La dietetica cinese in Occidente: editoriale del volume Dietetica Cinese I della Rivista Italiana di Medicina Cinese

Lucio Sotte*

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In primo luogo un’importante precisazione, per sgomberare il campo da un frequente equivoco nel quale io stesso – insieme alla maggior parte dei miei colleghi appassionati di agopuntura – sono incappato quando, più di 20 anni or sono, iniziavo ad introdurmi nello studio della medicina cinese: la dietetica cinese non ha nulla a che spartire con la macrobiotica. Entrambe sono nate in Oriente, si fondano sulla teoria yin-yang e sulla sua applicazione al settore dell’alimentazione (anche se ci sono notevoli differenze anche nella classificazione yin-yang degli alimenti) e potrebbero, a prima vista, sembrare simili ma, in realtà, sono assai differenti tra loro.

La macrobiotica è stata “inventata” dal suo fondatore – il giapponese Oshawa – nei primi decenni del ’900, la dietetica cinese ha una storia antichissima che risale – come quella della medicina cui appartiene – almeno al II millennio a.C., ai primordi dell’antica civilizzazione cinese.

Un’altra importantissima differenza consiste nel fatto che la macrobiotica si fonda su un’impostazione rigidamente “vegetariana e integrale”, mentre la dietetica cinese, che pur privilegia gli alimenti vegetali, non ha mai demonizzato quelli di origine animale; essi trovano invece un loro specifico, importante e, spesso insostituibile, ruolo.

La mia impressione è che la macrobiotica trovi il suo spazio soprattutto come “radicale” risposta “vegetariana ed integrale” in opposizione ad un’altrettanto radicale abitudine alimentare “carnivora, iperlipidica ed ipercalorica” di quell’Occidente che in parte sta perdendo (l’Europa) ed in parte non ha mai avuto (il Nord America soprattutto) raffinate tradizioni alimentari e culinarie.

Nel mondo in cui viviamo, che tende ad “omologarci” su scelte alimentari imposte soprattutto dai dividendo del business industriale del settore, la macrobiotica rappresenta una delle scuole della “dietetica di opposizione” che, però, talora corre il rischio di “omologare” su un “integrismo” uguale e contrario.

La dietetica e l’arte culinaria cinesi si possono confrontare con l’Occidente ad un altro livello: quello della tradizione, della scienza e della cultura che hanno saputo valorizzare ed esaltare gli alimenti più semplici e quelli più raffinati assegnando ad ognuno il suo specifico ruolo ed il suo spazio nella prevenzione e nella terapia come nei colori e nei sapori della tavola imbandita di tutti i giorni e di quella degli incontri conviviali in occasione delle festività.

In questo senso l’Europa – ed in particolare l’Italia – e la Cina si possono confrontare perché hanno saputo suscitare e sviluppare una tradizione alimentare che è contemporaneamente un evento culturale, sociale, scientifico, edonistico ed educativo.

Il sedersi ad una tavola imbandita non è solo un ottimo sistema di approvvigionamento calorico, glucidico, lipidico, vitaminico e di nutrienti per il nostro organismo, ma anche un valido metodo di prevenzione e di terapia delle malattie. Il tempo del pasto non è semplicemente un evento affettivo e sociale che ci permette – assaggiando i cibi – di dialogare con i figli, decidere le sorti di un’azienda o trascorrere una serata con gli amici, è anche un evento culturale che ci fa capire le nostre origini per progettare il nostro futuro.

Nel nostro paese la fantasia del popolo ha saputo valorizzare i cibi semplici – così sono nati la pizza, gli spaghetti ed i maccheroni – e quelli più raffinati, attingendo prima alle sue radici culturali greche e romane e successivamente ai contatti con i popoli nordafricani a Sud, slavi e bizantini a Est, neolatini ad Ovest e mitteleuropei a Nord: i sapori della tradizione francese si ritrovano nella cucina piemontese, quelli austriaci a magiari in alcuni stufati padani lontani parenti del gulash, e quelli arabi nel cascà di Carloforte che ricorda anche nel nome il couscous marocchino.

