Le donne nella medicina cinese, con divagazioni

Rosa Brotzu**, Giuliana Franceschini**, Valerio Sansone** Carlo Di Stanislao*

 “Che disgrazia, è il destino della donna,
Niente al mondo è meno vile d’ella.
I figli sono in piedi addossati alle porte,
Come degli dei caduti dal cielo.
I loro cuori lanciano una sfida ai quattro mari,
Ai venti, alle terre e alle migliaia di chilometri.
Ma la figlia, nessuno si rallegra della sua nascita.
La famiglia non realizza nessun guadagno con essa,
Quando cresce, si nasconde nella sua camera,
Nessuno la piange se sparisce dalla sua casa,
Repentinamente, come una nuvola che si scioglie dopo la pioggia.

Si morde le labbra,
Si curva e s’inchina e spesso manca di fierezza”

Fou Chwan

Se gli uomini hanno dominato l’universo delle parole, le donne hanno avuto potere sul mondo delle cose. La vocazione femminile per la medicina ha una storia lunga e affascinante, che ci riporta alle radici delle civiltà. Le donne sono da sempre le custodi dei segreti delle erbe e delle piante officinali, e sono per natura e sensibilità inclini alla cura. Sempre contrapposta alla scienza degli uomini, depositari della cultura dei libri e delle accademie, questa pratica femminile si caratterizzava per l’approccio empirico e l’espressione di conoscenze antiche e tramandate, dove accanto alle applicazioni di una medicina lecita coesistevano saperi più oscuri, quelli delle consuetudini proibite della contraccezione e dell’aborto, legate alla magia degli incantamenti amorosi e della fertilità. Qualche esempio? Circe e Medea, le due grandi maghe della cultura ellenica, usavano la conoscenza delle erbe per dominare e trasformare la realtà e la vita degli uomini a loro piacimento, ottenendo così quell’indipendenza così atipica nella società dell’epoca. Altro discorso per Metrodoro che in epoca bizantina scrisse il trattato Sulle malattie delle donne che ha aiutato a partorire molte donne, o ancora santa Redegonda che scelse di dedicarsi alla vita monastica per emanciparsi da un matrimonio imposto e dedicarsi alla cura dei bisognosi sfruttando le suggestioni della fede. Qui vogliamo limitarci al mondo della tradizione guaritoria sviluppatosi nell’antica Cina, ma per fare questo necessitano due parole, almeno, sul ruolo della donna nella Cina Tradizionale. La condizione della donna nella civiltà cinese è stata oggetto di grandi variazioni. In generale, possiamo affermare, che prima del periodo di Confucio, ella beneficiò di un certo rispetto. La Cina allora, era famosa per l’importanza che dava alla vita familiare. La ragione di ciò è da ricercarsi nel fatto che la madre cinese, costituiva l’asse attorno al quale, ruotavano tutti i membri della cellula familiare. La donna era, per di più, la sorgente dell’esistenza della famiglia e rappresentava, a questo titolo, l’autorità familiare. Nella Cina antica, infatti, l’individuo portava il nome della stirpe materna (matrilinea) e non paterna (patrilinea): il sistema d’identificazione era dunque matriarcale. Uno degli elementi che compongono il carattere cinese (ideogramma) significante “cognome” rappresenta la donna. Gli storici attribuiscono l’origine dei guai, per la donna cinese, all’avvento del regime feudale, durante il quale, la condizione della donna si deteriorò tragicamente. Abbassata ad un rango subalterno, la donna conobbe così tutti i tormenti dell’umiliazione e del disprezzo. Lo storico Will Durant spiega in questo modo il decadimento della situazione femminile: “Probabilmente il regime feudale cinese ha declassato la donna e ridotto il suo rango politico ed economico nel paese, perché il regime feudale stesso è fondato su di un sistema di vita rigorosamente patriarcale”. In effetti, i giovani, le loro spose con i bambini vivevano abitualmente con il primogenito della famiglia. I membri di questa, erano soggetti ugualmente ad un regime di comunità delle terre, e riconoscevano espressamente un’autorità totale al padre su tutta la famiglia e i suoi beni. L’autorità del padre si rinforzò ulteriormente con il Confucianesimo e divenne così quasi assoluta, in ogni campo. I cinesi considerarono allora la donna come merce che era possibile acquistare o vendere. Essa era debole e umiliata in tutti i campi. Peggio ancora, la sua nascita era considerata di malaugurio. I padri imploravano nelle loro preghiere che fossero loro dati dei figli maschi e una delle peggiori umiliazioni per una madre era di non possederne, perché essi erano più adatti al lavoro dei campi e più decisi nel combattimento. In più le figlie rappresentavano un peso per il proprio genitore giacché, così si pensava, dopo aver speso molti soldi e pazienza per allevarle, se ne andavano nella casa del marito.

L’uccisione delle femmine era praticata quando il loro numero superava quello del bisogno, in modo particolare se la famiglia si trovava in difficoltà. La figlia era sottomessa, secondo il momento a tre autorità: quella del padre, del marito e del fratello maggiore, in assenza del genitore, o anche del proprio figlio in mancanza del marito. In perpetua dipendenza dall’uomo, la sua vita scorreva nell’obbedienza, privata di tutti i diritti economici e sociali. Considerata come un minore a vita, non poteva rendersi indipendente e l’uomo le assicurava la sua tutela permanente in ogni campo. Non riceveva nessuna istruzione, consacrandosi totalmente ai lavori domestici. Doveva tagliare i capelli all’età di quindici anni e sposarsi a venti. Il padre sceglieva per lei lo sposo servendosi della mediazione di un sensale. Le donne vivevano nello spazio della casa a loro riservate e raramente si mescolavano agli uomini. L’attività sociale non le concerneva, fatta eccezione per qualcuna che apparteneva a quelle classi che tolleravano la promiscuità, in particolare quella delle cantanti e delle teologhe. La donna, quando si sposava, andava subito ad abitare dal marito e ne assumeva il cognome. Il suo dovere, in quel momento, consisteva nel servire i propri suoceri senza riserve, come prima era richiesto facesse per i genitori. La donna sposata si chiamava Fôu, cioè “sottomissione”, in riferimento alla totale sottomissione dovuta al suo sposo. Paradossalmente questi pensava a lei solo come alla madre dei suoi figli. Era fuori questione di onorare la sua bellezza o la sua cultura, si badava soltanto alla sua fecondità, alla sua capacità di accontentarsi e alla sua obbedienza. Il marito aveva inoltre l’abitudine di mangiare da solo, senza la moglie e senza i figli, salvo in circostanze speciali. Nel caso lo sposo morisse, la sua vedova non aveva il diritto di risposarsi, o peggio ancora, era possibile chiederle di farsi cremare in onore del proprio marito defunto.

È nella letteratura che troviamo le descrizioni della vita sociale, dei costumi e delle tradizioni tipiche di queste civilizzazioni. Gli storici hanno dovuto farvi ricorso per conoscere la miserabile situazione della donna. Ad esempio, gli scritti di Bân Houbân, donna dell’alta società che si espresse, in un messaggio diventato celebre, con parole di un’umiltà e sottomissione estrema, descrivendo così il vero livello sociale della donna: “Noi, le donne, occupiamo l’ultimo rango del genere umano. Siamo le più deboli creature dell’umanità ed è per questo che il nostro retaggio quotidiano è quello di compiere il lavori più vili… Valutate, con quale giustizia e verità, il codice familiare decide della nostra sorte, quando si esprime così: – Se una donna è unita in matrimonio ad un uomo che ama, dovrà dividere con lui tutta la sua vita, e se una donna è sposata con uno che non ama, dovrà ugualmente dividere tutta la sua vita con lui”. Così, quest’intellettuale dell’alta società, descrive l’umile situazione della donna, il suo livello, la sua debolezza e sottomissione al marito. Quanto alle donne appartenenti a classe sociali più basse, erano, sicuramente ancor più da compiangere.

Le concezioni teoriche di base nella cultura cinese rivelano che i due principi, Yin (quello femminile) e Yang (quello maschile), sono considerati alla pari e l’uno non può esistere senza l’altro. Il mondo delle “diecimila cose” è generato dall’unione tra yin e yang. I due elementi sono frammisti ed inseparabili. Questo rapporto dialettico tra i due elementi, tra le due polarità dell’universo, è presente in tutto il pensiero cinese, fino alle sue espressioni più recenti. Nei due principi opposti, eppure complementari, il pensiero tradizionale cinese ha visto la spiegazione del continuo divenire del mondo e di tutte le cose. I due principi, proprio perché complementari e necessari l’uno all’altro, sono concepiti su un piano di assoluta parità sostanziale.

Se questa sembra essere la base teorica, però in realtà nel corso della storia la donna ha subito, in Cina, segregazione ed oppressione. Una condizione le cui ragioni devono essere ricercate nelle basi della storia e della tradizione culturale e sociale della Cina. Il carattere che in cinese significa maschio consiste nell’unione di altri due caratteri, dei quali uno significa “campo” e l’altro “forza”. Suggerisce l’idea dell’impegno della forza fisica maschile nel lavoro dei campi e nell’agricoltura. Il carattere che significa donna è invece presente, quale elemento compositivo, in una serie di caratteri che hanno attinenza con il clan familiare, a cominciare da quello che significa “cognome” e che è costituito da “donna” e da “nascere”. La tranquillità, la pace, la sicurezza, è espressa, a sua volta, da un carattere che raffigura un tetto e da una donna. La sicurezza e l’ordine sono rappresentati quindi dal controllo che ha la donna su tutto ciò che è interno; la forza fisica dell’uomo invece si esercita all’esterno, nei campi. Ai due concetti di yin e di yang corrispondono, così, nei e wai, l’interno e l’esterno: si tratta di una bipartizione di sfere d’influenza che in Cina non ha mai cessato di esistere. Una volta realizzatasi questa bipartizione, la situazione si dovette cristallizzare sempre di più e, dato che le attività “esterne”, con il progresso delle attività economiche ad esse connesse, sono venute sempre più aumentando d’importanza, la donna, l’elemento yin al quale era riservato il nei, l’interno, si è trovata facilmente segregata, sottomessa, considerata come oggetto. I tentativi femminili di occuparsi di attività “esterne” quali la politica, dalle famose imperatrici dell’antichità fino al recente caso di Chiang Ch’ing, sono stati sempre condannati dai tradizionalisti ed in genere dall’opinione pubblica, anche se non tradizionalista, soprattutto perché rompevano un ordine costituito, debordando dall’ ”interno” all’ ”esterno”.Una volta verificatasi questa subordinazione femminile, troviamo in Cina i segni evidenti di essa in molti aspetti del costume: la donna vista come oggetto erotico al punto di essere costretta anche alla mutilazione fisica (piedi fasciati) per aumentare il suo richiamo fisico, l’infanticidio (in prevalenza femminile), la ricerca spasmodica dell’erede maschio, la prostituzione e la poligamia (per i ceti abbienti). Esempio chiaro di come la donna è considerata nella tradizione cinese, è quello relativo alla”fasciatura dei piedi”. La pratica di fasciare i piedi fu introdotta nell’uso un migliaio di anni fa, a quanto si dice, da una concubina dell’imperatore. La fasciatura dei piedi era un comodo mezzo per esprimere e rafforzare un nuovo concetto di castità femminile che la Cina era venuta sviluppando: una moglie casta doveva rimanere relegata in casa e non doveva farsi vedere nei campi e per la strada; e camminare con i piedi fasciati rendeva l’incedere penoso e difficile. Avere piedi così piccoli e deformati, causa di dolori costanti, limitava inevitabilmente il movimento, forzando a una segregazione domestica che escludeva la partecipazione della donna alla vita sociale. La fasciatura rivelava quindi la condizione economica di una famiglia: un uomo che aveva una moglie con i piedi fasciati provava a tutti che egli era abbastanza ricco da mantenere una donna con i suoi guadagni e che non aveva bisogno d’aiuto nei campi o nel negozio. Conseguentemente i piedi grandi, propri dell’altro sesso, erano indice di appartenenza ad una classe sociale povera. Serve e contadine avevano i piedi a grandezza naturale, come le donne delle minoranze etniche (soprattutto della Mongolia), mentre erano bendati quelli delle signore delle classi sociali più elevate, incluse naturalmente legittime consorti e concubine degli imperatori delle varie dinastie, a partire dagli Han (206 a.C. – 220 d.C.) – passando per la dinastia Tang, Song, Yuan e Ming – fino agli ultimi imperatori Qing (1644-1911).

Ufficialmente, con la nascita della Repubblica Popolare Cinese, nel `49, è stato vietato. L’usanza di fasciare i piedi, vivido simbolo della soggezione della donna, sopravvisse e fiorì per secoli. Il costume era parte integrante di una società patriarcale che inculcava nelle donne l’obbedienza. Una dama virtuosa accettava passivamente la sua condizione d’inferiorità intellettuale e rimaneva tagliata fuori dal mondo esterno. Opporsi alla fasciatura era cosa impensabile, significava ribellarsi alle tradizioni cinesi, che miravano a mantenere una netta divisione tra uomini e donne. Innamorarsi era considerato quasi una vergogna, un disonore per la famiglia; non perché fosse tabù – dopo tutto, l’amore romantico aveva in Cina una tradizione venerabile – ma perché si riteneva che i giovani non dovessero trovarsi esposti a situazioni in cui ciò potesse accadere, sia perché incontrarsi era giudicato immorale, sia perché il matrimonio era considerato innanzi tutto un dovere, un accordo tra due famiglie. Naturalmente era considerato altamente encomiabile che una donna si sottoponesse fin dalla prima infanzia al temuto dolore della fasciatura dei piedi con stoica rassegnazione e che trattenesse le lacrime per compiacere alla madre e conformarsi così ai canoni della bellezza sanzionati nei secoli. Il successo o il fallimento della fasciatura (fatta dalla madre stessa) dipendeva dall’abilità con cui veniva stretta la benda intorno a ciascun piede. La fascia, larga circa cinque centimetri e lunga tre metri, si applicava in questa maniera: se ne fissava un capo alla parte interna del collo del piede, veniva quindi fatta passare con forza sulle dita, a eccezione dell’alluce, in modo da ripiegarle sotto la pianta del piede. L’alluce non veniva fasciato. Si passava poi strettamente la benda intorno al calcagno in modo che tallone e dita fossero ravvicinati il più possibile. Si ripeteva quindi il procedimento fino a totale utilizzazione della fascia. Il piede delle fanciulle era soggetto a una forzata e continua pressione: lo scopo infatti non era solo quello di comprimere il piede, ma anche di curvare le dita, di ripiegarle sotto la pianta e di riavvicinare la pianta stessa al tallone fino al limite del possibile. Non solo alcuni uomini trovavano erotica l’andatura barcollante delle donne su quei piedi minuscoli, ma si dilettavano a giocherellare con i piedi fasciati, che erano sempre nascosti da scarpette di seta ricamata. Le donne non potevano togliere le fasciature neanche da adulte, perché i piedi avrebbero ripreso a crescere. Potevano solo allentarle temporaneamente di notte, e allora calzavano scarpette dalla suola morbida. Di rado gli uomini vedevano nudi i piedi fasciati, che di solito erano ricoperti di pelle putrescente e mandavano cattivo odore, una volta tolte le bende. Alla donna cinese dell’età imperiale si insegnava l’amore per la castità e il “loto d’oro” – cioè il piede piccolo – fu considerato un possesso esclusivo del marito. Perfino i parenti stretti evitavano di guardare i piedi rimpiccioliti; la loro manipolazione da parte dell’uomo era considerata un atto di grande intimità. La donna di buona educazione provava grande imbarazzo e vergogna – che poteva condurla sino al suicidio – quando ad accarezzarle il piede o a toglierle la scarpa era una persona diversa dal marito. Nei tempi antichi, quando era una pratica largamente diffusa e non osteggiata, la fasciatura dei piedi ebbe i suoi accaniti sostenitori, veri e propri amanti del loto d’oro.
Tra di essi spiccava un aristocratico di nome Fang Xun – probabilmente uno pseudonimo – che, autonominatosi “dottore del loto fragrante”, con esaltati slanci lirici elencò le componenti estetiche necessarie perché il piede rimpicciolito fosse degno di lode, riportò alcuni commenti critici e analizzò alcuni giochi che prevedevano per la cui esecuzione erano indispensabili le scarpine. Inoltre fissò nove categorie di bellezza, che comparò ufficialmente alle nove classi in cui era divisa la società cinese. Le prime tre erano: “Qualità divina”, “Qualità meravigliosa” e “Qualità immortale”. Vi era anche tutta una serie di termini per descrivere il piede, la scarpa e i suoi accessori. Si riteneva comunemente che il “loto d’oro” fosse lungo otto centimetri o meno, il “loto d’argento” da otto a dieci e il “loto di ferro” più di dieci. Le scarpe di queste donne dai piedi piccoli, confezionate su misura – di cotone per tutti i giorni e di seta ricamata per le ricorrenze – erano lunghe da 7 a 12 centimetri. La pratica di fasciare i piedi raggiunse la massima diffusione verso la fine della dinastia Qing (1644-1911), ma già allora erano evidenti i segni della sua decadenza. Le frequenti disposizioni imperiali contro il costume era la riprova della loro inefficacia. Nel sec. XVII i conquistatori mancesi della Cina furono i primi a combattere l’usanza che aveva ormai raggiunto la sua piena fioritura e andarono orgogliosi dei piedi grandi e naturali delle loro donne, differenziandosi così dai conquistati. Verso la fine del sec. XVIII e l’inizio del XIX, molto prima che giungessero in Cina le idee occidentali di uguaglianza dei sessi, i leader cinesi cominciarono a combattere per i diritti femminili, e ben presto la lotta si orientò anche contro la fasciatura dei piedi. Il movimento abolizionista incominciò ad avere l’appoggio dei critici cinesi progressisti, dei missionari occidentali e delle loro mogli. Questi ultimi, però, più che combattere per l’uguaglianza delle donne, si scagliavano contro l’innaturalezza del costume.
Il primo passo verso l’abolizione della fasciatura dei piedi fu un decreto imperiale del 1902 in cui si caldeggiava il divieto di fasciare i piedi durante l’infanzia; era questo infatti il sistema più umano per sradicare tale costume. Ma l’infelicità e l’amarezza causate alle donne adulte dall’interruzione della pratica erano tali che le misure adottate non sortirono gli effetti sperati. Venne proposta la moderazione per far sì che la fasciatura giungesse al suo epilogo naturalmente, senza causare inutili sconvolgimenti sociali. La tendenza a divorziare dalle mogli con i piedi rimpiccioliti venne bollata come atto barbarico, indegno d’una società civile e responsabile. Nell’agosto del 1928, il ministro degli affari interni emanò un’ordinanza articolata in 16 paragrafi contro la fasciatura e ingiunse a tutte le prefetture di farla scrupolosamente rispettare. Certo è che le donne con i piedi fasciati che vissero nel periodo di transizione soffrirono doppiamente. Nella prima fanciullezza dovettero sopportare il dolore e il disagio della fasciatura, solo per sentirsi dire, nella maturità, che le loro sofferenze erano state vane, dati i nuovi dettami della rivoluzione e i cambiamenti dei gusti estetici. Per il rivoluzionario cinese, lo sradicamento della pratica della fasciatura dei piedi e l’emancipazione femminile avevano il medesimo significato. L’eliminazione del costume era un obiettivo importante, ma difficile da raggiungere dato che le donne, relegate nell’intimità dei boudoir rimanevano inavvicinabili. La riforma conobbe i suoi primi successi nelle città e nei grossi centri. Verso la fine degli anni Venti la pratica della fasciatura era ormai in fase calante; ma la concezione maschile conservatrice, che vedeva nella donna un essere inferiore e un passatempo, era rimasta sostanzialmente inalterata. La donna cinese dovette attendere la definitiva ascesa al potere di Mao, per vedere distrutta totalmente questa pratica. In conclusione, si può dire che le donne cinesi per secoli sono state considerate inferiori, semplici fattrici di una discendenza possibilmente maschile. Durante tutta la storia le capacità della donna sono state imprigionate e bloccate da segregazioni, pregiudizi e sofferenze, ed anche l’emancipazione è stata forzata, passiva, diretta in modo sbagliato, con secondi fini e spesso pagata a caro prezzo.

