.

Il recupero del “chilometro zero” suggerisce anche di sfruttare al meglio la produzione e distribuzione di cibo fresco che – come afferma l’antica dietetica cinese – ha un “jing” cioè una “attività nutritiva innata” esaltata e dunque sempre auspicabile se si vuole ottimizzare il nostro stato di salute evitando tra l’altro l’uso e l’abuso di conservanti ed additivi che sono alla base di numerose intolleranze alimentari e di gravi patologie dell’apparato digerente.

Quanto affermato significa che politica agraria, gestione del territorio e del paesaggio agricolo, scelta ed utilizzo di tecniche e modelli agricoli antichi e moderni e loro impatto ambientale, industria agroalimentare, distribuzione e commercio del cibo sono il presupposto di una buona alimentazione che si completa quando l’utente finale acquista, manipola, cuoce ed infine presenta in tavola i piatti.