Ricette, ricordi, racconti

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Manuela Di Chiara*

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La mia grande passione per la cucina, perché di passione si tratta e, come tale, a differenza di un amore sicuro e rasserenante, è fonte di grandi gioie, ma anche di improvvise amarezze e disappunti, nasce dalla mia innata curiosità per tutto quello che sa di antico e tradizionale e da un ricettario appartenuto alla mia bisnonna Filomena Carradori. In famiglia si racconta che, nata quasi due secoli fa a Civitanova e rimasta orfana ancora piccola, fu mandata in collegio dalle suore e qui, cosa un po’ strana per una bambina dei suoi tempi, imparò a leggere e a scrivere. Visto che sembrava avere una naturale propensione verso quella che, all’epoca, si poteva definire economia domestica, fu ammessa dalla Madre Superiora a frequentare le cucine del convento.

Erano tempi in cui, nelle famiglie contadine, in quelle di paese, ma anche all’interno dei monasteri, non solo era necessario conoscere l’arte della cucina, ma bisognava soprattutto essere parsimoniosi, saper sfruttare le poche risorse alimentari di cui si disponeva, conoscere i metodi di conservazione dei cibi e avere qualche nozione delle propriet. alimentari e terapeutiche di tutti i frutti della terra.

Così, quando la mia bisnonna lasciò il collegio per maritarsi, siamo negli ultimi decenni del

1800, portò con sé questo prezioso bagaglio di conoscenze e una sorta di diario in cui aveva

annotato numerosi suggerimenti sul modo di tenere una dispensa, su come alimentare il fuoco

per cuocere le vivande, su come fare gli acquisti prima delle grandi festività, insieme ad un certo

numero di ricette, tutte rigorosamente divise in tre categorie: il mangiar feriale, il mangiar di

magro e il mangiar di festa.

Sembra che la mia bisnonna abbia saputo far tesoro di queste sue conoscenze perché, per molti

anni, condusse la cucina delle colonie marine che erano state istituite a Fontespina a beneficio dei

bambini dell’entroterra che, in estate, venivano mandati in vacanza al mare. Inoltre, si racconta che le sue capacità culinarie erano molto apprezzate al suo paese, tanto che l’avvocato, il medico o il farmacista la pregavano di preparare per loro dei pasti completi, dall’antipasto al dolce, in occasione di qualche ricorrenza particolare, dal momento che non potevano permettersi di assumere un cuoco a tempo pieno, come avveniva nelle famiglie più ricche, ma avevano altresì raggiunto uncerto stato di benessere che li metteva nelle condizioni di poter, occasionalmente, offrire ai propri parenti ed amici, qualche pranzo più abbondante e ricercato.

La bisnonna morì in giovane età e mia nonna racconta che le lasciò in eredità questo prezioso

ricettario, ma anche numerosi fratelli più piccoli da accudire. Lei non si perse d’animo, mise il

ricettario in un cassetto, si rimboccò le maniche, mandò i fratelli a lavorare e divenne, suo malgrado, donna di casa anzitempo.

Passata la bufera della seconda guerra, quando si incominci. a vivere una certa sicurezza economica, mia nonna tirò fuori il ricettario dal cassetto e potè finalmente godere di quello che vi trovava scritto. Spesso ripeteva che attraverso quelle righe, lette e rilette nel corso degli anni ormai maturi, aveva imparato a conoscere sua madre, molto più di quanto avesse fatto quando lei era ancora in vita. Con grande precisione, trascrisse le ricette, trasformò le libbre e le once nelle misure e nei pesi che, nel frattempo, erano stati adottati e soprattutto incominciò ad interpretare quelle ricette arricchendole e migliorandole con ingredienti il cui utilizzo, negli anni, era diventato di più larga diffusione.

Io sono nata a questo punto della storia, agli inizi di un’epoca oggi definita consumistica, ma

ho imparato, da bambina, che la povertà, che sembrava superata negli anni ’60 del secolo scorso,

non era stata ancora cancellata dalla memoria di mia nonna e di quanti, come lei, erano nati nel

secolo precedente e avevano vissuto l’esperienza di due guerre mondiali.

Cos., nell’accogliente tepore della cucina di mia nonna, affianco alla stufa economica, dove ho

passato gran parte della mia infanzia, mentre mi concedeva l’onore di chiudere con lei i cappelletti

o mi faceva allungare un dito per saggiare la sofficità della massa del pane, ho imparato la storia della mia famiglia, della mia gente e della mia terra. Ricordo mia nonna come una grande affabulatrice che godeva nel soddisfare la mia curiosità con interminabili racconti sulla sua infanzia e sui costumi e le abitudini della sua gente.