Anche nella società occidentale e non solo in Cina c’è ancora molto da fare per arrivare alla parificazione dei diritti fra uomo e donna, che non deve essere un’uguaglianza in tutto, ma un’uguaglianza di fatto, che sappia tener conto delle differenze e ne faccia tesoro, non le sopprima; bisogna rafforzare i diritti per giungere a una piena integrazione. Chi lo sa se una Cina segnata dal comunismo, divisa tra tradizione, storia e corsa all’occidentalizzazione estrema riuscirà a dare alle donne questo spazio, questa libertà e questa forza che esse attendono da tanto. Come visto il ruolo della donna in Cina è sempre stato subalterno e tenuto ai margini della cultura e della scienza. Ma, anche in Occidente, la storia delle donne nella cultura e nella vita civile è stata una storia di emarginazione fino alla fine dell’Ottocento e in gran parte ancora fino alla metà del Novecento, almeno nei paesi industrializzati. All’aprirsi del XIX secolo si affacciavano le istanze di riscatto delle donne “senza diritti”, nel tentativo di eliminare tante ingiuste diseguaglianze sociali. Negli stessi anni, però, la scienza medica proponeva un’unica lettura delle differenze fisiologiche di genere, dando solida credibilità alla ideologia naturalistica che sosteneva la “naturale” inferiorità della donna, accettata nella banalità di un sentire da non mettere in discussione. In questo articolo si ripercorrono certi tratti della medicina che, quando spiegava la fisiologia della donna, si impaludava in ambiguità, ristagnava in vecchie posizioni scientifiche e agiva sul senso comune. Le spiegazioni fisiologiche delle differenze tra uomo e donna venivano in aiuto a quanti, nel turbinoso itinerario del pensiero emancipazionista, radunavano le forze necessarie per opporvisi e contrastare le pretese di trasformazioni. Aggirandosi nella letteratura d’epoca, si comprende che i medici, spiegando le “naturali diseguaglianze” giustificative del comportamento privato e dell’agire sociale femminile, subordinato all’uomo, vivevano una loro sorta di pace interna e di tranquillo conformismo. Nel fisiologismo ottocentesco si trovano le descrizioni anticipatrici di certe presunzioni che poi fiorirono più diffusamente con tutti quelli che misuravano crani o pesavano cervelli, con le convinzioni di Lombroso e di Moebius, visionario propagandista della “assoluta sterilità mentale” della donna. In molti paesi in via di sviluppo, salvo rare eccezioni, le donne sono ben lontane non solo dall’aver raggiunto la parità con l’altro sesso, ma anche dal vedere loro riconosciuti i più elementari diritti di esseri umani. Quali possono essere le cause di questa situazione che risale indietro nei secoli? Forse già nelle epoche preistoriche, la forza fisica necessaria per sopravvivere, le numerose gravidanze e il lungo periodo di allattamento e di cura della prole hanno portato alla differenziazione dei compiti. Per secoli le donne che potevano avere accesso all’istruzione erano quelle rinchiuse nei conventi. Forse per questo le donne che sono emerse nel passato erano soprattutto umaniste, pittrici, scrittrici, poetesse, ma molto più raramente scienziate. Infatti chi ha attitudini artistiche o letterarie può emergere anche senza una preparazione specifica, mentre le scienze, e in particolare le cosiddette scienze “dure” come matematica e fisica richiedono una preparazione di base, senza la quale è quasi impossibile progredire. Solo quelle poche favorite dall’avere un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere le proprie cognizioni, potevano farsi una cultura scientifica. Basta ricordare che ancora all’inizio del XX secolo in molti paesi europei alle ragazze era precluso l’accesso alle università ed anche ai licei. Perciò le donne, escluse dalle università, escluse dall’educazione scientifica, sono emerse là dove potevano emergere. Così è sorto il pregiudizio secondo cui le donne sarebbero più adatte alle materie letterarie e linguistiche che non a quelle scientifiche. Le stesse ragazze crescono in mezzo a questi pregiudizi e se ne lasciano influenzare, e scelgono le facoltà umanistiche anche contro le loro naturali inclinazioni, contribuendo così a rafforzare i pregiudizi stessi. Comunque oggi cresce sempre di più il numero di ragazze che scelgono materie ritenute tipicamente maschili come ingegneria. Malgrado le difficoltà incontrate, non sono poche le scienziate che hanno portato importanti contributi allo sviluppo della scienza. La storia ci tramanda i nomi di alcune famose scienziate. Ce ne furono una ventina nell’antichità, fra cui emerge il nome della matematica Ipazia; solo una decina nel medioevo, soprattutto nei conventi, quasi nessuna tra il 1400 e il 1500, 16 nel 1600, 24 nel 1700, 108 nel 1800. Oggi solo nel campo dell’astronomia sono più di 2000, ed in ogni campo dei sapere le ricercatrici universitarie superano il 50%, con punte dell’80% nelle facoltà umanistiche, del 60% in quelle di scienze biologiche, dal 30 al 40% nelle scienze abiologiche, più dei 50% nelle matematiche, mentre sono ancora al di sotto dei 20% in facoltà come ingegneria e agraria. Fra le matematiche va ricordata Ipazia (370-415 d.C.), figlia del matematico e filosofo Teone. Diventò capo di una scuola platonica di Alessandria d’Egitto frequentata da molti giovani. Fu uccisa barbaramente da monaci, forse anche perché tanta genialità matematica in una donna poteva sembrare indice di empietà. Nel 1700 Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) fu la prima donna ad essere chiamata a ricoprire una cattedra universitaria, all’Università di Bologna, e Sophie Germain (1776-1831) fu una riconosciuta esperta di teoria dei numeri e di fisica. Nel XIX secolo ci sono numerose grandi matematiche, fra le quali emergono soprattutto Sofia Kovaleskaja (1850-1891), professore all’Università di Stoccolma, e Emmy Noether (1882-1935), fondatrice dell’Algebra moderna. Fra le matematiche italiane di questo secolo ricordo Pia Nalli (1866-1964) professore ordinario di analisi matematica all’università di Cagliari e poi di Catania; Maria Pastori (1895-1975) ordinario di Meccanica Razionale all’università di Messina, Maria Cibrario Cinquini (1905-1992), ordinario di Analisi matematica a Cagliari e professore emerito dell’università di Pavia, Maria Biggiogero Masotti ordinario di geometria presso il Politecnico di Milano. Fra le fisiche e le astrofisiche vanno ricordate, naturalmente Marie Sklodwska Curie (1867-1934), premio Nobel per la fisica nel 1903 e per la chimica nel 1911, e prima donna professore alla Sorbona e la figlia Irene Curie (1897-1956) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1856) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1968) che scopre il fenomeno della fissione nucleare ed è la prima donna ad avere una cattedra universitaria di fisica in Germania; Marie Goeppert Mayer (1906-1972) premio Nobel per la fisica nel 1963 per la sua teoria sui “numeri magici” che determinano la stabilità degli atomi; Wu Chieng-Shiung (1913-1997), professore di fisica alla Columbia University, scopritrice della non conservazione della parità nelle interazioni deboli. Fra le astronome e astrofisiche va ricordata Caroline Herschel (1750-1848) che insieme al fratello William iniziò lo studio fisico del cielo, occupandosi di quello sfondo di stelle fino allora considerato poco più di uno scenario su cui si muovevano i pianeti. A loro si deve lo studio delle nubi interstellari, la scoperta di regioni apparentemente prive di stelle, che oggi sappiamo essere regioni ricche di polveri che ci nascondono le stelle retrostanti, e lo studio della distribuzione delle stelle sulla volta celeste. Maria Mitchell (1818-1889) è stata la prima famosa astronoma americana, docente di astronomia al Vassar College e direttrice di quell’osservatorio, che ha preso il suo nome. Un terzetto di astronome americane che hanno legato il loro nome a scoperte e ricerche fondamentali per la moderna astrofisica sono Henrietta Swan Leavitt (1868-1921), Anne Cannon (1863-1941) e Antonia Maury (1866-1952). La prima scoprì la relazione che lega il periodo di variazione di luce di una classe di stelle variabili dette “Cefeidi” al loro splendore assoluto, facendo di questa classe di stelle uno dei migliori mezzi per la determinazione delle distanze delle galassie. Alla seconda si deve la classificazione degli spettri di più di 225.000 stelle; il risultato del suo lavoro è raccolto nel poderoso catologo “Henry Draper” (dal nome dei finanziatone dell’opera) che è ancora oggi largamente consultato. La terza scoprì alcune caratteristiche degli spettri stellari, che permettevano di stabilire lo splendore assoluto di una stella, e quindi – misurato lo splendore apparente – risalire alla distanza. Essa ha anticipato di almeno due decenni il metodo di determinazione delle distanze dal semplice studio dello spettro. Una grande astrofisica, iniziatrice dei metodi di studio delle atmosfere stellari e della determinazione della loro composizione chimica è stata Cecilia Payne Gaposchkin (1890-1979). Iniziatrice dello studio dell’evoluzione chimica della Galassia è stata una giovane astrofisica, Beatrice Tinsley, scomparsa prematuramente una ventina di anni fa. Oggi sono numerosissime le astrofisiche di fama internazionale che guidano gruppi di ricerca nei più svariati campi, dalla fisica stellare alla cosmologia, e delle più svariate nazionalità. Si può stimare che in tutto il mondo rappresentino dal 25 al 30% di tutti gli astronomi e astrofisici. Altrettanto numerose sono le scienziate nel campo della biologia e delle scienze mediche, molte insignite di premio Nobel. Per tutte ricordiamo Rita Levi- Montalcini (1909) premio Nobel per la medicina nel 1986. Sebbene oggi i contributi delle donne alla scienza vengano riconosciuti, resta il fatto che le scienziate per emergere devono generalmente lavorare di più dei loro colleghi e devono ancora superare numerosi pregiudizi, che, contrariamente a quanto si crede, sono maggiori nei paesi anglosassoni che non in quelli latini. Torniamo alla Cina e alla Medicina di quel Paese. Certamente la più celebre fra le donne-medico nella tradizione cinese fu Bao Gu, moglie dell’alchimista Ge Hong, nota come “la dea della medicina”, la cui tomba si trova in un tempietto bianco, nella Città Proibita, a Pechino. Fu una famosa esperta di moxibustione e dermatologia, viaggiò in luoghi lontani, fu una ricercatrice assidua e scrisse, col marito, il testo Shijou Fang (施芳柔) o “Prescrizioni Tardive”. Nata nel Guangdong, nei pressi delle montagne Luofu, ivi studiò alchimia taoista (sotto la guida di Bao Liang) e, successivamente, si perfezionò in arti guaritorie viaggiando nelle città di Nanhai, Huiyang e Boluo. Ideò la combinazione di erbe per moxa nota come Hongjiao ed un tempio a lei dedicato, dettio Palazzo Sanyuan, si trova ai piedi del monte Yuexiu nel Guangzhou. È portata ad esempio dell’apertura della Medicina cinese anche alle donne. Ma altre grandi donne hanno attraversato la storia della Medicina Cinese, come Yi Shuo, della dinastia Han, Zhang Xiaoniangzi, della dinastia Song e Tan Yunxian, vissuta nel periodo Ming. Prima giudicare con dura severità la tradizione cinese, va comunque ricordato che, in Europa, solo la Scuola Medica Salernitana conferirà (1200-1300) la Laurea anche ai Medici appartenenti al gentil sesso e più tardivamente che in Cina.

 

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–             Noble D.F.: Un mondo senza donne e la scienza occidentale, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

–             Robinet I.: Histoire du taoisme des origines au XIVe siècle, Ed. Du Cerf, Paris, 1991.

–           Tugnoli Pattaro S.: A proposito delle donne nella scienza, Ed. CLUEB, Bologna, 2003.

–             Qizhi Z.: Traditional Chinese Culture, Ed. Foregein Linguages Press, Beijing, 2004.

–             Schimdt G.H.: Storia della Cina, Ed. Mondadoti, Milano, 2005.

–             Wei Kang F.: The story of Chinese Acupuncture and Moxibustion, Ed. Foregein Linguages Press, Beijing, 1975.

–             Zhen’guo W., Ping C.: History and Development of Traditional Chinese Medicine, Vol 1, Ed. IOS Press, New York, 1999.

 

 




Caos, qi, alchimia: breve dissertazione su temi complessi

Carlo Di Stanislao*

“L’Imperatore del Mare del Sud si chiamava Shu, l’Imperatore del Mare del Nord si chiamava Hu, l’Imperatore della regione centrale si chiamava Hun-tun. Shu e Hu di volta in volta si riunivano per un incontro nel territorio di Hun-tun, e Hun-tun li trattava entrambi molto generosamente. Shu e Hu discutevano di come potrebbero ripagare la sua gentilezza. Dicevano: “Tutti gli uomini hanno sette aperture, così da poter vedere, sentire, mangiare e respirare. Ma il solo Hun-tun non ne ha alcuna. Cerchiamo di aprirgliene una!” Ogni giorno essi aprivano un altro buco, e il settimo giorno Hun-tun morì” Shan Hai Jing (山海經)

Una goccia che si spande nell’acqua, le fluttuazioni delle popolazioni animali, i ritmi della fibrillazione cardiaca, la Grande Macchia Rossa di Giove, le oscillazioni dei prezzi, gli errori del computer. Sono fenomeni apparentemente assai diversi, con un solo tratto in comune: per la scienza tradizionale appartengono al mondo dell’imprevedibile, al “caos”(1).

Tempo fa, un metereologo fece notare che se le teorie erano corrette, un battito delle ali di una farfalla sarebbe stato sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre.

Queste osservazioni hanno portato allo sviluppo della Teoria del Caos.

L’effetto farfalla (l’espressione metaforica della Teoria del Caos), in conclusione, sottolinea come nella maggior parte dei sistemi biologici, fisici, economici e sociali, esistano degli elementi che, apparentemente insignificanti, sono in grado, interagendo fra loro, di propagarsi e amplificarsi provocando effetti imprevedibili. La Teoria del Caos rappresenta quindi la zona del cambiamento, dell’innovazione, della creazione di novità, della creatività. Tutti i sistemi complessi per evolvere si trovano in delicato equilibrio tra ordine e disordine. Il messaggio positivo contenuto nelle scoperte scientifiche della Teoria del Caos è che ciascuno di noi, inserito in una Coralità, può cambiare la propria realtà. Un messaggio che ci invita all’azione in prima persona, al cambiamento In altre parole possiamo dire che il nostro futuro dipende da noi: lo costruiamo momento per momento, con decisioni e pensieri (2). Secondo Prigogine la realtà è un “miscuglio” di disordine ed ordine, e l’universo funziona in modo tale che dal caos nascono nuove strutture, chiamate strutture “dissipative”. Per cominciare a comprendere questo punto di vista, possiamo farci guidare dall’esempio dei circuiti circolari. Si tratta ·cioè, di circuiti che incominciano e finiscono in sé stessi. Dato che si tratta di processi circolari, possiamo incominciare a descriverli a partire da qualunque punto scelto arbitrariamente, per esempio, a partire da A (stato di equilibrio). La fisica si è destreggiata tradizionalmente con un principio filosofico abbastanza semplice: quello che è, continua ad essere, finché non ci sono cause che portano ad una modificazione dello stato pre-esistente. Di qui l’importanza dei principi fisici di conservazione: conservazione della quantità di movimento, conservazione della massa, conservazione dell’energia, etc. Più concretamente, nel nostro caso, si considera che un sistema tende a rimanere in equilibrio se non c’è nessun agente disequilibrante, e nel caso ci sia, il sistema perturbato poi evolverà di nuovo spontaneamente verso lo stato di equilibrio.

Tutto questo ci spiega l’idea di Qi nei suoi diversi aspetti che circola incessamente nel sistema chiuso dei meridiani e ci dice che ogni sintomo o malattia è non solo disequiluibrio e caos, ma anche occasione per un radicale rinnovamente o un profondo cambiamento. È scritto nei classici ma anche nei testi più recenti di autori (3-4) molto prossimi alla cultura primigenia della tradizione cinese che i Meridiani sono traiettorie e che l’insieme dei Meridiani Principali e Secondari, Jing e Luo, assomiglia alla forma dell’attrattore di Lorenz, una realtà complessa che in realtà di basa su due sole traiettorie, longitudinali (Jing) e trasversali (Luo) che divergono fra loro nella evoluzione lineare del sistema(5-6).

Ora, occupandoci di taoismo, va ricordato che Hun-tun, ovvero il Caos che è il “Senza Forma”, non deve essere confuso con il solito caos com’è visto nel mondo occidentale nel senso “caotico”. Esso è l’ideale supremo del Taoismo, totalità, unicità e natura, sicché scavare buchi sulla testa del Caos significa distruggere lo stato naturale del cosmo che non solo è permeato dal senso del caos ma presenta anche uno specifico stato estetico. L’ordine che diamo al nostro Qi caotico condiziona la tramatura (Ti) del tessuto invisibile ma sostanziale che plasma e cambia la nostra forma (Xing), che non è casuale o caotica, ma figlia degli ordini raggiunti e continuamente cambiati nella nostra esistenza ed in base ad esperienze e maturazioni(7). Non è un caso che, secondo il “Libro dei monti e dei mari” (Shang Hai Jing) il caos risiede al Centro dell’universo e quindi nel cuore centrale di ogni essere vivente(8-99. Così le interiezioni fra varie forme di 5, fra Meridiani, Organi, Ritmi, ci precisano che è passaggio da ordine e disordine il principio cui la vita come fenomeno evolutivo si ispira.

“Il caos nasce dall’ordine, la codardia dal coraggio, la debolezza dalla forza”, afferma Sun Tzu. Che aggiunge: “Ordine e caos dipendono dall’organizzazione, coraggio e codardia dipendono dal potere, forza e debolezza dipendono dalla forma”.

L’organizzazione dipende da quel concetto di “dividere e contare” precedentemente introdotto dall’autore: si riferisce al dividere il proprio esercito in gruppi più piccoli e gestibili. Mettendo l’esercito nelle condizioni più adatte per l’esercizio del potere, si lascia emergere il suo coraggio in modo naturale. La “forma” indica la formazione delle truppe e, più in generale, qualsiasi strutturazione delle forze. La codardia e il coraggio sono due momenti di uno stesso ciclo. Se invece di manipolare una parte del ciclo diamo forma all’ambiente usando l’organizzazione, il potere o la forma, la qualità che cerchiamo sarà già manifesta.

Secondo il commentatore Li Quan, il disordine nasce dalla cura esclusiva nei confronti dell’ordinamento del governo, senza preoccuparsi del benessere dei sudditi.

Jia Li aggiunge questa considerazione: “Se si fa troppo conto dell’ordine, si provocherà disordine. Se si fa troppo conto del coraggio e del valore, si provocheranno debolezza e codardia”.

Più completo il commento di Du Mu che, a corredo della legge, afferma: “Se si vuole fingere disordine per ingannare i nemici, occorre prima godere di un ordine perfetto; soltanto allora si potrà creare un disordine simulato. Se si vuole fingere codardia, per spiare nel frattempo le mosse dell’avversario, occorre prima godere di un coraggio perfetto; soltanto allora si potrà agire con viltà simulata. Se si vuole fingere debolezza per suscitare l’arroganza del nemico, si dovrà prima godere di una forza perfetta. Soltanto allora ci si potrà mostrare debole.”

Applicando tutto ciò alla medicina, l’ordinamento eccessivo perseguito con i farmaci e le terapie fisiche e chirurgiche della biomedicina sono il contrario di ciò che in natura produce benessere e cambiamento, rinnovamento ed assieme equilibrio(10). Nel rispetto, invece, di quella diffusa convinzione taoista secondo la quale gli opposti si generano reciprocamente, con Sun Tzu possiamo affermare che, poiché il disordine deriva dal controllo, la vigliaccheria deriva dall’audacia, la debolezza deriva dalla forza, possiamo concludere che il controllo e il disordine esistono in virtù dell’enumerazione, cioè di una casistica; l’audacia e la vigliaccheria in virtù del potere, la forza e la debolezza in virtù della configurazione tattica.

In questa legge che segue i suggerimenti del pensatore cinese Lao Tzu, il bello esiste in funzione del brutto, e l’imperfetto ha ragione d’essere in funzione dell’eccellente, sicché ogni patologia è occasione di cambiamento che va controllato nei suoi effetti più gravi e drammatici, ma mai completamente annientato o cancellato(11).

Il passaggio continuo disordine ordine è passaggio alchemico che consiste in una disciplina che comporta un lavoro fisico, di ricerca, psicologico e spirituale, simbolo dell’uomo che è alla ricerca del perfezionamento della sua natura., ma lo fa non in continua progressione, ma con cadute caotiche che conducono a nuove ascese.

Ora c’è un testo dei primi decenni del ‘600, l’Atalanta Fugens (12) di un alchimista tedesco, Michael Maier, in cui per la prima volta la corrispondenza di alchimia e musica è messa a tema. L’Atalanta Fugens è costruito come una serie di motivi, di emblemi alchemici ai quali corrisponde una serie di ‘fughe musicali, fughe nel senso tecnico della parola, che illustrano anche nella forma il tema del titolo. Atalanta inseguita da Ippomene fugge, lancia i pomi ecc. ecc. E questo viene preso come simbolo della ricerca alchemica nel suo complesso: ogni punto, ogni stadio dell’opus ha quindi una sua musica.(13-14) Anche noi, nel caotico procedere della vita, muoviamo fra ordine e disordine. il nostro Qi vibra, producendo suoni e musica, alla ricerca di una sintonia in equilibrio con la musica dell’universo.

Prigogine I.: Le leggi del caos, Ed. Laterza, 2008.

Gleick J.: Caos. La nascita di una nuova scienza, Ed. Rizoli, Milano, 2000.

Sterman A.C.: Advanced Acupuncture a Clinic Manual, Ed. Theoklesia, New York, 2013.

Yu Ji W., Roberson J.D.: Le applicazione pratiche della Teoria dei canali di Wang Ju-Yi, Ed. CEA, Milano, 2013.

Davies P.: Il cosmo intelligente, Ed. Mondadori, Milano, 1989.