La storia del nostro paese – crocicchio di civiltà – è sempre stata caratterizzata da una grande capacità di fare proprio il meglio delle culture con cui è venuta in contatto per valorizzarne gli aspetti positivi e rilanciarli in una nuova sintesi: ciò è vero anche per la dietetica e l’arte culinaria. Ricordiamo – a titolo esemplificativo – l’incontro con i cibi del nuovo mondo che ha rivoluzionato dopo la scoperta delle Americhe la dieta europea: la patata è stata introdotta a Siviglia per la prima volta nel 1575 e da allora è diventata uno dei capisaldi della dieta soprattutto nel Nord Europa, la pizza napoletana non esisterebbe senza il pomodoro così come la caponata siciliana senza peperoni e melanzane; ma pomodoro, peperoni e melanzane erano sconosciuti ai nostri avi prima delle scoperte di Colombo.

L’incontro con la dietetica cinese è al tempo stesso incontro con vecchi cibi che già conosciamo classificati però secondo criteri differenti da quelli occidentali, con nuovi cibi da scoprire e valorizzare, con l’arte culinaria cinese che significa nuovi metodi di taglio, confezione, preparazione e cottura. Si tratta di una nuova rivoluzione che mi sento di paragonare in parte a quella successiva alla scoperta delle Americhe.

In questo scenario entrano tuttavia in gioco, all’interno dei processi di globalizzazione, anche altri fattori: l’intervento della nuova agricultura con il problema degli organismi geneticamente modificati, quello delle tante “mucche pazze” con cui dovremo confrontarci e quello della nuova potente lobby dell’industria alimentare che vuole confezionare cibi già pronti perché rappresentano il business del futuro.

La lotta contro il “grande fratello” si sta tuttavia facendo dura e cambiano i connotati dei contendenti.

Un tempo esistevano due cucine: quella dei ricchi e quella dei poveri. Nella cucina dei ricchi il disporre di molto cibo era segno di abbondanza ed il saperlo cucinare era un’applicazione di saggezza mentre in quella dei poveri occorreva sopperire alla penuria di cibo con la fantasia: le erbe povere e selvatiche hanno trasformato il minestrone ladino in un piatto da re e la bagna cauda piemontese ha dato il valore di piatto forte alle verdure di un semplice orto. Se proviamo a fare un quadro della situazione dell’alimentazione del nostro paese ai primi del ’900 ci accorgiamo che non tutti gli italiani potevano permettersi una dieta equilibrata da un punto di vista nutrizionale e calorico; a fronte di un’alimentazione spesso eccessiva di pochi erano diffuse diete carenziali di molti.

La povertà di una grossa fetta della popolazione determinava scarsità di alimenti se non addirittura la “fame”; tuttavia, eccetto che in situazioni rarissime, il controllo dei fattori mentali che regolano l’alimentazione era salvo.

Oggi si stanno ribaltando i riferimenti, anoressia e bulimia sono il segno inequivocabile di una società che sta perdendo la capacità di alimentarsi saggiamente e di saper gestire i sapori e le calorie. Attorno a noi stanno accadendo fatti paradossali, ne cito uno a titolo esemplificativo: il costo che si deve sostenere per dimagrire è maggiore di quello che si spende per ingrassare. A differenza di quanto costantemente accaduto dalla comparsa del genere umano sulla terra, nel nostro tempo e nei paesi ricchi, la classe sociale abbiente si distingue per il risparmio calorico dei suoi rappresentanti e per la sua “linea” se confrontata con quella meno abbiente che si identifica maggiormente con l’opulenza fisica che spesso si tramuta in l’obesità. La linea dei primi ed il sovrappeso dei secondi sono la conseguenza dell’impossibilità di questi ultimi – per motivi contemporaneamente di origine economica, sociale e culturale – di elaborare meccanismi di revisione e critica dei modelli dietetici imposti dal business agroalimentare.

Anche la gestione omologata del nostro tempo va a scapito di una corretta alimentazione; gli spot di cui siamo bersaglio ci standardizzano sul tutto-uguale, sul non-sapore, su toast-burger-tramezzino da trangugiare distrattamente il più rapidamente possibile. La società in cui viviamo prima ci ha fornito le calorie, poi ci ha tolto i sapori e, conseguentemente, ora ci sta privando anche del tempo per gustarli. I ritmi della nostra vita ci impongono un “cibo spesso ipercalorico ed omologato” da mangiare in “tre minuti” in modo da risparmiare tanto tempo da utilizzare lavorando: così guadagniamo più denaro. I massmedia ci suggeriranno poi come spenderlo.

Mi viene un solo dubbio, un grande inesorabile dubbio: in questo meccanismo l’uomo dov’è?

Ed a seguito una domanda: che ne è della sua libertà?