Nella cucina della mia casa paterna, all’epoca della mia nascita, nella seconda metà del secolo scorso, era ancora funzionante la stufa economica, ma la mattera era stata spostata nel ripostiglio per far posto al frigorifero, ai fornelli e al forno a gas e, da lì a qualche anno, mia madre avrebbe comperato il frullatore e il macinacaffè elettrico e avrebbe incominciato a reinterpretare, ancora una volta, le ricette di famiglia, avvalendosi dell’aiuto di molti nuovi elettrodomestici. Io non ricordo di averla mai vista usare il cremore di tartaro o il lievito madre, come invece faceva mia nonna, d’altronde oramai erano comparsi il lievito in polvere e il lievito di birra che garantivano una quasi perfetta riuscita della lievitazione del pane e dei dolci, ma l’amore per le ricette tradizionali e la sua grande maestria in cucina non le hanno mai permesso di stravolgere il sapore di un piatto per cedere alla tentazione di nuovi gusti o di abbinamenti fantasiosi.

Fin da piccola ho vissuto in questa atmosfera di rigore culinario in cui lo spazio per la fantasia

era limitato a quelle novità non azzardate che garantivano una maggiore riuscita della preparazione, mantenendone, per., lo spirito originario.

In età più matura, ricordando i racconti di mia nonna, ho capito che la cucina è una delle espressioni più significative del patrimonio culturale di un popolo perché ci permette di conoscerne le tradizioni, la religione e l’economia del territorio. Attraverso la cucina viviamo in stretto rapporto con la natura e siamo chiamati a rispettarne i cicli produttivi. La cucina, infatti, ha sempre accompagnato l’attività produttiva della terra nelle diverse stagioni dell’anno e il lavoro dell’uomo ad essa conseguente.

Nel territorio maceratese, come peraltro in tutte le Marche, i grandi lavori della mietitura o della vendemmia in campagna, la raccolta delle ghiande o delle castagne, come la transumanza

degli animali in montagna o la pesca intensa durante i passaggi del pesce turchino al mare, sono stati sempre sostenuti e festeggiati con pasti particolari, più ricchi e ripetuti nell’arco di quelle

lunghe giornate lavorative.

Per quanto riguarda le preparazioni dolci, argomento di questa mia raccolta, anche in una

economia povera come quella marchigiana, non sono mai mancate sulla tavola, come ricompensa ad un lavoro duro o come simbolo celebrativo di un evento importante, legato alle attività della

campagna, della montagne o del mare.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare che la cucina, sia intesa come mezzo di sussistenza, sia elevata ad arte culinaria, si è generata e si è evoluta in stretta osservanza delle feste religiose. Un tempo, ogni ricorrenza della Chiesa aveva le sue ricette di grasso o di magro, cos. come le nozze, i battesimi o le cresime venivano festeggiati con piatti tradizionali, legati ai prodotti che la terra offriva nella stagione.

Mia nonna sarebbe inorridita nel vedere, sul bancone di un negozio di fornaio, le castagnole

comparire il giorno dopo l’Epifania o la preparazione delle fave da morto protrarsi fino all’arrivo del Natale, come invece puntualmente succede ai nostri giorni. Non avrebbe mai ceduto

all’eventuale richiesta di un piatto a base di carne in un giorno di vigilia, né avrebbe preparato un

cibo troppo calorico o focoso, come lei diceva, per qualcuno che accusasse un qualche disturbo,

immagino che avrebbe detto che è contro natura.

Un tempo, la cucina aveva le sue regole ferree che nascevano dalla sapiente gestione dei prodotti

della terra, dall’attenzione al benessere delle persone per le quali si preparavano i cibi e

dall’osservanza delle ricorrenze religiose.

Il benessere, di cui l’Italia e quindi anche le nostre terre marchigiane, hanno incominciato a godere dalla seconda metà del secolo scorso, ha creato molta confusione, ha stravolto le nostre abitudini alimentari e ci ha fatto credere che, in cucina, tutto sia permesso. Non è così, la cucina reclama un grande buonsenso, legami stretti con la terra e le stagioni e una forte affezione alle tradizioni.

L’esigenza imperiosa di esprimere la nostra creatività in cucina non ci deve ingannare, non

dobbiamo permetterle di farci scivolare verso interpretazioni minimaliste che forse appagano il

nostro occhio, ma non sempre il nostro gusto, così come il bisogno di assecondare una qualche moda salutistica non ci deve far abdicare dall’uso di ingredienti che, utilizzati con la saggezza e la

parsimonia di un tempo, non saranno mai dannosi al nostro organismo.