Prigogine I., Glansdorff P.:Thermodinamic Theory of Structure, Stability and Fluctuations, Ed. Wiley, NewYork 1971.

Villani P.: Introduzione al pensiero orientale, Ed. Città del Sole, Napoli, 1997.

Birrell A.: The Classic of Mountains and Seas, Ed. Penguin, New York, 2000

Mathieu R.: Etude sur la mythologie et l’ethnologie de la Chine Ancienne. Vol. I, Traduction annotée du Shanhai Jing. Vol. II, Index du Shanhai jing. Ed. College de France, Institut des Hautes Dtudes Chinoises, Paris, 1983.

Tzu S.: L’arrte della guerra, Ed. Tascabili Newton, Roma, 1994.

Di Stanislao C.: Cineserie. Note e appunti sulla Cina di Ieri e più recente, Ed. CISU, Roma, 2007.

Maier M.: Atlanta fugens, Ed. Mediterranee, Roma, 1984.

Bartolai D.: 50 canti alchemici dall’Atalanta fugiens trascritti per canto e chitarra classica, Ed. Musicali Bèrben, Ancona, 2006.

Yates F.A.: L’illuminismo dei Rosa-Croce, Ed. Einaudi, Torino 1976.




Qi, Yi-Ching e Tao: un’interpretazione quantistica

Alberto Lomuscio*

Introduzione

L’Universo è dominato dai numeri, simboli della trasformazione dell’energia. Viene qui proposta una modalità d’osservazione dell’Universo partendo dai più antichi codici numerologici che descrivono i movimenti energetici del macrocosmo, confrontandoli con quelli del microcosmo. Questi codici sono basati sulla composizione dei trigrammi in due schemi fondamentali: il sistema del Cielo Anteriore di FU HI (Schema 1) e del Cielo Posteriore di RE WEN (Schema 2).

Per studiare l’energia, il QI, è necessario analizzare il contesto globale nel quale l’energia stessa è contenuta, e col quale interagisce, e pertanto verranno valutati entrambi gli schemi del codice primigenio (l’ Yi-Ching) con tutti i relativi trigrammi, tentando una correlazione tra gli stessi e i vari aspetti delle energie costitutive della realtà.

Il primo esprime la Realtà Implicata, non manifesta, non realizzata, il secondo la Realtà Esplicata, creata, manifesta. Lo Schema 1 descrive le leggi-base e l’ordine dell’Universo secondo l’opposta polarità, in un ordine metafisico-psichico al di fuori di spazio e tempo. Lo Schema 2 esprime le stesse leggi, ma realizzate nel tessuto spazio-temporale che le contestualizza, le realizza nella concretezza della realtà, conferendo le vesti della successione temporale e di uno sviluppo.

Lo Schema 1 è caratterizzato dalla presenza del trigramma Cielo, ossia il massimo YANG, contrapposto al trigramma Terra, il massimo YIN, ed è indicativo delle leggi-base, assolute e immutabili, che governano l’Universo. Vediamone i singoli Trigrammi.

Cielo

È lo yang primigenio, indivisibile, senza massa, senza tempo né spazio, senza l’ombra di un polo opposto che possa renderlo duale: è il fotone, particella senza massa, che vive fuori dalle barriere del tempo, che non conosce una antiparticella che gli faccia da contrappeso.

La sua caratteristica è di essere Creatore, come fa la luce, come quando da un fotone nasce un elettrone e, come nel diagramma del Cielo Posteriore, vedremo che faranno le stelle, la cui condensazione nucleare crea atomi di ferro, di carbonio, e così via: la Luce produce la materia!

Il trigramma si riferisce a un mondo insondabile, regno degli archetipi, e i primi archetipi sono i princìpi yin e yang che cooperano a creare le forme, che sono invece espressione del trigramma Terra. Ecco perché si dice che il Cielo è il principio del senza forma, e la Terra è il principio della forma.

È la produzione del progetto genotipico, ma essendo ancora nel Cielo Anteriore, non si tratta ancora di materiale chimico composto dagli acidi nucleici, bensì della “luce del DNA”, del DNA come “campo quantico di luce”, secondo il suggerimento di Hayes:

“Il piano della luce – il campo quantico dei fisici – permea l’intero mondo materiale che esiste nel tempo. E l’onnipresente fotone costituisce il vettore di forza di tutti i processi quantistici, l’intermediario tra tutte le interazioni elettromagnetiche. Perciò, quando la materia cambia per trasmutazione […], i fotoni vengono continuamente assorbiti o sprigionati dagli elettroni in caleidoscopi di attività particellari/ondulatorie altamente risonanti”.

Hayes conclude questo brano ricordando che la risonanza armonica della luce dà accesso a un piano più alto di esistenza, che giunge a realizzare la creazione della materia, proprio come la risonanza della luce nel campo di forma crea il progetto genomico del futuro essere vivente.

Terra

Il suo significato energetico si basa sul Principio di Esclusione di Pauli: è un principio della meccanica quantistica che afferma che due fermioni identici non possono occupare simultaneamente lo stesso stato quantico.

Poiché gli elettroni sono fermioni, il principio di esclusione proibisce loro di occupare lo stesso stato quantico. Per esempio un atomo di elio neutro ha 2 elettroni associati,che possono entrambi occupare l’orbitale col livello di energia più basso (1s) acquisendo spin opposti. In un atomo di litio, che ha 3 elettroni, il terzo elettrone non può stare nell’orbitale 1s, ed è costretto a occupare uno degli orbitali a più alta energia (2s)

Secondo Teodorani, la realtà è dunque coinvolta in una danza astratta caratterizzata da un’armonia di opposti (simmetria/antisimmetria) e quel che stupisce è che ciò avviene senza alcuna causa materiale.

Per esempio nel principio di esclusione, dove ha luogo una danza antisimmetrica, l’esclusione tra particelle uguali non è in alcun modo il risultato di una forza, dal momento che non sussiste il principio di causa-effetto come normalmente avviene nella Fisica Classica ma è il risultato del movimento astratto delle particelle prese nel loro insieme. Qui non esiste un principio causativo, ma esiste una reale sincronicità che unisce simultaneamente tutte le particelle in una indissolubile interconnessione. Proprio osservando la a-causalità di questa danza iniziò a farsi strada il concetto di sincronicità in Fisica. È un disegno globale di natura astratta che tiene insieme armoniosamente il mondo come lo vediamo e lo conosciamo.

Nell’antisimmetria che sta alla base del principio di esclusione non si può fare altro che constatare che esiste “un qualcosa” in grado di correlare la dinamica di ciascuna particella individuale tenendola separata in quei differenti livelli energetici che sono i loro stati quantici. Possiamo accorgerci di questa specie di miracolo creativo sincronico nella materia solo entrando nell’infìnitamente piccolo. Ciò significa che spezzettando l’universo nei suoi componenti più minuti finiamo per accorgerci che questi componenti non interagiscono causalmente tra loro, come quando le molecole di un gas agiscono e reagiscono agli urti reciproci, ma co-esistono assieme sincronicamente co-creando la realtà come la conosciamo. Il principio di esclusione di Pauli è senz’altro uno dei presupposti sperimentali della legge di sincronicità sul piano della Fisica Quantistica. Il comportamento a-causale che questa misteriosa struttura universale esercita sulle sue particelle fa pensare che essa sia la mente dell’universo.

E proprio entrando nel reame delle particelle, noi conosciamo l’esistenza d’una danza sincronica. Dunque anche i nostri corpi son partecipi di questa danza universale. Ma se il campo di forma che governa questa danza non è altro che la psiche-mente del Tutto in comunicazione sincronica con le sue particelle, allora anche la nostra psiche-mente deve per forza essere in comunicazione con l’universo. La goccia cade nell’oceano, e l’oceano tutto si riversa nella goccia.

Il principio è alla base di molte delle caratteristiche distintive della materia: innanzitutto la materia creata dall’Uno ineffabile (Tao) è duale, poiché ora si sono formati lo yin e lo yang (l’Uno produce il Due), e si è creata l’Opposizione, ossia l’impossibilità da parte di due particelle di occupare lo stesso stato quantico, pena l’annichilazione delle stesse che scomparirebbero in un lampo di luce, tornando così all’Uno e perdendo la caratteristica di realtà creata

Inoltre, il principio di Pauli spiega la stabilità su larga scala della materia: gli atomi non possono essere spinti arbitrariamente uno contro l’altro, poiché gli elettroni di ogni atomo non possono entrare nello stesso stato degli elettroni di un’altro atomo – questa significa il termine “repulsivo”. E questo fatto spiega un’altra caratteristica tipica dello yin creato dallo yang, ossia l’individualità!

Io, atomo X, non poso fondermi con te, atomo Y, perché io sono io, e tu se tu: è la base psico-quantistica dell’ego!

Quindi il Trigramma Terra rappresenta l’archetipo dello Yin primigenio, divisibile, dotato di massa e con una vita limitata dal tempo e dallo spazio, dotato di un polo opposto che lo rende duale: è l’insieme dei fermioni, ossia le particelle elementari che sono la base strutturale della materia, la cui caratteristica fondamentale è di venir creata, ma contemporaneamente di saper strutturare lo spazio e il tempo, secondo il ben noto aforisma “Il Cielo informa, la Terra forma”.

L’asse Cielo-Terra esprime il principio yin/yang dell’Universo e l’interazione creatrice e strutturante tra luce e tenebra, dove per “tenebra”, termine anche biblico, va intesa la materia, proprio perché è un “ non-Yang”, “non-Luce”! È il Jing del Cielo Anteriore, ossia tutto quell’insieme di materia che precede la nostra esistenza: gli antenati, il DNA, la forma dell’Universo che ci ha formato prima della nostra nascita.

Fuoco

È il principio yang relativo, rappresenta la tendenza alla presentazione energetica delle particelle: è l’onda elettro-magnetica, e qualsiasi onda, che si comporterà come energia pura. È relativo, perché comprende anche la c.d. “energia oscura”, simboleggiata dalla linea spezzata nel mezzo del Trigramma (nel linguaggio analogico dell’I-King, la linea spezzata è detta anche “oscura”).

Pertanto in questo Trigramma c’è il concetto del legame con la materia (il Fuoco è chiamato anche “Aderente”, qualcosa che deve aderire alla materia, se no si disperde come lingua di fuoco), ma nello stesso tempo quell’energia oscura che può essere tradotta nell’energia repulsiva (ogni cosa contiene il proprio opposto speculare!), che a livello delle galassie spiega il cosiddetto “red shift” (si noti la sincronicità: il colore del Trigramma Fuoco è il rosso!), a livello umano spiega il tenere a distanza ciò che ci danneggerebbe, quindi una forza repulsiva “psichica”, e a livello cellulare è quel calore tossico di produzione metabolica che distruggerebbe la cellula.

Acqua

È il principio yin relativo, e rappresenta la tendenza verso la presentazione materiale, discreta delle particelle: è la particella che si comporta come corpuscolo di materia. È un principio relativo perché comprende anche la “materia oscura”, che ancora non sappiamo cosa sia esattamente, ma che può corrispondere alla linea intera centrale del Trigramma, in quanto dotata di energia (gravitazionale) impressionante: senza questa materia oscura non ci sarebbe abbastanza forza gravitazionale per tenere insieme le galassie, e l’universo avrebbe un’altra forma, ammesso che potesse esistere.

Ma la linea centrale potrebbe nascondere un’altra energia di importanza enorme: l’Acqua, elemento molto yin, nasconderebbe in sé una linea luminosa intera, e questa luce dentro l’Acqua sarebbe la Vita stessa!

Nell’Acqua primordiale, in potenza, esisteva già la vita, che è emersa e si è evoluta dalla materia e dall’Acqua secondo la legge di “qualità emergente”, che consente a una somma di elementi di basso profilo di generare una realtà che trascende i suoi stessi componenti: se guardiamo la nascita della vita sulla Terra, vediamo che dalla somma di acidi nucleici e reazioni chimiche basate sul calore e l’elettromagnetismo, è emersa non una nuova sostanza chimica, bensì la Vita! L’asse Fuoco-Acqua esprime il principio di trasformazione continua dello yin nello yang e viceversa, come ci insegna la fisica moderna quando descrive il passaggio di energia in materia.

Tuono

È il moto esplosivo, il Big Bang originario, ma anche ogni nuovo Big Bang che realizza una creazione continua, anche a livelli microscopici e settoriali. È il principio della liberazione produttiva di energia, con un dispendio energetico enorme, con una produzione di calore elevatissima: è anche il principio entropico di degenerazione dell’energia che, dopo aver svolto la sua funzione creatrice, si disperde sotto forma di calore.

Vento

È il moto organizzato, delicato che penetra ovunque, che ha l’armonia energetica del legno, flessibile, costruttiva, dinamica come il vento, ma radicata nel regno dell’ordine strutturante, non dissipativa come il Tuono. È il moto che, da disordinato, acquisisce un ritmo: è il principio sintropico di organizzazione armonica del movimento e dell’energia, che ad esempio crea la spirale delle galassie, ma anche quella del DNA, come pure il movimento armonico del sangue che penetra dappertutto, e l’armonico coordinarsi dei neuroni tra loro a creare il pensiero.

L’asse Tuono-Vento esprime il principio del rapporto sintropia-entropia relativo alle dinamiche della energia. Ciò che è yin è infatti strutturante-costruttivo, sintropico (Visnu), mentre ciò che è yang e destrutturante-dissipativo, entropico (Shiva).

Monte

È il contrario del Tuono, che era moto esplosivo entropico. Monte è invece struttura ferma, organizzata, condensata. Se Tuono era produzione d’energia, Monte è produzione di forma, per pro-durre la quale però è sempre necessario un dispendio energetico, e quindi, come per Tuono, si tratta di una produzione su base entropica: può essere considerato il dispendio energetico che serve a mantenere invariata la propria forma, con formazione di sempre nuove proteine che strutturano ossa, muscoli, connettivo, senza movimento apparente, almeno sul piano macroscopico.

Lago

È la serena pace del lago, che poco si muove ma molto è in grado di incubare. Come un lago evapora e produce nebbia, come un lago riflette la luce. È una fucina d’energia materializzata, che quindi ha già una forma, ma che si trasforma pian piano nel tempo: come Vento era un ritmo che dava ordine al caos di un’energia esplosiva entropica (rappresentata da Tuono), così Lago è un ritmo che dona ordine alla forma statica di una materia condensata.

È pertanto il principio sintropico della strutturazione della forma e del suo evolvere nel tempo: è la capacità che ha la forma-materia di riprodursi, di evolvere, di riparare i danni subiti, di adattarsi alle forze circostanti, e così via. È la flessibilità camaleontica dell’adattamento all’ambiente, al periodo, agli impulsi materiali. L’asse Lago-Monte esprime il principio del rapporto sintropia-entropia relativo alle dinamiche della materia (omeostasi, regolazione adattativa, compensazioni strutturali come l’ipertrofia cardiaca da ipertensione).

Si noti che gli aspetti sintropici-creativi-ordinatori sono tutti nella zona yang (trigrammi KIAN, DUI, SUN), mentre quelli entropici-destrutturanti-dissipativi sono tutti nella zona yin (trigrammi JEN, KUN, GEN), e quelli neutri (trigrammi LI e KAN) sono nella zona intermedia.

Fin qui lo Schema 1, adesso vediamo lo Schema 2, caratterizzato dalla presenza del trigramma Fuoco nella sede del massimo yang, contrapposto al trigramma Acqua nella sede del massimo yin. È indicativo delle leggi variabili dell’Universo.

Fuoco

Il massimo yang nello Schema 1 era KIAN, il principio della luce, il fotone, che in quanto tale presenta caratteristiche immutabili per velocità, assenza di massa, immortalità. Si tratta però dell’idea di fotone, in senso platonico, il fotone ideale, non ancora attualizzato e contestualizzato nella realtà concreta: è il concetto, l’idea di Luce.

Ma nello Schema 2 al massimo yang vi è LI-Fuoco, che è sì luce, ma ora stesso fotone è attualizzato nella realtà contingente del momento, è contestualizzato in un ambiente, tanto che se viene fatto passare in un materiale semitrasparente, rallenta; oppure può trasformarsi in un altro fotone con energia diversa, o in un’altra particella ancora

Più in generale, può rappresentare la luce-calore di una stella, che col tempo si comporta sempre in modo creatore, in quanto decade in elementi pesanti come il ferro e altri, che realizzeranno la materia, fino alla materia vivente.

Il Trigramma testimonia queste caratteristiche “relative” della luce attualizzata nella realtà creata: infatti, delle tre linee yang dello Schema 1, qui ne ritroviamo solo due, in quanto la linea interna è spezzata, yin: e questo yin sta a indicare proprio una forma di “limitazione”, di “relativizzazione” dello yang massimale.

Questa limitazione può essere la velocità della luce stessa, che ha un valore non superabile, fisso. Ma, attenzione, può essere anche il segno che alla velocità della luce il grande Yin creato, lo spazio-tempo, si deforma! Il tempo rallenta, e lo spazio si curva sempre più! Invece nello schema 1 il massimo yang non conosce tempo né spazio, né velocità (che poi è spazio fratto tempo), e quindi lo schema 1, nel suo Trigramma apicale, esprime la non-località e la atemporalità.

Gli schemi dell’I-King ci spiegano ciò che Einstein ha scoperto un secolo fa, ossia che se si superasse la velocità della luce, si andrebbe a ritroso nel tempo: consideriamo infatti, nello schema 2, il massimo yang, che è il fuoco apicale, che rappresenta la luce e la sua velocità; per aver qualcosa più veloce della luce, dovremmo trovare un trigramma più yang, e più yang di un trigramma con due linee intere e una spezzata è solo quello formato da tre linee intere: MA!…

Ma questo trigramma, nello schema 2, è in posizione molto yin, perché si trova a Nord-Ovest, quindi pur essendo yang come struttura, è yin come posizione: ne consegue che nello schema 2 non esiste un trigramma più yang (come struttura e come posizione) del trigramma Fuoco.

Per trovare il trigramma Cielo (tre linee yang) in posizione apicale (max yang), dobbiamo retrocedere allo schema 1, quello del Cielo Anteriore, che però appartiene a una dimensione appunto anteriore, precedente, atemporale: questo dimostra che per avere uno yang più yang della luce si deve retrocedere nel tempo, e questo è impossibile in quanto lo schema 2 è una derivazione successiva rispetto allo schema 1, e poi nell’1 il tempo non esiste!

LI è luce attualizzata, ossia luce dell’intelletto, coscienza, intelligenza, shen del Cielo Posteriore. Essendo energia yang che si concretizza, corrisponde alla vitalità, e riproduce le caratteristiche ondulatorie dell’energia non particellare, configurandosi come un’onda dotata di uno zenit e di un nadir, di un massimo e di un minimo: nel vivente, questo andamento energetico ondulatorio attualizzato è ben espresso dalla Zong Qi, la cosiddetta “energia pettorale”, che sarebbe meglio chiamare “energia ondulatoria”, perché simboleggia l’onda energetica con la sua alternanza yin/yang di sistole/diastole e di inspirio/espirio. Ma il Fuoco è anche calore, non solo luce. La linea spezzata tra due intere è il concetto di “aderenza”. E per aderire, ci deve essere qualcosa di yin (la linea spezzata, appunto), che simboleggia un substrato: nel nostro caso, il fuoco metabolico per produrre energia vitale deve aderire a un substrato nutritivo.

Acqua

In posizione di yin max c’è l’Acqua,la base energetica della vita, che può essere considerata Jing del Cielo Posteriore, la forma condensata dell’organismo vivente, la base progettuale del fenotipo, la Jing Qi. La linea intera dentro a due spezzate è di fatto la potenzialità vitale dell’organismo che si svilupperà dall’embrione ancora senza forma rappresentato dalle due linee yin

Il max yang (Fuoco) incontrato nel Cielo Anteriore era il genotipo, inteso come “luce dell’informazione ereditaria”. Ora, nel Cielo Posteriore, il max yang è passato nel max yin (Acqua) generando il genotipo inteso proprio come materiale genetico tangibile (i cromosomi). E’ in questo punto che il Cielo Anteriore entra nel Cielo Posteriore, e questo è, più o meno, il momento del concepimento, in cui si è formato l’ovulo fecondato e l’abbozzo genetico primigenio si è individualizzato: è il momento, per dirla in termini quantistici, del “collasso di funzione d’onda”.

L’antropologo americano Edward Hall rivela che per gli Indiani Hopi l’elemento più importante nelle loro cerimonie è la danza, e se questa viene fatta nel modo giusto, l’intero Universo “sprofonda fino a essere contenuto in un singolo evento”. Tutto può raccogliersi in un singolo “momento eterno”, proprio come la danza dei fotoni prima, e dei gameti poi, realizza una realtà emergente a un livello quantico superiore ai suoi costituenti: la vita! La luce è ora diventata suono, il progetto è divenuto materia, il Verbo si è fatto carne: è nata la sublime armonia degli opposti luce-suono, gli sponsali tra Yin e Yang: lo Shao Yin cosmico!