Credo che realmente valga la pena anche in questo campo di ricentrare il sistema sul suo soggetto che non può essere il business agro-alimentare, né l’ecoterrorismo di segno opposto, né un modello artificiale di “linea” imposto dall’industria della moda: il centro del sistema deve ritornare ad essere l’uomo che gioca la sua libertà nella valorizzazione della ricchezza delle culture anche in ambito dietetico ed alimentare. L’uomo di oggi sta infatti combattendo per vivere battaglie meno cruente di quelle del suo antenato di qualche secolo o millennio fa, battaglie meno cruente ma, al tempo stesso, assai più subdole e pericolose: combatte meno per aver salva la vità e di più per conservare l’integrità fisica, psichica e biologica sua e della sua specie.

La nube tossica dei diserbanti e pesticidi che accompagna i cibi di cui ci nutriamo, gli attacchi al cuore endocrino del nostro sistema biologico prodotti dagli ormoni somministrati alle varie mucche pazze, il controspionaggio cromosomico delle pecore o pomodori “dolly” che compaiono sulla nostra tavola a pranzo e cena sono solo alcuni degli esempi del versante dietetico della battaglia di espropriazione dell’umano nella quale, volenti o nolenti, siamo ingaggiati. Tralasciamo in questa sede i versanti culturale, politico, commerciale, finanziario, etico, religioso della stessa battaglia.

Il “pane quotidiano”, un tempo gesto di benevolenza di Dio e di condivisione tra gli uomini del loro destino, sta diventando un terreno di lotta tra ideologie, bulimie, merendine, snack, ormoni, anoressie, pappette precotte per neonati, antibiotici dell’ultima generazione, diserbanti, cibi geneticamente modificati: l’uomo sta salendo sulla Torre di Babele e la confusione degli idiomi miscelata all’arroganza del potere vorrebbe sferrare l’attacco finale proprio sulla nostra mensa.

Ma che c’entra tutto questo con un libro di dietetica cinese?

Si tratta di un volume che affronta un’argomento sicuramente assai particolare che può ricordare al suo lettore come la sapienza abbia saputo costruire – quando correttamente finalizzata all’uomo – delle tradizioni vere che uniscono – è veramente il caso di affermarlo – il “bello” al “ buono”. Una volta scardinato anche attraverso un aspetto particolare il progetto del “grande fratello” sarà molto più facile combatterlo! Dal recupero di tradizioni nate in Oriente può nascere l’entusiasmo per la rivalorizzazione delle proprie.

Mi auguro che questo volume possa dare il suo contributo a comprendere la dietetica cinese ed ad integrarne le ricchezze nel nostro contesto culturale e scientifico partendo proprio dalle considerazioni appena esposte, perché “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.

Infine un ringraziamento agli autori: questo volume nasce come raccolta ed elaborazione degli appunti di due seminari tenuti da Massimo Muccioli nella primavera del 2000 presso la Scuola della Fondazione Matteo Ricci di Bologna: la stesura e sistematizzazione degli appunti svolte da Margherita Piastrelloni e Attilio Bernini hanno permesso questa edizione.

Li ringrazio personalmente ed a nome del Comitato di Redazione della Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese: mi emoziona sempre il pensare come anche l’elaborazione culturale e scientifica sia l’esito di un rapporto vero di collaborazione ed amicizia tra uomini – questa opera ne è un grande esempio.

La Dietetica Tradizionale Cinese vuole ricentrare il senso orientale del mangiare e del bere, concludo allora con un augurio di successo e con un duplice brindisi.

Per il primo un sorso del sapore asprigno e rotondo del vino cotto di Loro Piceno che ho assaggiato proprio ieri da una bottiglia di una quidicina di anni – nettare per il dessert nato miscelando varie annate di mosto concentrato con la cottura in caldai di rame. Si tratta di un piccolo miracolo per il palato frutto della tenacia e dell’intelligenza dei contadini dell’alto maceratese applicata a conservare e ottimizzare il prodotto di uve di scarso grado zuccherino raccolte presto per evitare i temporali dell’autunno.

Per il secondo un altro sorso di tè “monkey picks” (si chiama così “raccolto dalle scimmie” perché lo raccoglievano le scimmie su cespugli di tè che crescevano lungo pendii troppo ripidi per l’uomo); l’ho assaggiato a Londra a casa dell’amico Song – si beve bollente il piccole tazzine di porcellana e, mentre combatte i radicali liberi e deterge le mucose coi suoi tannini, profuma il palato di aromi dolci e fiorati e corrobora un’amicizia cresciuta tra gli aghi e le erbe cinesi.