Così, a partire dalle mie assidue frequentazioni alla cucina di mia nonna, fin da quando ero proprio bambina, per un processo naturale e per un istinto innato, ho incominciato, senza accorgermene,

ad imparare l’arte del cucinare. Poi, con il passare degli anni, aiutata da mia madre e come pressata da una urgenza interiore, ho incominciato a ricercare qualche ricetta della cucina della mia gente, caduta in disuso col cambiare dei gusti, ma soprattutto delle mode. Nel corso degli anni, ho scovato in vecchi ricettari alcune ricette di altri tempi, altre sono arrivate a me attraverso amici e parenti e debbo dire di aver contagiato molti di loro con questa mia passione per la cucina tradizionale. Non mi stanco mai di interrogare le persone anziane, depositarie di un antico sapere e spesso questo mio lavoro è stato ripagato con qualche ricetta inaspettata che mi ha raggiunto in una versione a me poco nota o del tutto sconosciuta.

Ho studiato tante ricette, le ho messe a confronto, le ho provate, ho cercato di intuirne i cambiamenti

subiti col passare del tempo e le ho raccolte, nella speranza che, prima i miei figli e poi i miei nipoti, ne potessero godere, nella profonda convinzione che avrebbero dato colore e sapore alla loro vita, così come la cucina di mia nonna ha reso più serena e interessante la mia infanzia.

Di conseguenza, con grande piacere e riconoscenza, ho accolto la proposta di raccogliere in un libro queste ricette della mia terra maceratese, ma insieme alle ricette era impossibile non lasciarsi trasportare dai ricordi e dalle storie della mia gente, senza la malinconica nostalgia per un tempo che è passato, ma con l’entusiasmo dettato dalla consapevole certezza che nella memoria risiede la base duratura di ogni forma di conoscenza e che la “dignità della tradizione è il necessario fermento del progresso”.

Naturalmente, questa raccolta non ha la pretesa di essere esauriente nei confronti della ricchissima

tradizione dolciaria del maceratese, vuole solo essere uno stimolo per tutti coloro che amano cucinare, uomini e donne appassionati di questa arte antica che, per necessità o per piacere, stanno davanti ai fornelli, con dedizione e con il desiderio di servire e rallegrare gli altri attraverso la cucina.

Dedico questo mio lavoro soprattutto alle massaie! Questo termine mi ha sempre affascinato, fin da bambina evocava in me l’immagine di due braccia femminili con le maniche arrotolate,

coperte di farina che, con forza, ma senza alcuno sforzo, impastavano, smenavano, sbattevano,

insomma addomesticavano un impasto informe che, grazie a dei gesti misurati e guidati da una

sapienza antica, sarebbe diventato qualcosa di esteticamente bello, profumato e buono al gusto.

Ero estasiata: il mio sogno era quello di diventare una vera massaia! All’epoca, non potevo

immaginare che il termine cuoca avrebbe presto soppiantato quello di massaia e che dei grandi

cuochi esistevano già. Io avevo visto al lavoro, tra fornelli e stoviglie, solo nonne, zie, mamme: per

me, il mondo della cucina era solo al femminile ed era popolato da massaie.

D’altronde, i libricini della Collana di Perline della Petronilla se ne stavano ben allineati sulla

mensolina, nella cucina della mia nonna, sempre pronti a rivolgersi alla brava massaia affinché

non si allontanasse dai fuochi per evitare “sospiri e malanni” e la ammoniva di “stare in guardia

con gli occhi e specialmente con il naso…giacché ad avvertirti che il dolce è cotto, hai soltanto la

tua sorveglianza, la tua attenzione, la tua esperienza”.

Chissà se le massaie esistono ancora? Nella mia città e un po’ in tutti i paesi delle Marche, comunque, ci sono ancora tante famiglie nelle quali si cucina con passione e si ha il gusto di apprezzare e tramandare le antiche tradizioni culinarie. In questo mio libro ci sono, infatti, molte ricette che provengono da persone precise come nonna Gloria o la signora Delia, a testimonianza del fatto che molte vecchie ricette, non solo sono ancora in uso, ma sono state perfezionate nel tempo dalla pratica giornaliera di alcune ‘cuoche’, sconosciute al grande pubblico, ma molto amate nelle nostre famiglie. Voglio ringraziarle tutte perché senza la loro spontanea collaborazione non avrei mai potuto portare a termine questo mio lavoro e perché, inconsapevolmente, mi stanno aiutando a realizzare il mio grande sogno di diventare una vera massaia.