Tuono

Il tuono rappresenta l’emergere della forma dinamica, quindi può essere inteso come creazione continuata nel tempo, la Yuan Qi, energia di programmazione e regolazione, vero e proprio “stimolo continuo” al funzionamento di organi e cellule e organizzazione della struttura vivente secondo le indicazioni del codice genetico dell’individuo. E’ la realizzazione del campo di forma che porterà a produrre il progetto genotipico del vivente. Si può considerare come una funzione della Yuan Qi, in quanto i genitori ci donano il Jing come “campo morfogenetico” (di cui fa parte il corredo cromosomico, ma anche tutto ciò che concorrerà a costituire la nostra forma corporea, come la predisposizione ad alimentarsi in un determinato modo, le abitudini di vita, etc).

Dice il So Wen, Cap. 66: “Nell’immensità dello spazio esiste un’energia essenziale, primitiva, che dà vita a tutti gli elementi, integrandovisi”. Quest’energia che porta di continuo luce nel buio e coscienza dal mondo indifferenziato ci fa pensare allo HUN, al pensiero intuitivo emergente dalla tenebra, al dinamismo della evoluzione verso una consapevolezza sempre maggiore, al SOGNO.

Lago

È la pace mutevole della materia che vive, che si evolve, che procede nel tempo. Ritroviamo gli aspetti energetico strutturali dell’energia trofico-nutritiva, e sul piano metafisico ritroviamo il PO, che rappresenta la conservazione dell’omeostasi, dell’equilibrio vitale della materia calata in un contesto ambientale.

Monte

È la struttura fissa, la forma condensata, quello che i cinesi chiamano XING. E’ il corpo, la materia che ci compone, ed è anche la nostra più profonda individualità, il nostro ego.

Terra

La Terra, coi suoi due trigrammi Terra (a Sud-Ovest) e Monte (a Nord-Est), è l’unico Elemento-Movimento del Cielo Posteriore che forma un asse dinamico: tutti gli altri Movimenti, infatti, sono da una parte sola: il Fuoco a Sud, l’Acqua a Nord, il Metallo a Ovest e il Legno a Est): quindi si tratta di un Movimento dinamizzante secondo un asse di rotazione, e questo asse ingloba il centro, che a sua volta è la caratteristica fondamentale della Terra.

Inglobando il centro e agendo in modo dinamizzante, la Terra conferisce centralità , ma anche massa alla materia. Nello stesso tempo, essendo un asse che circonda (nelle due dimensioni), ossia avvolge a sfera (nelle tre dimensioni reali), si comporta anche come massa energetica esterna al sistema che tiene insieme il tutto, che tiene unita la materia e ne mantiene la forma. Secondo la prima azione, ossia dare massa e centralità individuale alla materia, la Terra si comporta esattamente come il bosone di Higgs; secondo la seconda azione, quella di mantenere unita la materia avvolgendola di energia centripeta, la Terra si comporta come forza gravitazionale, in quanto mantiene la forma ordinata del sistema evitando spinte centrifughe anarchiche: questo porta a una domanda: ma allora, la gravità è legata all’azione del bosone di Higgs? In altre parole, il bosone di Higgs, in ultima analisi, non può essere considerato una forma di gravitone?

Non bisogna dimenticare il concetto di asse-perno-fulcro della Terra, che consente alla ruota di girare, come il mozzo della ruota, come il perno della giostra: questa azione permette la dinamizzazione ordinata (circolare, ossia spiraliforme, se consideriamo anche il tempo), e quindi è la concretizzazione dell’azione di energia dinamica centralizzante e strutturante del TAO.

Quindi la Terra, poiché conferisce massa si comporta da particella che crea un centro interno, mentre quando avvolge dall’esterno si comporta come onda vibratoria che si esprime con la forza di gravità, e questa Terra avvolgente, come un abbraccio cosmico, si muove a spirale e trascina tutto dentro, come il gorgo di un fiume, e nello stesso tempo, portando al centro, condensa e dà ragione di esistere alla massa. Da un punto di vista più concretizzato nel vivente, è la forma potenziale, è un trigramma di confine con lo Schema 1, è il campo morfogenetico del vivente.

Metallo

È il principio olografico dell’Universo, il principio creatore calato nell’immanenza dello spazio-tempo, per cui a ogni livello di esistenza si ritrova l’impostazione del livello più grande (o più piccolo), così come una porzione più piccola di un vivente rappresenta un frattale della forma più grande: si pensi p.es. al mitocondrio, vero e proprio polmone della cellula, al polmone di un uomo e al polmone della terra, che è il nucleo ferroso liquido del centro del pianeta, che con la sua difesa dal vento solare garantisce la stabilità dell’atmosfera, che serve appunto per respirare.

Vento

È dinamismo armonico, ed avendo come opposto polare Cielo, questo trigramma rappresenta l’adeguamento alle leggi celesti dell’Intelligenza Universale, adeguamento che trova la sua simbologia più archetipica nella legge della Sincronicità, vera e propria “musica cosmica” che orchestra i movimenti di tutto ciò che esiste: è la mutevolezza gentile ma decisa del vento della evolutività, della capacità di adattarsi, di cambiare, di aderire alla realtà cangiante del Creato. Il passaggio dal max yin al max yang, ossia il Legno, nel Cielo Posteriore si configura come un progetto (il Legno è un generale che prepara i piani di battaglia) che va attualizzandosi attraverso uno sviluppo progressivo, architetturale e diversificante. Questo corrisponde alla diversificazione strutturante delle cellule staminali, che ancora una volta ci fanno collegare l’energia del Legno all’energia Yuan nella sua funzione di interprete e messaggera del programma genetico originario

Ma il Legno-Vento è anche armonia del vivere, oltre che armonia dello sviluppo, e si ricollega all’altra fondamentale funzione della energia Yuan di regolazione della vita, nella realizzazione di una armonia che è ritmo yin/yang in perpetuo movimento, dalle oscillazioni degli atomi dentro una molecola ai lunghi periodismi dei picchi ormonali, fino a periodismi ancora più lunghi, ma nella loro essenza sempre uguali, come il periodismo mestruale.

I Trigrammi dello Schema 2, principi archetipici delle leggi dello sch. 1, si calano poi nella realtà vivente tramite la c.d. “penta-coordinazione”, che realizza i 5 Movimenti, dove Fuoco e Acqua sono a Sud e Nord (yang, Cuore, yin, Rene), mentre Lago e Cielo a Ovest sono il Metallo (Polmone); Tuono e Vento, a Est, rappresentano il Legno (Fegato), e Monte e Terra, con funzione centrale di fulcro di rotazione, realizzano l’asse SO/NE, ma nella pratica clinica si considera solo la zona di SO, ossia la Terra (MP-ST).

Conclusioni

“IMMAGINE DI SHIVA DANZANTE

La materia, la vita, il pensiero non sono che relazioni energetiche,

ritmo, movimento e attrazione reciproca:

E’ solo luce!

Il principio che dà origine ai mondi, alle varie forme dell’essere

Può dunque essere concepito come un principio armonico e ritmico

Simboleggiato dal ritmo dei tamburi, dai movimenti della danza.

In quanto principio creatore,

Shiva non proferisce il mondo.

LO DANZA”

(Alain Daniélou)

Bibliografia

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– Alain Daniélou, Shiva e Dioniso, Astrolabio, Roma, 1980

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– Yogananda P: Autobiography of a Yogi, Trad. It.: Autobiografia di uno Yogi. Astrolabio, Roma, 1971

 




La Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese, la principale testata italiana di MTC 1985-2008

Lucio Sotte*

Summary

Italian Journal of TCM was founded in 1985 and is Italian edition of Journal of TCM edited in Beijing.

Riassunto

La Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese viene edita dal 1985 ed è l’edizione italiana del Journal of Traditional Chinese Medicine edito a Pechino.

Gli Anni ’80: gli inizi dell’agopuntura

La Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese viene fondata nel 1985 a Forlì come organo scientifico della Scuola Italiana di Medicina Cinese del “Gruppo di Studio Società e Salute” che – dopo essere aver iniziato la sua attività a Milano alla fine degli Anni ’70 organizzando i primi Corsi di Agopuntura presso l’Istituto di Farmacologia della Facoltà di Medicina – si trasferisce nei primi anni ’80 a Bologna dove continua i suoi Corsi presso il Policlinico S.Orsola.

Il primo direttore della Rivista è il dott. Giorgio Di Concetto coadiuvato nel suo lavoro dal Comitato di Redazione composto dai dottori Lucio Sotte, Lucio Pippa, Emilio Minelli, Massimo Muccioli, Camillo Schiantarelli, Renato Crepaldi, Ettore De Giacomo, Lorenzo Adami, Riccardo Grazzini, Oddone De Lorenzi e Francesco Pastore.

Negli Anni ’70/’80 l’agopuntura italiana è agli inizi della sua introduzione e diffusione ed è debitrice di quella francese che si è sviluppata maggiormente e più velocemente approfittando degli stretti contatti che la Francia ha nei decenni precedenti sia con la Cina che, e soprattutto, con i paesi dell’Indocina come il Vietnam (che era una colonia francese) dove la medicina cinese è assai utilizzata e diffusa.

La Scuola Italiana di Medicina Cinese intrattiene stretti rapporti con il mondo dell’agopuntura francese, in particolare con il Centro di Documentazione dell’Agopuntura Tradizionale di Marsiglia diretto dal dott. Nguyen Van Nghi, il medico vietnamita, naturalizzato francese, che è senza ombra di dubbio il personaggio più significativo per la prima diffusione dell’agopuntura in Francia, in Spagna, in Italia ed in molti altri paesi europei negli Anni ’60-’70-’80 .

Il primo numero della Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese pubblicato nel 1985

È per questo motivo che, al suo esordio, la Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese è gemellata con la Revue Française de Mèdecine Traditionelle Chinoise edita a Marsiglia come organo scientifico del Centro di Documentazione dell’Agopuntura Tradizionale.

Un fascicolo della Revue Française de Mèdecine Traditionelle Chinoise gemellata con la rivista

 Per lo stesso motivo, per tutti gli Anni ’80 la rivista continua ad essere l’edizione italiana della rivista francese: ovviamente vengono pubblicati anche articoli che sono il frutto del lavoro condotto in Italia dai medici del comitato di redazione e dagli allievi dei Corsi di Agopuntura della Scuola Italiana di Medicina Cinese di Bologna e di altre Scuole italiane che nel frattempo si sviluppano al Nord, al Centro ed al Sud del nostro paese.

Un fascicolo della Rivista del 1989 dedicato alle Cefalee in Medicina Tradizionale Cinese

 Questo è il periodo in cui la rivista, nonostante si fregi del titolo di “Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese” si interessa prevalentemente di agopuntura dedicando poco spazio alle altre metodiche terapeutiche.

Il testo sul Massaggio Cinese opera di Lucio Sotte e Fu Bao Tian pubblicato nel 1988

 Questo fatto accade per il concatenarsi di vari motivi: a differenza delle altre metodiche di terapia della medicina cinese la conoscenza dell’agopuntura era stata introdotta già in precedenza, fin dal ‘700, in Italia ed Europa ed era dunque già nota al mondo medico occidentale nonostante non fosse affatto diffusa. Molti medici ritenevano che la medicina cinese consistesse nella sola agopuntura e non possedesse altre metodiche di terapia. I contatti con la Cina erano assai scarsi negli Anni ’70 anche a causa del fatto che la Rivoluzione Culturale era terminata da poco tempo ed il paese si stava appena riprendendo dal lungo periodo di violenze, incertezze ed interruzione delle attività didattiche e cliniche di molti centri e delle stesse Università di Medicina Tradizionale Cinese.

Gradualmente la rivista, proseguendo le sue pubblicazioni bimestrali negli Anni’80, inizia a dedicare una certa attenzione all’affronto di argomenti monografici attraverso l’edizione di alcuni numeri speciali in cui inizia a comparire un certo interesse anche per le metodiche di terapia cinesi diverse dall’agopuntura: vanno ricordati a questo proposito tre opere: un volume sul Massaggio Cinese nel 1988, un numero monografico intitolato Le cefalee ed il loro affronto con agopuntura, massaggio e farmacologia edito nel 1989 ed un altro numero monografico dedicato al Massaggio Pediatrico Cinese pubblicato nel 1998.

Nel frattempo, tramite dei contatti iniziati a Pechino nel novembre del 1987, in occasione del Congresso Mondiale della Federazione Mondiale delle Società di Agopuntura, nel 1990 viene perfezionato un accordo con l’Accademia di Medicina Tradizionale Cinese di Pechino per editare in Italia in lingua italiana il Journal of Traditional Chinese Medicine, l’organo ufficiale in lingua inglese dell’Accademia stessa. Questo accordo è l’occasione per un grande salto di qualità che mette i lettori della rivista in contatto con la pratica clinica, la ricerca clinico-sperimentale e la didattica di medicina cinese praticate in Cina.

 

Gli Anni ’90: la scoperta della medicina cinese

L’inizio degli Anni ’90 è caratterizzato dallo spostamento della direzione, redazione ed edizione della rivista da Forlì a Civitanova Marche quando il dott. Lucio Sotte assume la responsabilità della direzione stessa e dalla messa a punto del rapporto con l’Accademia di Medicina Tradizionale Cinese di Pechino. Tale rapporto viene ufficializzato attraverso la firma siglata a Pechino il 10 gennaio del 1991 di un Memorandum di intesa tra la Scuola Italiana di Medicina Cinese di Bologna rappresentata dal dott. Sotte e l’Accademia di Medicina Tradizionale Cinese di Pechino. Alla visita a Pechino fa seguito la visita del dott. Wei Yuan Ping, direttore dell’edizione inglese del Journal, in Italia l’anno successivo; parteciperà al Congresso annuale della Scuola che si tiene presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Bologna ed all’inaugurazione del nuovo anno accademico presso l’Ospedale Maggiore di Bologna.

Il rapporto con la Cina è l’occasione per la messa a punto di una nuova strategia della rivista che, in armonia con i nuovi interessi della Scuola, inizia a pubblicare articoli che riguardano non soltanto l’agopuntura, ma si allargano anche alle altre tecniche di terapia della medicina cinese come il massaggio e la fisiochinesiterapia, la farmacologia cinese e la dietetica. Negli stessi anni infatti la Scuola Italiana di Medicina Cinese di Bologna inizia ad organizzare i primi corsi di Massaggio Cinese (Istituto Rizzoli, 1988) e di Farmacologia Cinese (Policlinico S. Orsola 1989) curati da tre insegnanti della Scuola: Lucio Sotte e Lucio Pippa e Massimo Muccioli.

Un altro interessante versante dei lavori dei primi Anni ’90 riguarda i contatti con altre riviste straniere, in particolare con il Journal of Chinese Medicine edito in Inghilterra e diretto da Peter Deadman, la Revue Française d’Acupunture in Francia, il Pacific Journal of Oriental Medicine diretto da Harley Gale in Australia, il Dutch Folia Sinotherapeutica diretto in Olanda da Luc Vangermeersch.

Contestualmente vengono presi dei contatti internazionali con famosi personaggi del mondo

della medicina cinese praticata in Occidente come Giovanni Maciocia in Inghilterra, Ted Kaptchuck negli Stati Uniti, Paul Unschuld in Germania, che vengono accolti come membri del Comitato di Redazione e partecipano al lavoro della rivista con il loro significativo contributo attraverso la pubblicazione di una serie di articoli. Continuano e si espandono anche in contatti avviati in Cina dopo la firma siglata a Canton nel 1991 con l’Università di Medicina Tradizionale Cinese di Canton per l’insegnamento della farmacologia cinese in Italia.

Interessanti sono anche gli scambi con la rivista di Pechino che fanno si che nel 1992 compaia sul Journal of Traditional Chinese Medicine un articolo scritto in Italia sul “Trattamento delle cefalee in agopuntura e medicina tradizionale cinese” presso le ASL di Faenza e Civitanova Marche.

Un’ulteriore iniziativa dei primi Anni ’90 è l’attivazione dei Quaderni di Medicina Naturale della Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese: si tratta di volumi monografici su argomenti vari di medicina cinese che vengono editi allo scopo di fornire del materiale didattico per gli allievi della Scuola Italiana di Medicina Cinese ed i medici italiani interessati sulle varie discipline della medicina cinese stessa.

I primi due volumi sono opera di Giorgio Di Concetto e riguardano la “Terapia Clinica in Agopuntura e Medicina Cinese”, vengono poi editi un Quaderno dedicato all’”Agopuntura Cinese”

opera di Camillo Schiantarelli ed Ettore De Giacomo ed uno dedicato alle 150 più importanti ricette di farmacologia cinese intitolato “Ricette Cinesi” scritto da Lucio Sotte.

Seguono dei Quaderni opera di un folto gruppo di insegnanti della Scuola Italiana di Medicina Cinese dedicati alla “Diagnostica Cinese” ed alla “Semiologia Cinese” che colmano il vuoto editoriale italiano del settore.

Un volume un po’ originale viene edito nel 1995 ed è dedicato ai “Commentari sulla Cina” scritti agli inizi del 1600 da Padre Matteo Ricci, il missionario gesuita che iniziò l’evangelizzazione della Cina e diede vita al primo vero dialogo culturale Oriente-Occidente; non è un volume di medicina cinese ma è un’opera un po’ profetica che anticipa di qualche anno la nascita della Fondazione Matteo Ricci.

La seconda metà degli Anni ’90 è dedicata alla presentazione di una serie di volumi sulle ginnastiche mediche cinesi intitolati “Ginnastica Cinese 1- Qi Gong” e “Ginnastica Cinese 2 – Tai Ji Quan” curati da Lucio Sotte e Lucio Pippa per introdurre in Italia questo interessante aspetto della prevenzione e terapia della medicina cinese. Nel frattempo anche nella Scuola Italiana di Medicina Cinese venivano introdotti seminari e corsi di studio sulle ginnastiche cinesi.

Altri volumi dei Quaderni di Medicina Naturale, a cura di Massimo Muccioli, Margherita Piastrelloni e Attilio Bernini, affrontano per la prima volta l’argomento della dietetica cinese: “Dietetica Cinese 1” e “Dietetica Cinese 2”. Segue la pubblicazione di volumi degli stessi autori dedicata alla clinica ostetrico-ginecologica ed alla fisiologia e patologia dello psichismo.

L’obiettivo di tutta questa produzione scientifica è duplice: da una parte presentare per la prima volta in Italia argomenti inediti di medicina cinese, dall’altra fornire agli allievi della Scuola Italiana di Medicina Cinese degli strumenti agili e chiari attraverso i quali iniziare a studiare queste discipline.

Nel frattempo la rivista acquisisce un’ulteriore prestigiosa collaborazione con la rivista edita dall’Università di Medicina Tradizionale Cinese di Nanchino in Cina a seguito del protocollo d’intesa siglato dal dott. Sotte e dal Presidente dell’Università di Medicina Tradizionale Cinese di Nanchino prof. Xiang Ping a Nanjing nel novembre del 1996 per la collaborazione dei due enti nell’insegnamento e la diffusione in Italia del massaggio e delle ginnastiche mediche cinesi.

Nel 1998 la Scuola Italiana di Medicina Cinese del “Gruppo di Studio Società e Salute” e l’Associazione Medici Agopuntura Bolognesi danno vita a Bologna alla Fondazione Matteo Ricci: da questo momento la Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese diventa l’organo scientifico della Fondazione e continua ad essere redatta e pubblicata a Civitanova Marche. Ovviamente si arricchisce anche il comitato di redazione che aggiunge Carlo Maria Giovanardi, Umberto Mazzanti, Sotirios Sarafianos e Marco Romoli allo staff precedente composto da Annunzio Matrà, Lucio Pippa, Giorgio Di Concetto, Massimo Muccioli, Ettore De Giacomo, Camillo Schiantarelli, Carlo Fiocca.

 

Gli anni 2000: l’istituzionalizzazione

Da questo momento in poi la rivista si apre a nuovi interessi che potremmo definire “politici e sindacali”, che sono correlati alle esigenze del momento ed anche al fatto che il dott. Carlo Giovanardi viene eletto Presidente della Federazione Italiana delle Società di Agopuntura ed il dott. Lucio Sotte Tesoriere della stessa Società. È il momento in cui il mondo istituzionale inizia ad osservare con curiosità prima e con interesse sempre maggiore poi il fenomeno dell’agopuntura e della medicina cinese italiane. Il primo segnale di questo interesse delle istituzioni è un Congresso organizzato a Roma dall’Istituto Superiore di Sanità il 26 aprile del 1999 dal titolo “Efficacia degli Interventi Sanitari, Paradigmi Scientifici, Terapie Non Convenzionali e Libertà di Cura” che si svolge alla presenza dell’allora Ministro della Sanità Rosi Bindi. Il dott. Sotte è invitato a questo congresso a nome della Fondazione e della Rivista a presentare una relazione su “Agopuntura e Medicina Cinese”.

L’attività della rivista continua aprendosi alle sempre più impellenti necessità di dimostrare alla luce della Evidence Based Medicine l’efficacia e le indicazioni dell’agopuntura e delle altre metodiche di medicina cinese; a questo scopo viene aperta una rubrica apposita curata dal dott. Attilio Bernini per riportare le novità che compaiono nella letteratura internazionale a proposito di ricerca clinica e sperimentale su argomenti di medicina cinese.

Continua l’edizione dei Quaderni di Medicina Naturale con dei volumi dedicati alla ginnastiche mediche (“Il Volo della Fenice” di Lucio Sotte e Lucio Pippa), ai microsistemi in agopuntura (“I Microsistemi” di Camillo Schiantarelli), ai principi di medicina cinese (“Qi-Xue-Jinye” di Annunzio Matrà) ed alla prima traduzione italiana di un classico di medicina cinese del III secolo dopo Cristo (“Shang Han Lun” curato da Attilio Bernini).

Il 2004 è il ventennale della rivista che viene festeggiato a Civitanova Marche con un congresso al quale partecipano i personaggi più importanti dell’agopuntura e della medicina cinese italiane. Il congresso è inaugurato dall’On. Giuseppe del Barone, Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri FNOMCeO. Tutti i fascicoli della rivista del 2004 presentano in copertina un’immagine di Matteo Ricci per ricordare la sua appartenenza alla Fondazione Matteo Ricci ma anche la sua dedizione al metodo ricciano: «Esaminate ogni cosa e trattenete il valore».

Il lavoro della rivista nel nuovo millennio si indirizza anche ad un altro obiettivo: uniformare la terminologia di medicina cinese in Italia.

Nel nostro paese infatti Scuole diverse, provenienti da esperienze diverse di apprendimento dell’agopuntura e della medicina cinese, tendono ad utilizzare termini differenti per tradurre la stessa denominazione cinese. Ad esempio il termine “tan” talvolta viene tradotto con “catarro”, in altri testi con “catarri”, in altri ancora con “flegma” ed in altri con “mucosità”. Questa molteplicità di termini crea confusione e disagio negli allievi che debbono imparare la medicina cinese e scarsa possibilità di dialogo tra gli esperti della disciplina. Il “Dizionario Pratico di Agopuntura e Medicina Cinese” edito tra i Quaderni di Medicina Naturale si pone il compito di iniziare a dipanare questa complessa matassa fornendo in maniera semplice e chiara le traduzioni condivise dalle più importanti Scuole italiane: un dizionario che si può considerare anche una sorta di “bignamino” dell’agopuntura e della medicina cinese italiana.

Gli ultimi Quaderni di Medicina

Naturale sono dedicati alla presentazione della medicina cinese ai nostri pazienti (“Agopuntura e Medicina Cinese, Come, Perché, Dove” a cura degli insegnanti della Scuola Matteo Ricci 2004), alla auricolterapia (“La Terapia Auricolare in Medicina Tradizionale Cinese” di Lucio Pippa 2005), alla dietetica cinese (“ABC della Dietetica Cinese”, di Lucio Sotte, 2006).

Una grande rivoluzione avviene per la rivista nel 2006-2007: si cambia formato, si cambia veste editoriale, si cambia modalità di edizione e diffusione.

La Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese termina le sue pubblicazioni sotto la mia direzione con il numero 114 nel dicembre del 2008 in parallelo con la fine dell’esperienza della Fondazione Matteo Ricci.

Un bilancio finale

A distanza di quasi un decennio dal termine di queste pubblicazioni mi sembra utile tentare un bilancio di questa esperienza.

La Rivista è stata certamente uno strumento molto importante in primo luogo da un punto di vista didattico: ha introdotto e diffuso per la prima volta in Italia argomenti fino ad allora inediti:

  • nella seconda metà degli Anni ’80 la “teoria degli zang fu”, il tuina massaggio cinese ed i primi rudimenti di farmacologia cinese;
  • negli Anni ’90 la dietetica, la farmacologia, la ginnastica medica cinesi con i rispettivi Quaderni di Medicina Naturale;
  • alcuni Classici della medicina cinese inediti in Italia come lo Shang Han Lun;
  • agli inizi degli Anni 2000 l’omologazione del linguaggio medico cinese italiano attraverso il Dizionario di Agopuntura e Medicina Cinese.

Un altro importante ruolo svolto dalla rivista attraverso le sue collaborazioni internazionali prima con la Revue Française de Mèdecine Traditionelle Chinoise e poi, a partire dal 1990, con il Journal of Chinese Medicine di Pechino è stato quello di portare per la prima volta in Italia del materiale inedito relativo alla ricerca scientifica in agopuntura e medicina cinese.

Da ultimo le collaborazioni internazionali con le altre riviste europee come il Journal of Chinese Medicine edito in Inghilterra, la Revue Française d’Acupunture in Francia, Dutch Folia Sinotherapeutica in Olanda e di oltre oceano come il Pacific Journal of Oriental Medicine in Australia hanno permesso un dialogo scientifico che ha illuminato e maturato il mondo dell’agopuntura italiano.

 




Il qi o flusso del vento negli spazi urbani e nell’interior design in chiave feng shui

Stefano Parancola*

Il Qi è l’energia che opera a tutti i livelli:

– a livello umano è l’energia che scorre nei meridiani d’agopuntura del corpo;
- a livello agrario e paesaggistico è la forza che, se non è stagnante produce terreni fertili e rigogliosi, è l’energia che nutre un territorio;

– a livello climatico è l’energia trasportata dai venti e dalle acque.

Il vento e l’aria rappresentano il Qi. Nel nome Feng Shui (Vento e Acqua) non compare direttamente la Montagna, essa è contenuta nel termine Vento, che si muove dalle montagne verso la pianura.

Secondo la visione cinese, i territori sono stati creati dall’azione del vento e dell’acqua, ma anche il corpo umano si caratterizza con questi due elementi: il vento come flusso di energia che scorre nei meridiani di agopuntura e l’acqua che compone il corpo e le nostre cellule. Quindi il corpo umano risuona con il paesaggio circostante.

Nell’analizzare la localizzazione di un edificio, si parte sempre dalla valutazione del grado di contenimento dell’energia Qi o flusso del vento proveniente dalle varie direzioni. Ogni edificio, casa, ristorante…..dovrebbe contenere l’energia Qi, o meglio il Qi foriero di fortuna e opportunità dovrebbe scorrere in maniera lenta e sinuosa ed essere raccolto e distribuito all’interno dei vari ambienti domestici.

Nella concezione Feng shuistica il Qi si divide in: Sheng Qi o energia vitale che scorre seguendo linee sinuose, e Sha Qi o freccia segreta che segue le linee più rettilinee.

Ricordo alcuni anni fa in un lungo viaggio fatto a Bali, dove c’è una grande attenzione al rapporto tra la casa in relazione all’essere umano e dove si utilizza molto il Vastu cioè il Feng Shui indiano, i vari esperti e sciamani, molto liberi mentalmente e senza credenze limitanti o dogmi scientifici, parlare spesso di “spiriti nefasti” che seguono le linee rette e “spiriti favorevoli” che seguono le linee sinuose e armoniche. Ma tutto questo trova grande rilevanza nella natura umana, l’uomo è composto da linee armoniche e non da linee rette, noi siamo natura! Basta osservare una foglia, il suo reticolo che la compone non è rettilineo, oppure i vasi sanguigni di un essere umano, oppure ancora meglio il reticolo idrografico antico di un territorio perché quello moderno è stato reso dall’uomo tutto rettilineo. In tutto ciò sta una grande verità, che il corpo umano risuona fortemente con il paesaggio circostante se è armonico, altrimenti qualsiasi forma aggressiva è contro la natura umana.

Nell’architettura cinese un esempio è dato dal ponte a zig zag, che consente di muoversi con maggiore sicurezza e godere delle prospettive diverse che danno su rocce, punti d’acqua, vegetazione….
Il percorso a zig-zag fa guardare in più direzioni, arricchisce il visitatore, prima di arrivare all’obiettivo; mentre seguendo il percorso lineare “si guarda diritti” e non c’è nessun tipo di arricchimento.

Secondo il noto pittore viennese Friedensreich Hundertwasser definitosi il medico dell’architettura: “la linea diritta rappresenta l’unica linea non creativa. È mortale. Il nostro intelletto è stato influenzato da anni e anni di indottrinamento che ci porta a supporre con convinzione che la linea diritta è uguale al progresso, ma nel nostro subconscio suona continuamente una campana di emergenza. Quando siamo in città esposti a linee diritte, soffriamo di emicranie, non ci sentiamo bene senza conoscerne il motivo. La gente diventa violenta, senza un apparente perché. Tutte queste linee diritte stanno distruggendo completamente il nostro mondo e le nostre anime. Io trovo che questa architettura sia criminale. Rappresenta la distruzione dei nostri sogni e dei nostri legami con la natura e la bellezza”.

L’angolo dovrebbe lasciare di nuovo il posto alla curva. Bisogna eliminare anche gli spigoli consci ed inconsci della nostra personalità. Vivere per esempio in una casa molto spigolosa non può che portare le persone ad essere caratterialmente “spigolose” poiché la casa rappresenta il prolungamento del corpo e quindi ci influenza in maniera molto forte.

L’interior design secondo la visione Feng Shui, può riscoprire invece forme nuove, proporre nuovi modi di abitare, anche solo riscoprendo forme arcaiche, archetipiche, risalendo alle matrici dell’architettura, alle linee e ai volumi che l’ancestralità di antiche costruzioni porta in sé.

L’idea del cerchio, della sfera, delle linee curve che simboleggiano il grembo materno, la tranquillità, lo stare insieme trasmettono una sensazione di sicurezza: il cerchio è in natura la forma perfetta, infatti è la figura geometrica che racchiude il massimo volume con la minima superficie, la rotondità, la curva, sono forme che si ritrovano spesso nelle piante, negli animali, nell’uomo: un tronco d’albero, uno stelo, un frutto, sono linee curve quelle che descrivono una goccia d’acqua, un occhio, un orecchio, una testa umana,…..

Nell’antichità l’uomo costruiva capanne circolari, capanne a cupola, tetti a cono: oggi l’architettura e

Utilizzare qualche parete curva, gli spigoli smussati delle pareti ortogonali, le linee sinuose e dinamiche di un controsoffitto con parti sfondate circolari, con dislivelli separati da linee curve, movimentere la casa in modo interessante, attraente, creando dinamismo e raccoglimento, movimento o intimità secondo le prospettive interne che si creano, in funzione di come si dispongono gli elementi curvilinei in casa. Un soggiorno tradizionale potrà essere reso più dinamico e arricchito da un camino centrale rotondeggiante, una parete curva o più, una sistemazione circolare di sedute che diano un senso “assembleare”, di coralità, di feeling tra gli ospiti, diverso dalla solita atmosfera di poltrone e divani dove si conversa più o meno educatamente l’uno contro l’altro.

Divani e poltrone «affrontati», cioè disposti uno di fronte all’altro, favoriscono rapporti di tensione, altri tipi di sedute, disposte a semicerchio, favoriscono rapporti interpersonali più intensi ed armoniosi.

La forma curva inserita bene in qualche elemento domestico verticale e o orizzontale, crea ritmi, dinamismi, immagini e figure simboliche, purché il gioco di armonia e contrasto con l’insieme non sia stridente, né si ricorra forzatamente ad elementi kitsch. Rizzi G. in Parancola 2005.

Un arco ben proporzionato ed evidenziato, non vistoso, o meglio un’apertura o passaggio per entrare in casa o per passare dalla zona ingresso in altri ambienti, accompagnato da una parete d’acqua o acquario, architettonicamente proposta in modo coerente, costituisce elemento psicologicamente valido: l’arco sottolinea il concetto di entrare e uscire, rimanda all’archetipo di nascita (uscire dal ventre materno e affrontare il mondo, rientrare in casa e ritrovare un mondo sicuro, quasi come rientrare nel ventre materno), unitamente all’acqua, simbolo di purezza, di trasparenza, di sincerità, che ci rimanda alla memoria prenatale, alla quiete in cui nuotavamo nel liquido amniotico.

La sfera e il cerchio sono quindi simboli di raccoglimento, unità, convivialità, solidarietà, significano desiderio e possibilità di stare insieme, intorno ad un centro (o ad un focolare) che sia elemento di unione, attrazione centripeta, creando compartecipazione, comunicazione.

La forma condiziona o favorisce i comportamenti: un tavolo tondo tende ad accelerare la conoscenza di persone, anche se numerose, che sono insieme per la prima volta, un tavolo rettangolare per lo stesso numero di commensali tende a favorire conversazioni separate.

La forma rotonda, sferica, circolare, risponde all’idea di comunità, di confidenzialità, o alla necessità di raccoglimento e meditazione.

Uno dei bisogni primordiali dell’uomo è la luce un’altra forma di Qi, per orientarsi, per vedere, per conoscere e riconoscere: al buio l’uomo è disorientato, non solo fisicamente.

Alla luce può decidere dove dirigersi; altri elementi di cui ha bisogno sono l’acqua, appunto come elemento madre e foriero di tranquillità e sicurezza, e il verde naturale: testimonianza di vita, che cresce e ricresce, con cicli annuali, con nascite e rinascite, autunni e primavere: abbiamo bisogno di vedere la natura che si rigenera per acquisire sempre nuova consapevolezza nella nostra capacità di crescere, di rinnovarci, non solo fisicamente: come ricrescono i capelli, le unghie, come la pelle si riforma, le ferite si chiudono, la vita continua, così le esperienze si moltiplicano, le riflessioni e l’interiorità maturano, il tuo “fare” dimostra che esisti, le scelte esistenziali ti portano sempre a nuovi traguardi.

 

Bibliografia

Parancola S., (2005), La progettazione delle residenze bioarchitettoniche, Il Sole 24 ore Edilizia, Milano.

Parancola S., Ros P., (2006), Feng Shui della Forma, Editoriale Delfino, Milano.

Parancola S., Ros P., (2007), Feng Shui della Bussola, Editoriale Delfino, Milano.

Parancola S., Brescia P., (2010), L’armonia del colore in architettura, Editoriale Delfino, Milano.

Parancola S.,(2012), Videocorso di architettura Feng Shui, Editoriale Delfino, Milano.

 

 

 




Fitoterapia cinese, rimedi e formule classiche, costituzioni ed applicazioni cliniche

Lucio Sotte*

L’introduzione al volume afferma: «Questo testo di farmacologia clinica cinese, basato sull’approccio costituzionale ai rimedi e alle formule classiche, nasce per andare incontro alle esigenze di chi, pur con una conoscenza di base della fitoterapia cinese, ha difficoltà a utilizzarla nella propria pratica clinica.»

Il problema fondamentale di chiunque si accosti alla farmacologia cinese è proprio quello di passare dalla “teoria” alla “pratica” e di iniziare a prescrivere le formule sia sotto forma di “patent medicine” che sotto forma di “miscele di estratti secchi”.

Fino agli Anni ’90 anche in Italia si utilizzavano ancora gli antichi “decotti” che tuttavia, per la complessità e per il lungo tempo necessario per la loro preparazione, hanno rallentato un uso sempre più diffuso ed una rapida diffusione di questa formidabile antica scienza che ha tramandato fino ai nostri giorni il meglio delle conoscenze tradizionali sperimentate per centinaia e talora migliaia di anni.

Il passaggio verso l’uso degli “estratti secchi” dei rimedi medicinali o delle “patent medicine” già confezionate in compresse o capsule ha reso certamente molto più comoda la loro assunzione permettendone un utilizzo sempre più diffuso.

Anche in questo volume si parte dalle antiche conoscenze tradizionali ed infatti i testi di riferimento sono lo Shang Han Lun ed il Jin Kui Yao Lue Fang Lun scritti da Zhang Zhong Jing, il Galeno della medicina cinese, vissuto in Cina a cavallo tra il II ed il III secolo d.C. Questi due volumi, che sono giunti a noi attraverso edizioni rivisitate nel corso dei millenni, affrontano sia le patologie di origine esogena collegate all’attacco del freddo ai sei livelli energetici che quelle di origine endogena. Essi rappresentano uno degli antichi tesori della medicina cinese giunti quasi intatti a noi dopo 2000 anni di storia.

È stupefacente semplicemente il pensare che prescrivere al giorno d’oggi il decotto di cannella Gui Zhi Tang o il grande decotto per regolare il qi Da Cheng Qi Tang significhi tornare indietro di due millenni e riappropriarsi di antichissime conoscenze per curare le malattie dell’uomo del terzo millennio.

Il testo si rifà alle opere di Zhang Zhong Jing che datano quasi 2000 anni ma anche alla medicina kampo giapponese che, dopo un declino agli inizi del ‘900 coinciso con l’introduzione della medicina occidentale nel paese del sol levante, dagli Anni ’50 del secolo scorso ha ripreso vigore anche grazie alla preparazione di estratti che “offrono più facile reperibilità e modalità di somministrazione”.

Nel volume di Grazia Rotolo si introducono e descrivono le costituzioni di 25 rimedi e delle formule classiche ad essi collegate, illustrandole con figure per rendere la lettura più incisiva anche da un punto di vista grafico.

Tra i rimedi troviamo la liquerizia gan cao, il ramo di cannella gui zhi, l’efedra sinica ma huang, ma anche rimedi tonici come l’angelica dang gui, il ginseng ren shen, prodotti antinfiammatori come la Coptis huang lian o evacuanti come il rabarbaro da huang.

Di ogni rimedio si cita l’origine, la storia, la natura, il sapore e le formule più rappresentative.

Le formule classiche, nate dall’esperienza clinica del proprio tempo e sperimentate e verificate nei secoli seguenti, ancora oggi possono guidare nella pratica clinica quotidiana.

Il volume insegna un approccio pratico e rende possibile riconoscere nei pazienti i quadri clinici, associarli alla formula adatta e, anche grazie alle dettagliate applicazioni cliniche, ogni malattia occidentale può essere affrontata con prescrizioni classiche differenti.

In questa maniera si conferma l’aforisma cinese “una malattia 100 trattamenti, un trattamento 100 malattie”.

Grazia Rotolo conclude con questo volume un lungo cammino scientifico, didattico e clinico iniziato negli Anni ’80 quando, insieme a pochi altri pionieri italiani della farmacologia cinese tra i quali ho avuto il piacere di ritrovarmi, ha iniziato ad appassionarsi a questa meravigliosa materia della medicina tradizionale cinese.

Mentre ora esiste una discreta letteratura italiana che affronta questa complessa disciplina, in quel periodo non c’erano che pochi testi quasi introvabili in inglese o francese, ma soprattutto non c’erano “maestri italiani” ai quali rivolgersi per iniziare il lungo cammino di approfondimento e di pratica clinica. Il desiderio di conoscere e la passione scientifica sono stati più forti delle difficoltà da superare e così, mano a mano, la farmacologia cinese ha iniziato a farsi uno spazio nel panorama scientifico medico italiano che questo volume arricchisce e completa.




Dea Madre e Confucianesimo: femminilità conflittuale in Vietnam


Alessandra Chiricosta*

Contributo per “ Ri-conoscer-si. Scuola Estiva della Differenza”, convegno organizzato dall’Università degli Studi di Lecce e dall’Università Roma Tre presso il convento delle Benedettine di Lecce, 11-15 settembre 2006.

Approssimarsi, aprirsi alla differenza, intraprendere un dialogo autentico, nel rispetto degli inter-locutori, significa creare un tempo ed uno spazio originali. Se l’originale è, al contempo, “nuovo” e “all’origine”, lo spazio –tempo che si apre in un dialogo autentico è una dimensione creativa, in cui ci si libera di pre-giudizi e ci si mette in discussione, un atto di amore fondato sul rispetto e sulla responsabilità reciproca. Creazione che mi pone in essere, rispondendo alla chiamata di quel “tu”, di quell’Altro che da sempre mi precede. Ma perché sia autentico, un dialogo si deve attuare in un gioco di interpretazioni reciproche, di ridefinizione delle proprie categorie concettuali, del proprio orizzonte di senso. L’interpretazione dialogica è, in atto, una sorta di “semiosi illimitata”: il “testo” tessuto nel dialogo è trama e ordito di carne, di vita, di sensibilità senziente, di passioni, di logica, di accettazione e di rifiuto. È un’interpretazione destinata ad essere sempre incompleta, fatta anche di silenzi, di negazione, di incomprensioni che, purtuttavia, mantengono viva l’Alterità, come necessaria presenza all’Identità.

Nell’approssimarsi, nell’interim della comunicazione, i due inter-locutori operano una decostruzione e ricostruzione di tipo ermeneutico, destrutturando quei pre-giudizi che si pongono “a monte” del dialogo (pur essendone prerequisito) e riconfigurando il senso nel e del dialogo grazie a quel “nuovo”, a quel di “originale” che si disvela “a valle”. Il pre-giudizio con cui mi accosto all’Altro è parte integrante di me: modificarlo significa sottopormi ad un’operazione violenta e traumatica, fonte di notevoli resistenze spesso infide e occulte.

E tanto più distante da me, in termini di senso, si pone il mio interlocutore, tanto più difficile e insidioso diviene l’approssimarsi: le sue parole sono solo echi lontani, mentre chiare ed evidenti sono le immagini che qualcun altro ha iconizzato per me.Ma quanto queste cristallizzazioni, che occupano il mio ingenuo immaginario, sono frutto di un autentico dialogo, e quante sono la disperata resistenza di una persona, di un gruppo, di una cultura autisticamente chiusa in un monologo?

La storia dei rapporti con l’Oriente è emblematica in tal senso: categoria “creata”, a detta di Edward Said, dalle culture europea e statunitense per poter definire se stesse, l’Oriente è stato da sempre ricettacolo di proiezioni funzionali ad un desiderio di dominio e di contrasto con ciò che si è autodefinito Occidente.