Ringrazio i miei genitori e soprattutto mia madre che mi ha ‘traghettato’ nel mondo reale della

cucina, nella mia età matura. Mi ha insegnato, infatti, ad amare non solo la cucina appagante delle grandi occasioni, delle grandi sfide e delle grandi scoperte, ma soprattutto mi ha insegnato

ad affrontare, con entusiasmo, la molto meno consolatoria cucina di tutti i giorni, quella fatta di

gesti ripetuti che rischiano di trasformarsi in ripetitivi, una cucina non di certo vestita a festa, ma spesso dimessa, senza dosi, né ricette, alla quale si ha sempre poco tempo da dedicare, fatta molto

spesso per chi è inappetente, per chi ha fretta di tornare al lavoro, per chi deve mangiare insipido

e senza grassi, una cucina, insomma, a cui è difficile restare fedeli e per la quale non si ricevono

mai complimenti. Mi ha trasmesso, per la cucina, un amore di altri tempi, fatto di dedizione e

galanteria che nulla concede alla frivolezza, un amore sostenuto anche da un pizzico di superbia

che corona la grande padronanza della cucina che mia madre possiede anche adesso, negli anni

della sua vecchiaia.

Ringrazio i genitori di mio marito che, pur non essendo nativi della mia terra, hanno apprezzato

ed imparato la cucina del mio paese, senza, per., abdicare alle loro origini. Mi hanno insegnato

che anche in cucina, anzi, soprattutto in cucina, è possibile quella fusione di culture, di abitudini,

di costumi che, nel tempo, sempre di più, ci fanno apprezzare le tradizioni culinarie della nostra

terra di origine, pur vivendo ed amando la cucina del paese di adozione.

Ringrazio, inoltre, per la sua complicità e il suo grande aiuto, mia sorella Lucilla che ha il dono

innato di muoversi con tocco leggero e con grande maestria nell’intrigante mondo dei dolci.

È stato sempre con la sua ‘condivisione’ e, grazie alla nostra affinità di percezione della realtà,

che in cucina, ma non solo, ho potuto realizzare i miei progetti migliori. È , inoltre, l’autrice di

tutte le foto di questo libro: soltanto il suo occhio attento poteva cogliere i momenti salienti di

ogni preparazione ed immortalare, con grande senso estetico, l’immagine finale di ogni dolce.

Ringrazio mio marito perché mi ha insegnato a guardare con i suoi occhi il meraviglioso territorio

del maceratese e di tutte le Marche. Da lui ho imparato, infatti, a godere del rassicurante

paesaggio che mi circonda, in tutte le sue sfumature, fino a coglierne gli umori, i colori e i sapori nell’alternarsi delle stagioni e nel trascorrere degli anni. È, inoltre, l’autore dei dipinti che fanno da sfondo alle pagine iniziali dei capitoli, scanditi a seconda dei periodi dell’anno. Non del tutto nascosti dalla dilavazione del colore, voluta per esigenze grafiche e gusto fotografico, si intravedono dei campanili, qualche tetto, uno spicchio di mare, un angolo di campagna, un profilo di montagna che sono forse Civitanova Alta o Morrovalle, la valle dell’Asola o quella del Potenza, paesi e paesaggi così diversi, eppure così simili per la loro bellezza.

Ringrazio tutta la mia famiglia, in una accezione molto ampia, per il suo indiscutibile senso

critico… ma anche quello ci vuole per dar vita ad un buon lavoro!

Ringrazio tutte le amiche, sempre piene di entusiasmo, con le quali ci si confronta, oramai

da cinque anni, con grande divertimento, durante i nostri settimanali incontri culinari che ci tengono sveglie fino a tarda notte tra un boccone, un sorso di vino e quattro chiacchiere sulla cucina che tanto amiamo.

Ringrazio tutto lo staff della Memphiscom, per la competenza e la disponibilità.

Ringrazio soprattutto la Fondazione della Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata sempre più attiva e sensibile nel promuovere le peculiarità ed eccellenze del nostro territorio, alla quale ho affidato con tanto piacere e gratitudine questo mio lavoro, nella certezza che il Suo prestigio

concorrere a risaltarne l’utilità ed il piacere.

Ringrazio, in modo speciale Renzo Borroni per avermi, con disponibilità ed intuito, prima accolto, poi incoraggiato a realizzare e, forse anche a proseguire, questo progetto editoriale che per me era quasi un sogno irraggiungibile. Con lui, ringrazio infine Patrizia Mozzoni che mi ha aiutato, con le sue capacità organizzative a risolvere tutti i problemi pratici ed operativi, concretizzando tutta la mia fatica. Con il loro sostegno, tutto questo ha preso vita e si è trasformato, spero, in un racconto avvincente.

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