Nell’immaginario occidentale il Viet Nam riveste il ruolo di un paese piccolo ed arretrato che è riuscito nell’immane compito di liberarsi dal giogo del colonialismo e di contrapporsi vittoriosamente ad una delle potenze egemoni della contemporaneità. Il suo nome evoca giungle insidiose irte di combattenti nascosti, arse dal Napalm, culle di civiltà dedit ea culti di divinità oscure e sanguigne. E in termini femminili ci sono state proposte immagini di esili ma indomite combattenti, nascoste sotto cappelli a cono, curve nelle risaie (ma non per questo meno temibili), o seducenti prostitute in fumosi e sudati postriboli, geishe del sud pronte a compiacere gli invasori occidentali. Ma tutto questo è solo una piccolissima parte di ciò che una cultura millenaria ha da offrire alla nostra riflessione, una parte, tra l’altro, voluta e veicolata da una propaganda colonialista prima e di guerra poi, e prodotta da un pensiero etnocentrico, chiuso in se stesso e autocelebrantesi in un monologo.

E se l’Estremo Oriente e il Sud est asiatico rappresentano quell’Alterità culturale che sfugge sempre di più alle nostre griglie concettuali, e che sempre più ci si rende prossima, ma non per questo più intelligibile, proprio ora, e qui, in un luogo in cui ci si apre alla differenza, occorre mettersi in dialogo e ripensare in termini diversi proprio quelle immagini che una categorizzazione non critica ci hanno consegnato.

Il titolo di questo intervento chiama in causa un conflitto, ma non quello che l’Occidente ha strumentalmente iconizzato: si tratta di una guerra ben più subdola e lunga che la cultura vietnamita, e ancor di più le donne che in essa si sono formate, vittime, per la nostra prospettiva, di almeno un triplice livello di pregiudizi, hanno combattuto, e tuttora affrontano, con stigmatizzazioni culturali che ne hanno offeso e limitato la libertà, così come è accaduto, e continua ad accadere, in molte altre parti del mondo. Ma, a differenza che altrove, la resistenza vietnamita ha saputo dare frutti insperati e offrire, nei limiti, un orizzonte nuovo di riflessione.

Occorre innanzi tutto, vista la scarsa attenzione che fino ad oggi gli studi italiani hanno rivolto a questo paese, delineare brevemente il panorama religioso vietnamita. Si tratta di una realtà assai complessa e ricca, frutto dell’incontro delle maggiori culture dell’Oriente, fortemente sincretica e fertile: basti pensare che le più recenti religioni ufficialmente riconosciute (Caodaismo e Hoa Hảo) sono nate nella prima metà del 1900. Si parla, dunque, di millenni di tradizione religiosa, ancora oggi tenuta in gran conto nella vita quotidiana della popolazione.

Il territorio che costituisce l’attuale Vietnam ha ospitato tre differenti civiltà: la Viet al Nord, nel bacino del Fiume Rosso, fortemente influenzata dall’Impero Cinese; la Cham al centro e la Khmer a Sud, entrambe legate all’India; nonché le oltre 50 delle popolazioni definite oggi come minoranze etniche, presenti soprattutto nelle aree di confine. L’espansione del regno dei Viet, attraverso i secoli, ha determinato l’assimilazione dei regni del Centro-Sud, che hanno mantenuto, comunque, i propri tratti peculiari. Caratteristica della cultura vietnamita è, poi, di reinserire gli stimoli provenienti da altre culture nel tessuto organico della propria, riadattando e conciliando gli elementi di dissonanza. Così, nel tempo, alle religioni autoctone, incentrate sui diversi culti delle dee madri e degli elementi naturali, nonché degli eroi culturali di ogni singolo paese o villaggio (in quello che lo studioso Đoàn Lâm definisce come un sistema aperto e democratico, in cui si assumono al rango di divinità uomini e donne, giovani e vecchi, aristocratici e plebei, creature celesti e terrestri) si sono unite prima il Buddhismo – sia di scuola Theravada, proveniente dall’India, che di scuola Mahayana, proveniente dalla Cina – poi le religioni cinesi, a seguito dei dieci secoli di colonizzazione. Queste ultime si presentavano già potenzialmente legate in un pensiero unitario (consolidato, però, solo col neo-confucianesimo nel 1200 d.C.): Daoismo, Confucianesimo e la versione sinizzata del Buddhismo costituivano tre aspetti di una realtà che voleva sempre più concepirsi come unica (“le tre scuole sono una scuola” recita un noto detto cinese, adottato anche in Vietnam). Essendo, difatti, totalmente assente il concetto di “Religione rivelata” (arriverà solo, blandamente, con i missionari Gesuiti nel 1600 prima, e troverà una reale applicazione con il colonialismo francese nel 1800), il vissuto religioso vietnamita tende più ad una forma di integrazione reciproca di differenti stimoli, a seconda dei campi di applicazione: così, nella religiosità popolare ci si rivolge a Confucio per superare degli esami, mentre si pregano Bodhisatva buddhisti o la Dea Madre per assicurarsi una prole; nelle più raffinate teorizzazione si cercherà di trovare linee conduttrici che tessano fili di dialogo e convergenza tra realtà apparentemente contrastanti.

Non potendoci soffermare su ogni aspetto di una realtà così varia, tratteremo del confronto tra le due (tre, sotto certi aspetti) religioni che più hanno influenzato la cultura vietnamita, ovvero quella della Dea Madre e il Confucianesimo.

Sotto la dicitura “Religione della Dea Madre” sono compresi una notevole quantità di differenti forme di culto, che vanno da pratiche circoscritte a piccole realtà locali a miti fondatori e culti di Stato: in ogni caso questi culti rappresentano la religione autoctona più antica del Vietnam. Il Confucianesimo viene imposto, più che importato, dalla dominazione Cinese, durata circa dieci secoli (dal 111 a.C. al 939 d.C.): i riti e i principi confuciani infatti, rappresentando l’ossatura del potere politico dell’Impero Celeste, vengono giocoforza a strutturare la realtà socio-politica e culturale dei territori invasi, che risentono di una fortissima opera di sinizzazione. La terza religione a cui si è accennato è il Buddhismo, ma solo in quanto sincretizzato con i Culti della Dea. In Vietnam il Buddhismo arriva sia propriamente dall’India, sia dalla Cina stessa, in una forma già a sua volta sincretizzata con il Daoismo e le religioni popolari cinesi. In quest’ultima forma, a Nord, si troverà a svolgere un’analoga funzione di “protezione” e, talvolta, di sistematizzazione dottrinaria nei confronti dei culti autoctoni, andando a stringere con essi un sodalizio ancora perdurante.

Ma procediamo con ordine. Molti studiosi asiatici ravvisano una forte connessione tra la base economica della civiltà vietnamita (come della maggior parte del Sudest asiatico), ovvero la risicoltura, e il culto della Madre: così la troviamo rappresentata come Madre Terra (Mu Địa) a Láng Hạ (vicino Hà Nội), Madre dell’Acqua (Mu Thoi)) e Madre del Riso nella provincia di Phú Thọ. Le sue quattro figlie, poi, Nuvola, Pioggia, Tuono e Fulmine, hanno tutt’oggi un culto particolare nella provincia di Kinh Bắc. La risicoltura nelle zone pianeggianti si basa sull’acqua e su di un clima umido: da qui la forte enfasi sui fattori climatici “acquatici”. A margine ricordiamo che nel vietnamita contemporaneo uno stesso termine, “nước” significa sia “Paese” che “acqua”, laddove le lingue indoeuropee giocano sull’anfibologia di “Terra”.

Nelle zone più montuose, in cui si sono sviluppate società di cacciatori e raccoglitori, troviamo poi culti della Madre della Foresta e della Montagna (Mu Thượng Ngàn), come custode dalle e delle forme più ferine e orrorifiche della natura. In questa forma la Madre è circondata da serpenti e tigri, che la proteggono e agiscono come sua emanazione. Al Centro troviamo poi la Madre Yana dei Cham, Dea del Mare. Benché non sia stato ancora compilato un inventario completo delle dee legate a tale culto, le studiose Đỗ Thị Hảo e Mai Thị Ngọc Chúc ne hanno registrate ben 75.

In questo contesto economico-culturale, il ruolo assolto dalla donna-madre era preponderante, così come ci attestano le espressioni con cui la si connotava: ni tướng (capo degli affari “interni”, cioè familiari) e tay hòm chìa khóa (detentrice delle chiavi). La famiglia vietnamita costituisce, sin dalle origini, il fulcro dell’organizzazione del villaggio, che, a sua volta, è il principio fondante dello Stato: un antico proverbio vietnamita recita “la legge del re cede alla regola del villaggio”. Vedremo in seguito quanto questo contrasti diametralmente con il sistema imperiale di stampo confuciano.

Per comprendere il ruolo fondante della famiglia nel sistema delle interrelazioni sociali vietnamita, basti pensare che la totalità dei modi – assai numerosi – che traducono i termini “tu” ed “io” sono utilizzati, ancora oggi, anche per identificare le relazioni parentali. Così ci si rivolge ad un uomo anziano o molto importante chiamandolo “Ông”, stesso termine che si usa per definire il “nonno”; “”, con cui si appella una signora di una cera età, e quindi degna del sommo rispetto, indica la “nonna”, e così via, lungo una linea di lignaggio che racchiude tutta la popolazione in un’ipotetica grande famiglia. Quindi la posizione sociale rivestita all’interno della famiglia vietnamita non è di certo secondaria a quella della vita “esterna”, andando, idealmente, a coincidere con essa.

Ben altra posizione era, invece, assegnata alle donne dal sistema di valori confuciano. Tralasciando qui la questione della definizione di Confucianesimo come religione o filosofia, basterà qui sottolineare il fatto che l’etica confuciana permeava il senso stesso dell’Impero Cinese: l’imperatore, come Figlio del Cielo insignito del Tian Ming, ovvero il Mandato Celeste, era il vertice, la chiave di volta di un sistema di interrelazioni basato su di un’idea di sudditanza, speculare in Cielo e in Terra. L’obbedienza dovuta all’imperatore da un Ministro era la medesima dovuta da un figlio nei confronti del padre, che si perpetuava anche dopo la morte, nel culto degli antenati. La ricognizione di questi ultimi avveniva in linea maschile, e l’intera società era regolata dal più rigido dei patriarcati. L’etica confuciana vedeva, infatti, la donna come asservita ai dettami del sancong, ovvero “le tre persone da seguire”: padre, marito, figlio. Ciò significa che , in linea di principio, la donna non possedesse un suo status in quanto tale, ma che fosse totalmente dipendente dalla linea maschile della sua famiglia di nascita prima e di acquisizione poi. Il termine cong è stato spesso interpretato dagli studiosi come una dipendenza totale, sia fisica che psicologica, che avrebbe recluso la donna in una prigione di sudditanza e sottomissione, fatta di vessazioni e “piedi fasciati”.

Anche se fortemente misogina, l’etica confuciana non sembra, storicamente, potersi ridurre a questa bruta coercizione: una più grande flessibilità, data dall’appartenenza a classi sociali diverse, ad esempio, o al luogo di provenienza, permetteva alla donna di mantenere una propria dignità.

Dorothy Ko sostiene che il sancong sottraeva alla donna un’identità legale, formale e sociale, ma non la propria personalità e dignità soggettiva. Uomini e donne venivano così a trovarsi a vivere in due sfere di azione separate, definite rispettivamente “esterna” e “interna”, indicando con ciò sia una reale dimensione fisica di gestione della propria vita – l’interno della casa, del tempio per le donne, il mondo dei rapporti sociali, dei viaggi, del commercio, della gestione statale per gli uomini – sia una prospettiva interpretativa e di priorità. Ben diverso da ciò che accadeva in Vietnam.

La teoria delle due sfere d’azione pone in essere due universi paralleli, che, però, andrebbero letti non come una categoria assoluta di una presunta immobile “cultura cinese”, ma storicamente determinati e analizzati nel loro effettivo attuarsi in determinati contesti socio, storico-culturali.

Si viene così a osservare non più un universo dicotomicamente diviso, polarizzato, bensì un terreno di interazione assai più dinamico e fluido, in cui le due sfere interagiscono non solo ad un livello pratico, ma anche nella costituzione stessa delle reciproche identità.

Non si intende, beninteso, con ciò affermare una totale libertà della donna Han, pur sempre educata a conformarsi ad un codice di valori stabilito da uomini, in cui la somma virtù è costituita dall’obbedienza e la fedeltà, dalla castità e dal decoro; a cui veniva pur sempre preclusa una carriera politica reale, non potendo sostenere gli esami di Stato, e via dicendo. Si vuole, però, affermare un ruolo attivo femminile, anche nella gestione del sistema culturale stesso, che le vedeva creare degli spazi di libertà, senza mettere in discussione le regole etico-sociali, ma reinterpretandole, a volte proprio grazie ad una sostanziale accettazione di esse, riscrivendole tramite una pratica costante, ma personale.

Vogliamo, con ciò, affermare la validità di un “Nuovo Paradigma”che interpreti la storia delle donne in Cina, contrastando con una visione, come si è detto, forse troppo riduttivistica proposta dall’ottica del movimento del Quattro Maggio e da un pensiero femminista occidentale non critico, che, in ragione di una prospettiva sostanzialmente ideologica – che non si intende in alcun modo mettere qui in discussione – tralascia un piano di osservazione critico-storico.

Non era, ad esempio, prevista per la donna un’educazione letteraria, conditio sine qua non per l’accesso alle cariche pubbliche: oltre alle nozioni che ne avrebbero fatto una moglie perfetta, non era consigliato dall’etica confuciana di istruire la donna, per non fomentare in lei presunzione ed arroganza. Ma la storia letteraria cinese smentisce, per fortuna, l’assolutezza di questi dettami, regalandoci splendide pagine di scrittura femminile. Non solo. Proprio l’abilità di alcune donne di utilizzare codici letterari, culturali ed etici di stampo maschile, pur non provocando una modificazione sostanziale di questi ultimi, introdusse però concetti e forme differenti, come, ad esempio la valorizzazione del qing (sentimento, emozione) sia come tematica letteraria, sia come forma di una letteratura maggiormente focalizzata sull’introspezione.

Si tratta, qui, comunque, di una realtà minoritaria nel contesto Han: tali “eccezioni” letterarie trovavano luogo d’essere all’interno di famiglie altolocate, o comunque talmente benestanti da poter permettere di affrontare gli alti costi di un’educazione: difficilmente una contadina avrebbe potuto coltivare talenti poetici, tantomeno essere oggetto anche di culti di Stato.

 

Cosa accade, dunque, all’indomani della conquista cinese del Vietnam, quando ordini di valori così differenti si trovano a convivere nel medesimo territorio?

In realtà troviamo subito delle sacche di resistenza molto decise, sia, come ovvio, come ribellione militare, sia come mantenimento di una propria visione sociale: la Cina era comunque una potenza colonizzatrice, e benché foriera di una cultura più raffinata e complessa, che ha indubbiamente segnato la totalità delle istituzioni e della concezione del mondo vietnamita, è stata da sempre vista come il maggior nemico, nei confronti del quale occorreva mantenere una propria specifica identità, pena l’assimilazione totale.

E non è forse casuale che tale resistenza abbia una fortissima connotazione femminile. Tra i maggiori eroi che hanno capeggiato spedizioni militari anti-cinesi nel corso dei secoli vengono annoverate ben tre donne, assurte al livello di protettrici della patria e oggetto di culti di Stato: le due sorelle Trưng, che guidarono una rivolta tra il 40 e il 42 d.C.; e Bà Triệu, che, nel 248 d.C., si mise a capo di un esercito che conduceva cavalcando un elefante, come ci mostra un’ampia iconografia. Le sue parole sono diventate quasi leggendarie: “Vorrei cavalcare la tempesta, uccidere squali nel mare aperto, cacciare gli aggressori, riconquistare il mio paese, rompere le catene della schiavitù, e non piegare mai la mia schiena ad essere la concubina di un qualsiasi uomo”.

Anche da un punto di vista politico-amministrativo le donne vietnamite continueranno a mantenere diritti inconcepibili per la visione generalmente diffusa in Estremo Oriente: benché la struttura patriarcale, presente già dal 3 secolo d.C., fosse stata ufficializzata con la promozione del Confucianesimo a dottrina di Stato sotto la dinastia Lý (10 secolo), nel codice Hồng Đức promulgato dal re Lê Thánh Tông (1422-1497) leggiamo che nessun matrimonio poteva essere stipulato senza il consenso della donna. Anche dopo il fidanzamento ufficiale, aveva il diritto di rompere la promessa matrimoniale semplicemente restituendo i doni di fidanzamento, allorché il futuro marito fosse stato infermo, o avesse commesso un crimine, o avesse dilapidato i beni della famiglia. Se l’uomo l’avesse forzata al matrimonio, sarebbe stato punito con 50 frustate. Inoltre l’uomo non avrebbe potuto divorziare se lei si fosse ammalata o se fosse rimasta inferma, o se avesse commesso un crimine non tanto grave da essere discusso in un tribunale. Mentre la moglie poteva ottenere il divorzio se il marito si fosse allontanato da casa, eccezion fatta per le missioni ufficiali, per un periodo superiore a 5 mesi, o un anno se la coppia avesse già avuto figli. La donna sposata non poteva essere condotta in schiavitù anche se i suoi genitori si fossero macchiati di gravi reati e continuava a mantenere in diritto di ricevere eredità dalla propria famiglia di origine. Ogni eredità doveva essere equamente divisa tra figli e figlie, e in assenza di figli maschi, la primogenita avrebbe ottenuto, oltre alla propria quota, anche la parte riservata al culto degli antenati, di cui diveniva responsabile.

Quest’ultimo è uno dei tratti più significativi: il principio confuciano di ricognizione degli antenati seguiva un lignaggio rigidamente patrilineare che, come abbiamo accennato, manteneva e si manteneva nell’organizzazione dello Stato. Derogare da questo presupposto significava destrutturare l’intero apparato politico e, nel contempo, cosmologico. Benché, infatti, Confucio avesse affermato di non curarsi dell’oltremondano, il culto degli antenati sanciva il principio fondante dell’essere-nel-mondo confuciano. Ogni individuo aveva infatti senso non individualmente, bensì come parte di un continuum dato dal lignaggio, che legava il passato degli antenati al futuro dei discendenti. Per questa ragione in Cina l’assenza di eredi maschi era considerata una delle calamità più gravi che potesse colpire una famiglia (a tutt’oggi, nonostante il mutato assetto politico-culturale e i provvedimenti contro tale barbaro costume, è presente nelle campagne cinesi l’uso del ”bagno” alle neonate femmine, ovvero l’uccisione tramite affogamento subito dopo il parto), e la mancanza di pietà filiale uno dei crimini più deprecati.

Il lignaggio dell’Imperatore rispecchiava, poi, direttamente quello del Cielo: gli antenati imperiali erano le divinità celesti, nonostante i cambiamenti di stirpe motivati dal concetto del Mandato Celeste.

L’attribuire alla donna il diritto di essere responsabile del culto degli antenati voleva dire assegnarle un posto nevralgico nella costruzione del senso della propria cultura e dell’intero ordine cosmico.

Tale principio assume portate ancora più grandi ed evidenti nella sistematizzazione e nella nazionalizzazione del Culto della Dea Madre, attuatisi proprio quando il confucianesimo era ormai stato assimilato in Vietnam.

Prima di allora, infatti, il Culto era molto legato alle realtà locali e, come accadeva per il Daoismo religioso in Cina, conviveva con la religione ufficiale di Stato senza mischiarsi con essa, coprendo ambiti differenti (il soprannaturale, le problematiche quotidiane, ecc) nella forma di una dialettica pubblico/privato. Ma tale separazione, per quello che si è detto, era tutt’altro che netta in Vietnam: ciò determinò l’entrata a tutto diritto dei culti femminili nella più alta delle ufficialità, creando una varietà impressionante di modalità in cui si adorava l’aspetto muliebre.

Đoàn Lâm propone queste classificazioni, di cui denuncia anche la relatività, per fornire una sommaria comprensione di tale variegato universo:

 

1)      Origine. La Dea Madre ha origini differenti

a)       Sovraumane: come lo spirito della Catena montuosa Tam Đảo, la Madre Terra, La Madre delle Acque, la Madre del Riso, la Madre delle Foreste e delle Montagne, ecc.

a) Umane:tra queste personaggi storici, come le sorelle Trưng, Ba Triệu, Ỷ Lan (11 secolo), e mitici, come Âu Cơ, Madre del popolo e dello Stato vietnamita.

b) 

2)      Appellativi. Il modo in cui ci si rivolge alle divinità ne sottolinea il ruolo e la sfera d’azione.

a)       Thánh Mu, Dea Madre, la più antica e sovrumana manifestazione della Dea.

b)       Quc Mu, Madre della Nazione o Vương Mu, Madre del Regno, titolo assegnato a mogli o figlie di re che si sono distinte per meriti particolari tali da determinarne un culto.

c)       Bà Chúa, Nobile Signora, appellativo di una divinità femminile che si è distinta per particolari azioni, sia al livello locale che nazionale.

 

Si evince subito l’importanza politica di tali figure, in cui non si relega l’autorità femminile solo ad un livello mitico, aurorale, sottratto al divenire storico e, dunque, non più attualizzabile, ma ne estende il campo d’azione fino alla contemporaneità, inserendosi come ordito in quelle fitte trame che il sistema confuciano aveva tessuto per escluderla.

Già la storia di Âu Cơ, mito fondatore dello Stato del Vietnam, pone la donna in una posizione chiave nell’istituzione della regalità, quindi dello Stato.

Si narra che un uomo di incredibile forza e astuzia, di nome Lạc Long Quân, figlio del Re Drago che vive nel Mar Cinese Meridionale (Long significa, appunto, drago), sconfisse una serie di mostri che imperversavano nel territorio del bacino del Fiume Rosso, rendendolo inabitabile. Dopo aver reso coltivabile l’area coperta da dense foreste, uccise lo Spirito Pesce, consentendo ai pescatori di riprendere la loro attività; lo Spirito Volpe, dotato di nove code; infine lo Spirito Albero. Dopo di ciò istruì gli abitanti su come sostentarsi tramite l’agricoltura, e si ritirò nel suo palazzo marino, pronto, comunque, ad intervenire in caso di necessità. Giunse, poi, dal Nord un potente re, deciso a invadere il territorio finalmente vivibile. Insieme ad un copioso esercito, il re portò con sé anche la sua amata figlia, Âu Cơ, di straordinaria bellezza e intelligenza, la cui madre era un’immortale delle Montagne. Lạc Long Quân, rispondendo al disperato appello degli invasi, giunse nell’accampamento del re in un momento in cui questi era assente, sotto le spoglie di un bellissimo uomo. Ovviamente i due giovani si innamorano immediatamente, e decidono di fuggire insieme sulle montagne. Il re, scoperto il rapimento della figlia, si getta all’inseguimento insieme all’esercito, che viene però sconfitto dagli animali che la giovane coppia scaglia contro di lui, costringendolo a tornare a Nord.

Dopo molti anni di vita insieme, Âu Cơ rimane incinta: partorisce una sacca (o una zucca, secondo altre versioni) che dopo sette giorni si apre, scoprendo 100 uova. Da queste nasceranno 100 figli, che cresceranno con rapidità. La famiglia vive felicemente, fino a quando Lạc Long Quân sente la necessità di ritornare nel suo palazzo marino.

Sebbene viva negli agi e tra gli affetti, Âu Cơ soffre per la mancanza del marito, perciò decide di richiamarlo ai suoi doveri di padre. Dopo essersi incontrati su di uno scoglio, i due decidono di proseguire per vite separate, non riuscendo nessuno dei due a fare a meno della propria dimora e comprendendo di appartenere a mondi troppo diversi. Âu Cơ richiama, però, il marito ai suoi doveri quantomeno parentali: così 50 dei figli lo seguiranno al mare, mentre altri cinquanta vivranno con lei nella terraferma. Di questi ultimi, il primogenito diverrà il primo re del Văn Lang (l’area abitata dai Viet, nel Nord dell’attuale paese), con il nome di Hùng Vương, (re Hùng): egli dividerà il territorio in quindici regioni, ciascuna controllata da un governatore. Al figlio del re spetterà il titolo di Quan Lang, ed alla figlia quello di My Nương.

 

Questa storia è stata oggetto di molte interpretazioni, fornendo un repertorio assai ricco da un punto di vista antropologico e storico-religioso: la divisione dei figli adombra i diversi costumi della popolazione costiera e di quella dell’entroterra, pronti, comunque, a soccorrersi mutuamente in caso di pericolo. Ma per quanto riguarda ciò che concerne la posizione delle donne, vi è in questo mito un qualcosa di eccedente rispetto alla solita dicotomia femminino-naturale versus maschile-culturale presente in altre civiltà (o meglio, nella rilettura parziale che certa storiografia ha dato di altre civiltà). Âu Cơ non partorisce meramente dei figli che popoleranno una terra, ma genera ed educa una stirpe di re, la prima che trasformerà il territorio vietnamita in un regno, ovvero in uno Stato. Âu Cơ, quindi, dall’alto della montagna in cui si è ritirata, mantiene sia un’autorità naturale, generatrice, ferina; sia sovrumana, in quanto Tiên, essere sovrumano benché agente sulla terra in un preciso momento storico; sia umana, come madre di re che sono divenuti tali proprio in quanto suoi discendenti. Non è marginale, infatti, che Lạc Long Quân non abbia un culto analogo a quello della sua sposa, benché anch’egli genitore dei re vietnamiti.

Si rende qui, come in molte altre storie che, purtroppo, non abbiamo tempo di narrare, come la concezione della regalità e dell’autorità vietnamita differisca radicalmente dalla patrilinearità e dall’autoritarismo maschile di stampo confuciano. Ma sarà comunque il confucianesimo a dare un’impronta decisiva allo sviluppo della politica e della cultura việt. Nell’anno mille verrà fondata, a Thăng Long, l’odierna Hà Nội, la prima Università Nazionale, impostata secondo i dettami degli studi confuciani, concepita come preparazione per gli esami Stato, il cui superamento avrebbe dischiuso le porte alla carriera mandarinale. L’elite confuciana vietnamita tenterà continuamente di ricalcare il modello cinese, ma non vi riuscirà mai completamente: il femmineo non solo si manterrà nella cultura popolare come elemento imprescindibile, ma si insinuerà nelle maglie dell’organizzazione confuciana, riuscendo ad adire a titoli e posizioni inaspettati. E se nel Buddhismo i culti femminili troveranno un prezioso alleato, sincretizzandosi nel culto, ad esempio, della Bodhisatva Quan Âm, o in quello delle Quattro figlie della Dea, che diverranno Quattro Sante buddiste, solo per citarne alcuni, col Confucianesimo si manterrà sempre questa particolare forma di conflitto, in una lunga opera di rifiuto e accettazione che condurrà fino ai nostri giorni.

La produzione di miti, leggende, storie in Vietnam è di una sconvolgente ricchezza: la vis narrativa việt si esprime da sempre in canti, teatro, spettacoli di marionette sull’acqua, fino a giungere, in tempi più recenti, alla forma romanzistica. E anche qui vediamo che quello che viene ritenuto il maggior romanzo in versi vietnamita di tutti i tempi, il Kim Vân Kiêu, scritto nella seconda metà del 1700 da Nguyên Zu, ha come protagonista una ragazza bella, virtuosa e intelligente, Kiêu, che nella sua lunga storia di sventure riflette proprio questa strana dicotomia tra etica confuciana e autorità femminile. Sarà lei, infatti, ad incarnare la perfezione della pietà filiale, fino a degradare se stessa e rinunciare al suo amore, per poi risalire la china, nella migliore delle catarsi. Ma agirà sempre in quanto protagonista, dimostrando un’ ostinatezza e forza emotiva sconosciuti a gran parte dei personaggi maschili del romanzo.

 

L’escursus finora compiuto non rappresenta che un fugace sguardo rivolto ad una cultura ricca e densa di questioni di indubbio interesse, che ha avuto lo scopo di mostrare la complessità di una lotta culturale diversa da quella intrapresa in Occidente, le cui modalità, mutatis mutandis, caratterizzano ancora oggi la situazione femminile in Vietnam.

È a tutti noto il ruolo attivo delle donne durante la guerra indocinese, la loro forte azione nella scena politica (grazie anche all’opera dell’Unione delle Donne, organismo istituito al tempo di Hồ Chí Minh e ancora attivo) che le ha portate ad avere, ai giorni nostri, una presenza di oltre il trenta per cento nel Governo. Ma sono meno note le grandi barriere culturali che ancora permangono, eredità della misoginia confuciana, e che mantengono viva questa antica conflittualità all’interno della quale si costruisce l’identità femminile in Vietnam. Innumerevoli sono i casi documentati di eroismo femminile non solo durante la guerra, ma all’indomani di essa, quando molte donne si sono trovate a ricostruire una nazione, dopo un’esperienza devastante, in cui molti uomini le volevano nuovamente relegare in una posizione ancillare, facendo accettare loro, ad esempio, una condizione di bigamia sorta durante il conflitto. La politica del Đoi Mơi (rinnovamento), l’apertura economica e la globalizzazione sta prospettando al mondo femminile vietnamita delle nuove sfide, molte delle quali, a mio avviso, si giocheranno proprio nei termini di una nuova costruzione di identità, in cui la ferma flessibilità dimostrata finora sarà sicuramente un’arma vincente.

 

 




Bioenegia e semeiologia del qigong


Nicolò Visalli*

Le molteplici pratiche del Qigong sono a tutt’oggi ancora abbastanza criptiche. Anche se è basilare il ruolo che il Qigong ha intrapreso nella genesi e nello sviluppo di milioni di praticanti in Cina e di diverse migliaia in Europa.

Il Qigong è un’arte pratica fondamentalmente esperienziale, che necessita di essere correttamente eseguita e verificata e solo nell’operare si raggiunge la vera conoscenza e il suo estremo valore. Intraprendiamo allora un tragitto che partendo dalle profonde radici del Qigong ci permetta di conoscere più approfonditamente questa antichissima disciplina.

La parola Qigong, capacità nel coltivare la forza vitale è un termine abbastanza moderno che descrive un antichissimo metodo Cinese fondato su una peculiare respirazione e su specifici movimenti utilizzati per rilassare e collegare tutto il corpo. La nozione di Qi è emersa dalla conoscenza intuitiva dei fenomeni naturali, mentre l’unione di movimento e respiro è stata ideata proprio per intervenire sul libero e armonioso flusso di Qi e sangue e così condurre ad uno stato di benessere globale del corpo, della mente e dello spirito. Il Qi è l’origine di tutto ciò che esiste dalla nascita alla morte, la vita è il risultato delle attività e delle trasformazioni del Qi.

La genesi del Qigong risale a circa il primo millennio a.C. o forse anche prima. In quell’epoca questi movimenti accompagnati dalla respirazione erano conosciuti con il nome Daoyin e facevano parte dello Yang Sheng Shu, l’arte del nutrire la vita. Ma il Qigong era conosciuto non solo come daoyin (diffusione del qi nel corpo umano), ma anche come zhochan (rimanere seduti meditando), xingqi (promuovere la libera circolazione del qi), e tuna (funzione inspiratoria ed espiratoria). Si partiva allora da una concezione puramente Sciamanica, di stabilire cioè una connessione, e una comunicazione con tutto ciò che circonda l’esistenza umana.

Essendo il Qigong l’arte che permette di raffinare e purificare l’energia, questo rappresenta uno dei pilastri basilari del Qigong originario. È la capacità quindi di comunicare con il Dao, la Via che impregna tutto l’universo. Oggi la moderna scienza come la meccanica quantistica considera l’idea che viviamo in un campo ricolmo di bio-connettività. Mentre è assai distante da questo paradigma, la separazione mente-corpo, ovvero il corpo come organismo e non come universo vitale proposta da Cartesio e dalla legge di Newton. La relazione tra il pensiero antico e la quantistica però giungono alla medesima conclusione, che siamo intimamente e in maniera intercorrelata avviluppati nel grande schema delle cose. Nel passato l’osservazione ispirata e sistematica dei ritmi e dei cicli della natura, e i movimenti e le caratteristiche innate degli animali allo stato selvatico, sono divenute la base per questo schema di rapporti universali ed evoluti che è ciò che oggi scopriamo e ammiriamo con il nome di Qigong.

Uno dei primi schemi emerso e sviluppatosi in questo primo periodo Sciamanico è stato il Wu Qin Yuan Xi, i 5 animali originari. Anche se successivamente è stato modificato dalla concezione taoista sulla visione del mondo, e in seguito codificato con un approccio più meditato dei principi e della pratica della Medicina Cinese. Ma il proposito originario di questa forma sul “risveglio” e il libero spirito primordiale non è mutato.

Altre forme classiche che si sono sviluppate direttamente, o indirettamente, da questo approccio, sono state Il Lavaggio dei Midolli (Xi Su Jing), Il Rafforzamento dei Tendini (Yi Jin Jing) e gli Otto Pezzi di Seta (Ba Duan Jin), senza tralasciare le diverse serie di esercizi Taoisti della Longevità.

Queste sequenze classiche sono state riprese dalle diverse scuole, e adattate alle esigenze specifiche proprie della scuola, ossia verso la salute e la longevità per la scuola medica, dirette alla forza e all’intenzione nel neigong della scuola marziale, o verso le aspirazioni spirituali nella scuola meditativa. Di fatto numerosi e vari sono i metodi del Qigong così come i suoi contenuti e proprio in questo ambito sono state riconosciute 5 scuole principali di derivazione filosofica (e sciamanica).

Taoista

Il Qigong taoista preconizza la calma e “Wu Wei” (non agire) come principio fondamentale; una delle preoccupazioni maggiori è di “dominare il Cuore” e di coltivare la virtù per prolungare la vita conservando l’energia vera. Insiste sul mistero della vita umana, sulla formazione del “Nei dan” (Dan interno) e la sua conservazione.

Confuciana

Insiste sulla cultura del carattere e dello spirito. Raccomanda di “temprare la volontà nell’acqua della vita quotidiana”, e di eliminare le idee negative per coltivare solo l’energia sana.

Buddista

Il Buddismo proviene dall’India e si è installato in Cina durante la dinastia Dong Han (25-220). Ha arricchito l’arte della salute cinese antica. Notoriamente, il Chan, creato dalla Bodhidharma, gioca un ruolo molto importante. La parola chiave del Qigong buddista è “Vacuità”. La sua pratica tende a rendere il Cuore puro e limpido come la sua origine. Ed ha come obiettivo di distinguere e dissipare le illusioni che sono create dallo spirito e far accedere allo stato di “felicità originaria”.

Medica

Il Qigong medico è in rapporto diretto con la teoria della MTC, di cui fa parte integrante. È basato su una giusta e minuziosa osservazione della reazione dei meridiani e degli Zang -Fu (Organi e Visceri) alle attività energetiche.

Questo approccio tiene conto nella pratica, delle funzioni dei meridiani, Jing (essenza) del Qi (energia vitale) dello Shen (spirito), dei liquidi organici, del sangue e degli Zang-Fu.

Certe metodiche particolari si sono ugualmente sviluppate per guarire delle malattie; queste divengono così delle vere applicazioni terapeutiche specifiche, che consistono prima di tutto su un principio primordiale: “L’applicazione delle tecniche secondo le sindromi”.

L’obiettivo del Qigong medico è di prevenire le malattie, di prolungare la vita e di scoprire i segreti del corpo.

Marziale

Il Qigong marziale accorda anch’esso una grande importanza all’esercizio del Qi del Dan Tian, a quello dei tendini, delle ossa e della pelle. Ha per obiettivo di rinforzare il corpo, e soprattutto la resistenza verso le aggressioni esterne (malattie o traumi); si divide in Qigong marziale interno ed esterno.

In un periodo non lontano durante la così detta Rivoluzione Culturale, il Qigong e le arti marziali erano ufficialmente bandite e nonostante la difficoltà del lungo percorso, le forme del Qigong classico rimangono ancora oggi, sostanzialmente invariate.

Quindi proprio partendo da queste prime pratiche Sciamaniche si sono sviluppate le teorie concettuali di base che formano la medicina Cinese. Dal concetto Yin-Yang, alla sua naturale estensione in quattro e successivamente cinque fasi di osservazione della trasformazione di tutte le cose, ed il concetto delle otto direzioni (Ba gua).

Bisogna ancora porre attenzione alla parola “spirituale” che non è esatto interpretare come Qigong=lavoro, né a un livello più alto di arte marziale, come abilità. Significa che, attraverso la coltivazione di una pratica “dello spirito”, si determina un naturale ampliamento e una bio-connettività della nostra vita, una vitalità innata nel Dao, il permeante assoluto e sfuggente indefinibile, sconosciuto. Nonostante in questa estensione, non si ritrovino esclusivamente concetti e pratiche mente-orientate, ma piuttosto radici strutturali (fisico) e funzionali (energetico). È questo il punto di partenza da cui lo spirito umano può piuttosto rifulgere ed emergere. Questo è “Shen ming”, lo splendore e la proiezione dell’intrinseca vita-vitalità, e questa è connessa all’ancoraggio e al sostenere la natura della nostra essenza. Ovunque il Qigong e le arti marziali mettono in risalto proprio la coltivazione di questi elementi determinanti strutturali e funzionali.

Inoltre l’influenza energetica nel Qigong classico è la stessa dell’agopuntura: posture, movimenti e concatenazioni vengono scelte in funzione della loro azione profonda sui centri energetici, sui meridiani e sugli organi.

I numerosi e diversi esercizi di Qigong inoltre hanno come funzione di armonizzare meglio chiunque svolge la pratica con i ritmi del giorno o della stagione e di regolarizzare le sue energie in funzione di disequilibri esterni o interni.

Dicevano gli antichi cinesi: “mentre ci si esercita, se la postura del corpo non è corretta, la postura, la mente e lo spirito del praticante potrebbero essere disturbati”.

L’influenza psichica con il lavoro di meditazione e di induzione alla calma comporta che l’attività cerebrale non conduca a confusione mentale, la mente è dunque “purificata, chiarificata, rinvigorita, tranquillizzata”.

Si tratta perciò inizialmente di rafforzare e approfondire le radici e in questa ottica “classica”, le pratiche spirituali sono molto meglio definite come pratiche vigorose. Infatti, quasi tutte le Scuole taoiste e quasi tutte le scuole di arti marziali tradizionali interne, sottolineano con decisione questa importanza.

Quindi lo sviluppo di questo metodo e il benessere proprio del sé è basilare così come la responsabilità per ogni soggetto che rivolge la sua attenzione alla salute, di entrare con una particolare profondità nella Medicina Cinese e nella sua manifestazione ampia e olistica.

Nel caso dell’operatore Qigong sia esso medico o altro, la consapevolezza risiede nello sviluppo e nel perfezionamento delle proprie competenze diagnostiche attraverso un aumentato senso di sensibilità energetica che spesso accompagna ogni sviluppo dell’abilità, del Qigong. Il perfezionamento della diagnosi del polso, dell’osservazione, e della conoscenza aiuta a valutare le esigenze del caso in esame e del trattamento specifico per affrontarlo.

Gli antichi Taoisti affermavano “Non è tanto ciò che pensiamo o diciamo che più determina la nostra vita, ma ciò che facciamo”.

Perciò l’operatore Qigong una volta formato, dovrà essere in grado di offrire una tecnica di Qigong prescrittiva a tutti quei soggetti che ritiene che possano beneficiarne. Infatti, ci sono una serie di quadri clinici dove il Qigong potrebbe essere un trattamento fondamentale data la sua intrinseca capacità di far muovere il Qi stagnante e il sangue, che ovviamente, ritroviamo in svariati quadri patologici. Questo, permette di educare le persone e dare loro una visione individuale, una giusta prescrizione e anche uno strumento per aiutare il recupero generale e favorire la propria consapevolezza.

Con la pratica del Qigong si impara dunque a conoscere meglio il proprio corpo e la propria “identità profonda” per entrare in rapporto con il proprio “se”. L’allenamento costante inoltre fa scaturire una potenza energetica che consente di indirizzare il Qi in ogni cellula del proprio corpo. Nelle sue varie forme il Qigong può essere praticato da qualsiasi persona, non condizionato dall’età o dallo stato di salute.

Tutto questo serve a far risaltare un approccio più ampiamente olistico che permetta una buona comprensione dei principi e delle pratiche della medicina Cinese classica. Richiede inoltre un’innata saggezza del corpo che ognuno di noi possiede, una “percezione cellulare” che spesso rimane confinata all’interno dormiente, in attesa di un possibile “risveglio”. Dobbiamo ricercare, una consapevolezza esperienziale di apertura verso l’invisibile (ma non sconosciuto), il dinamismo che pervade il tutto, che mette l’umano nell’essere e potenzia molto più di quello di cui molti ne hanno percezione.

 




Diagnostica bio-energetica in riflessologia corporea


Paolo G. Bianchi*

L’energia che ci governa

Fin dagli albori dell’umanità gli uomini si sono interessati al ricercare, definire e magari quantificare quell’energia che creava la vita, che li governava e che tracciava le sorti della loro esistenza.

Sciamani e religiosi di svariati credo religiosi si sono alternati cercando di dare risposte e pur chiamando questa energia con nomi e modalità differenti tutti concordando su un unico punto: tutti ne siamo pervasi e più questa energia compenetra e possiede le persone tanto più queste sono in salute e sono felici.

Da ciò possiamo dedurre che l’energia vitale, comunque la si voglia definire, è la fonte della salute e del benessere.

Chi controlla questa energia ha potere e lo può esercitare sugli altri: poterla gestire e ridistribuire crea sudditanza e dipendenza definendo standard sociali, caste e ruoli anche se spesso l’energia vitale allo stato puro viene confusa con quella più squisitamente materiale.

Il monoteismo ha definito l’energia vitale come un’elargizione della divinità e non come la divinità stessa proponendo alle persone, per il raggiungimento del proprio benessere o della propria salvezza una ricerca spirituale più profonda in grado di portarle alla radice, al principio di creazione di questa stessa energia.

È la ricerca spirituale che molti oggi praticano cercando di ricompattare quella separazione “corpo, mente, anima” che millenni di forme religiose hanno creato e idealizzato per poter meglio definire i ruoli tra uomo, mediatori e divinità.

È nell’antica India che si parla per la prima volta del sistema energetico umano e di energia vitale. Il termine che tutti conosciamo e che riassume questi antichi saperi è la parola “aura”.

Secondo la riflessologia olistica il corpo fisico di ogni essere umano è circondato da una “energia vibratoria” che lo pervade e che a sua volta ne trae ricarica continua.

Per convenzione l’aura, nel mondo olistico, viene suddivisa in livelli o strati e ognuno di questi a sua volta corrisponde a un grado di consapevolezza. Gli strati hanno il potere di cambiare la vita delle persone per esempio influenzando la percezione che queste possono avere del mondo, delle sue manifestazioni, della vita di tutti i giorni. Più i livelli sono alti e maggiore è l’evoluzione che la persona raggiunge.

Quando questi strati sono tra loro perfettamente in armonia e in equilibrio anche la persona lo è con se stessa e con il mondo circostante: è in ottima salute e gode di benessere psicofisico tramite una vita piena e realizzata. Al contrario, quando questi strati sono in disequilibrio si manifestano malattie e psicosomatismi che vanno ad influire negativamente anche sul mondo esterno, sulla qualità e sul tenore della vita stessa.

Secondo le scuole riflessologiche, poiché l’aura alimenta e si autoalimenta, lavorare sui punti riflessi significa rinforzare il campo bioenergetico dell’aura riequilibrandone gli assetti cosmici per raggiungere benefici sia fisici che psicologici. Per ottenere ciò il riflessologo deve compiere un lavoro di sblocco energetico individuando i punti nei quali questa energia viene trattenuta e bloccata spesso a causa di una cattiva gestione delle proprie emozioni e dei propri sentimenti.

Ma come avviene questo lavoro da parte del riflessologo e soprattutto come può effettuare una diagnosi di questi blocchi?

 

La riflessologia

La riflessologia, riconosciuta ed elencata tra le discipline bionaturali rientra nelle riflessoterapie somatotopiche. Questo significa che per il riflessologo una specifica parte del corpo rappresenta in scala tutto il corpo umano nella sua completezza.

In altre parole, intervenendo su alcuni specifici punti e in alcune parti del corpo il riflessologo è in grado di sbloccare, proprio come premendo un interruttore, le energie stagnanti su organi, visceri, ma anche strutture come per esempio quella ossea o nervosa.

Questo principio, conosciuto come “principio olografico” è una caratteristica comune a tutte le terapie non convenzionali ed è uno dei passaggi ardui da fare comprendere alle persone che si sottopongono alle sedute di riflessologia corporea.

Come è possibile che un punto su un piede, su una mano o sull’orecchio possa influenzare energeticamente un organo, un viscere o risolvere un dolore cervicale?

Il principio olografico su cui si basano le terapie non convenzionale e le discipline bionaturali ritiene che ogni singola parte del corpo contenga l’informazione del tutto: anche la più piccola cellula rappresenta l’intero organismo perché racchiude in sé le informazioni di tutta la persona. A sua volta ogni singola parte vibra costantemente influenzando quelle vicine e venendone a sua volta influenzata in un dialogo armonico di reciprocità continua.

La conseguenza di questa analisi è che il disturbo o il malessere non è circoscrivibile ad una singola parte, ma coinvolge tutto l’organismo per cui il compito del riflessologo non è di intervenire in maniera specifica sull’arto o la parte dolente (compito deputato ad altre professionalità medico-sanitarie), ma di ricercare la causa scatenante del malessere spesso riconducibile a un’emozione o un sentimento male gestito o male manifestato.

L’obiettivo del riflessologo, dunque, non è di guarire, ma di intervenire in modo da permettere alle energie di tornare a fluire con armonia in tutto l’organismo, di avviare i normali processi di autoguarigione e soprattutto di determinare un piano armonico nel quale la stimolazione di una zona riavvii quella vibrazione di cui abbiamo parlato a proposito del principio olografico tale per cui sia in grado di innescare di nuovo un solido stato di benessere generale.

Non mi soffermerò qui a parlare della storia della riflessologia in quanto ho già dedicato un mio precedente articolo all’argomento pubblicato sul n. 12, inverno 2015 sempre su Olos e Logos.

Certo è che l’interesse e lo studio sui punti riflessi sono andati via via scientificizzandosi sempre più e stabilendo, in certi casi e in certe scuole, dei veri e propri protocolli e mappe basati su sperimentazioni precise, raccolta di dati e soprattutto risultati ottenuti hanno permesso l’inserimento della pratica riflessologica tra le “terapie” della medicina alternativa alla stessa stregua della chiropratica, della chinesiologia, ma anche dei più noti Taiji Quan o dell’osteopatia.

In ogni caso, parlando di pratiche olistiche, non si può generalizzare; le stesse scuole riflessologiche hanno visioni differenti sia sotto il profilo tecnico e manuale che delle finalità e degli obiettivi da raggiungere. È l’esperienza che il riflessologo acquisisce sul campo a fare la grande differenza esperienza che gli permette quella sana personalizzazione che equivale al principio olistico di vedere ogni singola persona nella sua totalità e a lavorare sempre sugli aspetti “sani” del proprio assistito e non su quelli che lo possono caratterizzare come “malato”.

 

10 linee e tante zone

 

Ho parlato di protocolli e mappe che il riflessologo è chiamato a utilizzare per dare un apporto scientifico al suo operato e non lasciare nulla al caso.

Se vogliamo riferirci alla riflessologia moderna dobbiamo parlare dell’opera del dr. William H. Fitzgerlad che agli inizi del 1900 cominciò a delineare, sulla base di antichi trattati ispirati soprattutto alla medicina tradizionale cinese, una riflessologia più moderna, orientata al mondo occidentale più pragmatico e meno spirituale di quello orientale.

Le sue sperimentazioni si basavano su un lavoro di pressione soprattutto sulle dita delle mani e dei piedi dei suoi pazienti con lo scopo di alleviare il dolore.

La sua scoperta principale è stata quella di capire che l’intensità del dolore dei suoi pazienti differiva da persona a persona nonostante la comunanza con un’unica malattia. Fece risalire questa diversità alle differenze qualitative e quantitative dei campi energetici presenti nelle persone e, nel suo metodo, “terapia Zonale” cominciò a identificare 10 linee longitudinali immaginarie, le “linee di Fitzgerald” appunto, che hanno inizio sulla testa, giungono alle mani e ai piedi e dividono il corpo anteriormente e posteriormente in 10 zone diverse da loro.

Le linee immaginarie che delimitano le diverse zone sono a loro volta collegate tra loro da un particolare flusso energetico riconducibile a una energia vitale primordiale. Ciò permette a due parti di influire una sull’altra in modo continuo. Fitzgerald tracciò 5 linee immaginarie anche su ognuno dei piedi sempre in corrispondenza a quelle corporee aggiungendo però in questo caso 3 linee orizzontali (una alla base delle dita, la seconda a metà della parte superiore del piede e una oltre la parte superiore). La delimitazione della zona era per Fitzgerlad importante per determinare il lavoro riflesso su organi, visceri, articolazioni e apparato nervoso.

La differenza tra queste linee e quelle dell’agopuntura sta nel fatto che lo scopo di Fitzgerald era suddividere il corpo e non indagare il funzionamento dei meridiani e dei punti distribuiti su di essi. Vi è poi una linea mediana verticale che attraversa tutto il corpo identificando a destra e a sinistra altre 5 zone che vengono correlate alle dita delle mani e dei piedi.

Differente invece fu il lavoro della terapista Eunice Ingham che spinse l’applicazione delle teorie di Fitzgerald non solo alle mani ma soprattutto ai piedi, esplorando vari punti ipoteticamente sensibili e mettendoli in relazione con le parti anatomiche del corpo. Diciamo che è con lei che nascono le rivisitazioni moderne delle mappe riflessologico-podaliche oggi utilizzate in molte sale di consultazione e proposte in molte scuole.

Riassumendo potremmo definire la disciplina riflessologica una terza via di intervento per il benessere della persona; il primo è quello tipico della medicina occidentale basato sull’indagine del sistema nervoso e il secondo quello orientale basato sul metodo cinese dei meridiani e tuttora utilizzato dagli agopuntori.

Il metodo riflessologico occidentale si basa quindi sulla percezione di queste energie sottili presenti in ogni singola parte dell’organismo in una particolare zona della pelle che è direttamente correlata a una parte vitale. L’azione digitopressoria del riflessologo, pur seguendo le terminazioni nervose e metameriche, ristabilisce gli equilibri perduti tra queste energie sottili agevolando lo stato di benessere e prevendo, molto spesso, situazioni di malessere e disagio psicofisico.

 

La diagnosi in riflessologia corporea

 

Più che di diagnosi ogni buon riflessologo parlerebbe di indagine.

Gli approcci possono essere differenti, proprio sulla base delle scuole di provenienza così come la pratica. Esistono riflessologi che preferiscono lavorare in assoluto silenzio, altri invece che prediligono il dialogo orientato sugli aspetti diagnostici, verso le emozioni o i sentimenti che ritengono abbiano bloccato il flusso bio-energetico a causa di una loro cattiva gestione.

Personalmente ritengo che nella fase di indagine gli approcci possano essere fondamentalmente quattro e che debbano essere usati in modo consequenziale per la preparazione di una buona sessione.

 

1: dialogo

E’ fondamentale per capire l’evolversi dell’esperienza soprattutto quando la persona assistita stia frequentando sessioni che si prolungano nel tempo. Di solito in questi casi è la persona stessa a fare delle richieste specifiche al riflessologo. Queste possono essere di svariata natura, ma se il riflessologo ha lavorato bene non si focalizzeranno solo su aspetti fisici (dolore), ma soprattutto su aspetti più bioenergetici (stanchezza, stress, tensioni, necessità di rilassamento o di rienergizzazione).

Quando si è in prima seduta è bene capire la storia della persona, le motivazioni che la spingono a ricercare soluzioni nella riflessologia, aiutare a comprendere che la riflessologia non è una pratica medica, ma salutistica e che il parere dei professionisti della salute non va mai sottovalutato, anzi è importante per il riflessologo per poter operare bene. Ogni disturbo è legato a sentimenti ed emozioni quindi è bene comprendere quanto la persona ritenga importanti questi aspetti, come li gestisca e soprattutto come li viva nei momenti di tensione. Molto importante in questa fase è l’essere chiari, il non creare aspettative di guarigioni miracolose, ma aiutare la persona a capire che in ogni percorso è lei la vera protagonista e che per il riflessologo ogni informazione di carattere extra-medico è fondamentale per aiutare a riattivare il processo energetico.

Il dialogo che deve stabilirsi tra il riflessologo e il suo assistito deve avere un tenore molto confidenziale, legato chiaramente alla privacy e soprattutto molto differente dal dialogo medico-paziente dove c’è una maggiore necessità di rispondere a esigenze di causa–effetto.

Il dialogo si presenta come una straordinaria occasione per delineare una visione olistica del proprio assistito, in modo da rispondere alle sue esigenze nella forma più adatta e stabilire una modalità operativa pratica e consequenziale per le sessioni successive, una relazione nella quale non c’è chi cura e chi guarisce, ma un operatore che altro non è che un tramite attraverso cui la persona che si sottopone a riflessologia, può giungere spontaneamente allo stato di benessere desiderato. Questa tecnica detta “metamorfica” è la stessa praticata dagli agopuntori dove si insegna che l’ago è solo un’antenna ricettiva e che la volontà di azione del medico agopuntore richiama le energie adatte ad avviare la guarigione. Per il riflessologo non è molto diverso, se non che non utilizza aghi e che non si occupa della parte malata, ma proprio attraverso il dialogo inziale presuppone quello stato energetico cosmico capace poi di convogliarsi attraverso il punto toccato verso l’obiettivo da raggiungere.

La parola è quindi fondamentale e si presenta come lo strumento guida per tessere dialogo e diventare strategia operativa, per stabilire fiducia reciproca e soprattutto per diventare strumento pedagogico per il rinnovamento di stili di vita e relativi approcci, rendendoli già di per sé più funzionali equilibrati e allineati alle aspettative.

 

2: approccio sensoriale

Capita spesso, soprattutto dopo diverse sessioni con la stessa persona, che il riflessologo acquisisca la capacità di individuare i punti dolenti sul corpo del proprio assistito solo appoggiandovi le mani.

Questo non fa di per se del riflessologo un veggente.

Dato che stiamo parlando di energie e di metodologie olistiche dobbiamo uscire per un momento dagli schemi tradizionali.

L’approccio sensoriale è legato alla sensibilità che l’operatore acquisisce con l’esperienza e che affina con l’arco degli anni anche tramite le difficoltà delle richieste dei suoi assistiti.

È fuori dubbio che un operatore che abbia una maggiore sensibilità, e capacità di ascolto unita all’abilità di estraniarsi dai problemi personali per concentrarsi sugli obiettivi da raggiungere, abbia maggiore successo.

Occupandoci poi di energie sottili è evidente anche il fatto che più si sta a contatto con le persone nelle sessioni riflessologiche più si acquisisca anche una ipersensibilità alle esigenze degli assistiti.

A volte, proprio a causa dello stress della vita moderna, è anche facile individuare aree corporee tipicamente legate a questo disturbo (come per esempio lo stomaco o l’intestino) oppure, allo stesso modo, è intuitivo alle tensioni come la zona renale nel caso di tensioni. Tuttavia l’aspetto sensoriale non è mai da sottovalutare.

Nel mondo delle terapie tradizionali sono molti i professionisti che hanno cercato di immedesimarsi nelle problematiche dei loro pazienti. Famosissimo era Milton Erickson: quando praticava l’ipnosi ai suoi pazienti andava lui stesso in trance con lo scopo di poter condividere in modo più nitido le loro visualizzazioni.

Ritengo che, pur operando in un ambito differente, il riflessologo debba sapersi calare nei panni dei suoi assistiti, capirne i disagi, le motivazioni e saperli condividere in modo adeguato, pur sempre mantenendo quel lucido distacco che lo rendano padrone delle tecniche, delle metodologie acquisite e abile nell’orientare alle soluzioni senza imporre le proprie visioni o idee.

Nella realtà l’approccio sensoriale è molto più semplice di quello che possa sembrare. I maestri più preparati insegnano agli allievi già durante i percorsi di formazione a sapersi estraniare dal mondo esterno, a concentrarsi sul presente, sul fatto, a non soffermarsi sulle opinioni fuorvianti e sulle condizioni limitanti, ad essere tutt’uno con la persona da trattare, ma soprattutto a divenirne tutt’uno con il cosmo.

Possono sembrare aspetti poco rilevanti, al limite delle favole, ma non dobbiamo dimenticare che, per quanto occidentalizzate, molte delle discipline bionaturali sono di origine orientale, hanno millenni di storia alle spalle, sono state spesso tramandate da maestro ad allievo.

Molte di queste pratiche, mancando di letteratura scritta, vengono corroborate di aneddoti, sensazioni ed emozioni che ogni allievo raccoglie dal maestro e che diventano parte integrante del metodo applicativo stesso.

Ho sentito maestri citare fatti ed eventi con maggior enfasi rispetto alle tecniche stesse; di certo c’è il fattore che abbiamo perso molta della nostra capacità di ascoltare, ma non sto parlando di quella semplicemente auditiva, ma di quella più profonda che ci lega uno all’altro in una catena indissolubile fatta di anima.

 

3: approccio corporeo:

È indubbio: il corpo ci parla e soprattutto non mente mai.

È importante per una buona indagine che il riflessologo sappia leggere il corpo delle persone e nei suoi segni ne sappia interpretare la sua storia.

Gli psicosomatismi presenti nel corpo di ognuno di noi sono indelebili e tracciano in noi solchi che spesso non possiamo colmare.

Così come dolori più o meno evidenti ci indicano la necessità di cambiare stile di vita, correggere la rotta attraverso, per esempio, una dieta più adeguata o delle posture più idonee o anche semplicemente cercando di migliorare le nostre relazioni extrapersonali.

Tutto il nostro corpo è come un’immensa carta geografica dove è possibile leggere i confini che abbiamo tracciato nel corso della nostra vita, le battaglie che abbiamo combattuto, vinto o perso.

Le lezioni che l’esistenza ci ha impartito sono evidenti e bastano per farci capire le motivazioni delle nostre stanchezze fisiche o morali.

A volte basta osservare i tacchi delle nostre scarpe per capire che quel mal di schiena potrebbe derivare da una postura errata, da un passo troppo pesante o dal portare il peso del corpo in modo disarmonico.

Tutti i segni evidenti che vanno letti con attenzione perché è lì che il riflessologo dovrà andare a riattivare energie ostacolate. Per questo è molto importante non solo una buona conoscenza della psicosomatica, ma anche della posturologia e della fisiologia.

Molti pensano che la riflessologia sia semplicemente una tecnica di massaggio: niente di più errato. Il trattamento riflessologico in molti paesi orientali è una vera e propria scienza medica e questo è dovuto al fatto che per gli orientali siano molto più importanti gli aspetti di benessere globale che di salute fine a se stessa.

A volte basta semplicemente analizzare il piede della persona per capire come sta camminando nella sua vita: se la sua strada è spianata e il suo passo spedito, se ha difficoltà e quindi arranca o se il suo percorso esistenziale è tutto in salita. E naturalmente non sto parlando di strada fisica, ma di quella più profonda, psichica che ognuno di noi deve fare.

Il piede viene letto dal riflessologo tenendo in considerazione svariati aspetti: forma, colore, odore, struttura, posizionamento delle dita, aspetto delle unghie, squamatura della pelle; calli duroni, cicatrici ed ematomi così come le pieghe della pelle ci parlano della vita della persona e di come questa stia affrontando i suoi problemi.

I piedi solo la parte del corpo che trascuriamo maggiormente; una delle motivazioni è che non è quasi mai in vista.

Il piede destro corrisponde alla nostra parte razionale, quello sinistro a quella emozionale-irrazionale: è per questa ragione che a volte esercitando la digitopressione sul piede destro o sinistro abbiamo, pur toccando gli stessi punti speculari, risultati differenti. Come sempre basta saper guardare con attenzione e ogni segno sarà già l’anticamera della soluzione.

 

4: approccio tecnico

Solitamente questo approccio è quello che il riflessologo esperto utilizza come conferma del quadro energetico dell’assistito che ha delineato.

La metodologia è relativamente semplice e si basa sull’effettuare una digitopressione più o meno accentuata su determinati punti: se il risultato è una fitta dolorante, la sua analisi è stata corretta e potrà procedere in modo sicuro andando a rienergizzare quel viscere,  quell’organo o quella parte muscoloscheletrica. Ciò vale soprattutto per la riflessologia dorsale dove l’analisi viene svolta direttamente sulla colonna vertebrale facendo scorrere le dita: se i segnali lanciati sono doloranti l’emozione bloccata è recente per cui leggendo qual è la zona interessata si va a trattare gli organi corrispondenti. Al contrario, se le dita si bloccano l’energia è ferma da lungo tempo e la sedimentazione ha già prodotto effetti psicosomatici più o meno evidenti che saranno molto più difficili da rienergizzare.

Molti riflessologi che conoscono anche i punti dell’agopuntura utilizzano le mappe della medicina cinese anche se la maggior parte dei maestri non lo ritiene strettamente necessario.

In ogni caso, sia le mappe antiche che quelle più moderne sono sufficientemente precise per poter effettuare un’analisi approfondita e stabilire il metodo di lavoro.

Le tecniche comunque vanno padroneggiate con estrema sicurezza in tutte le fasi di utilizzo: per ottenere buoni risultati non ci si deve affidare mai al caso. Ciò non significa che il riflessologo debba attenersi agli insegnamenti di un’unica scuola. Sotto questo aspetto ritengo che approcci integrati permettano una maggiore risoluzione delle problematiche, aumentino le competenze dell’operatore e, soprattutto, lo rendano più competente negli approcci.

È molto importante che l’operatore non standardizzi mai, ma cerchi di personalizzare il più possibile il suo trattamento, stabilisca uno schema di lavoro ben preciso per più sessioni ed effettui i dovuti correttivi al variare delle situazioni che l’assistito gli segnala di volta in volta. Molte zone devono sempre essere trattate perché sono di vitale importanza per il corretto funzionamento bioenergetico nell’organismo.

Nella fase di indagine è fondamentale che il riflessologo renda edotto il suo assistito della possibilità di trovare zone doloranti così come alla fine del trattamento si potrebbe avere una accentuazione delle problematiche per qualche ora o giorno, oppure si potrebbe manifestare un naturale senso di rilassatezza o stanchezza fisiologica.

Del resto la riflessologia è spesso proposta come metodologia antistress, utile per avviare il processo di autoguarigione contro l’ansia, l’insonnia o altre patologie ben definite. In questo caso è il medico che può prescriverla per queste specificità e sarà cura dell’operatore collaborare e mettere a disposizione tutto il suo sapere per attenersi alla prescrizione medica nell’interesse stesso dell’assistito.

 

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