Il qigong di Civitanova e la RAI

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La Rai ha dedicato alla medicine tradizionali una serie di trasmissioni intitolata “Le culture della guarigione” nell’ambito della quale alcune puntate hanno affrontato vari aspetti della medicina tradizionale cinese: i principi, l’agopuntura, la farmacologia e le ginnastiche mediche: queste ultime con due trasmissioni dedicate al qigong ed al taijiquan.

Entrambe le trasmissioni sono state realizzate con la consulenza di una serie di esperti di medicina cinese: la sinologa Giulia Boschi, la dott.ssa Hu Lihuan, il prof. Jin Hong Zhu della Facoltà di Medicina Tradizionale Cinese di Nanchino ed il dott. Lucio Sotte.

Alcune riprese di queste trasmissioni sono state effettuate a Civitanova Marche nell’ambulatorio del dott. Sotte per realizzare le interviste e nel palazzetto dello sport durante i corsi di ginnastica medica cinese organizzati dal Comune di Civitanova Marche nel lontano anno 2000.

Le trasmissioni possono essere visualizzate on line ed è assai semplice accedervi: basta cliccare su un qualsiasi motore di ricerca “Lucio Sotte rai”.

Si tratta di programmi divulgativi che sono in grado di presentare con chiarezza i principi ed i fondamenti delle ginnastiche mediche cinesi.

Inoltre si avvalgono di alcune riprese storiche realizzate in Cina da Michelangelo Antonioni per realizzare il famoso documentario proiettato per la prima volta negli Stati Uniti nel dicembre del 1972 e trasmesso dalla RAI in tre puntate tra il gennaio e il febbraio dell’anno seguente.

Nel 1972, al culmine della rivoluzione culturale maoista, il governo cinese invitò Michelangelo Antonioni a fare un documentario sulla Nuova Cina. Il regista andò otto settimane con una troupe cinematografica a Pechino, Nanchino, Shanghai e nella Provincia Hunan per realizzare le riprese di questo eccezionale documento storico sulla Cina di Mao.

 




Ampliare e smettere

Carlo Moiraghi*

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Taotejing 48. Dimenticare il sapere

Studiare è aumentare ogni giorno,

procedere lungo la via è diminuire ogni giorno.

Diminuire e diminuire e raggiungere il non agire.

Non fare e nulla non viene fatto.

L’impero si governa senza fare,

mentre con il fare non si può governare tutto sotto il cielo.

        

Ampliare l’area della coscienza.

Quando ero bambina mio nonno usava dire così.

Ampliare l’area, il centro, la periferia e farli coincidere.

Ampliarli e rimpicciolirli, farli elastici e pulsanti come le mammelle nelle labbra dei cuccioli.

Fare dei nostri occhi non la finestra sul mondo e neppure la finestra attraverso cui il mondo guarda dentro di noi.

Che c’è da guardare?

Fare dei nostri occhi il perimetro stesso ed il centro dell’orizzonte.

Noi e l’orizzonte, pupilla ed iride dell’esistente.

E guardato fuori e dentro di me, e scoperto e compreso davvero, nel corpo e nel cuore, come le impronte del passo celeste, le costellazioni e le stelle, i graffiti del cielo, siano in tutto specchio ed immagine degli umori profondi di vita che nelle gocce di brina sugli steli dell’erba nel campo segnano le fusa rotonde della madre terra nelle ore prima dell’alba, scoperto questo richiuderli gli occhi, per ora.

E richiudendoli finalmente vedere.

Vedere senza guardare.

E non cercare, non chiedersi, non pensare.

Non scrivere più.

Neppure parlare.

E dimenticare.

Dimenticare le cose, tutte le cose, che comunque sempre ne chiamano e pretendono altre e altre e altre, sempre ed ancora, in catene senza fine sempre altre cose.

E dimenticare la storia anonima, armoniosa o incerta del proprio nome.

Dimenticare numeri e nomi, azzerare la cifra.

Fare bonaccia e deserto.

Non chiedere e non rispondere.

Scordare le punteggiature, le parole, il verbo.

Vivere.

Vivere ad occhi richiusi.

Ad occhi richiusi indovinare immagini e forme.

E riconosciuto come fuggire in avanti sia le più volte ancora più penoso e triste e vano della certo più sana fuga nelle retrovie, non fuggire più.

Vivere senza fuggire.

Ne siamo capaci?

Il difficile è vivere.

Ed è il bello.

Oltre l’umiltà, l’umidità, la ricerca, la ricetta.

Oltre l’unità.

Oltre la certezza e oltre il dubbio. Oltre la riuscita.

Oltre bellezza e splendore. Oltre la mediazione e la meditazione. Oltre l’ombra.

Oltre intenzione e volontà. Oltre il caso.

Oltre la contemplazione.

Oltre lo sforzo.

Oltre il ricordo e il ritorno.

Oltre nascita e crescita e riunione. Oltre totem e sciamano.

Oltre il respirare.

Oltre il condensare, il concentrare, il cristallizzare se stessi.

Oltre la mano.

Oltremare e oltre morte.

Oltre Marte.

Oltre il mirto.

Oltre le more e il loro campo.

Oltre trasformazione e premeditazione.

Oltre la semplicità. Oltre il tabù.

Oltre il sentimento, il pentimento, il ferimento e l’annullamento di sé. Oltre la digestione.

Oltre la disperazione.

Oltre il dare.

Oltre il vento e oltre il sole.

Oltre ogni dire.

Oltre dio e oltre ogni addio.

Oltre il pensiero e il sentiero. Oltre l’eco.

Oltre padre e madre e nonno e sorella gemella.

Oltre la luna e le sue lune.

Oltre il sale e oltre il sasso. Oltre il sesso.

Oltre l’arte e oltre l’orto.

Oltre l’urto.

Oltre l’irto crinale.

Oltre l’esperienza e oltre l’urto.

Oltre il fatto. Oltre l’atto. Oltre il patto e il rapimento.

Oltre l’intelligenza e i suoi sgherri. Oltre la consapevolezza.

Oltre la senza sapevolezza. Oltre l’acuzie dolorosa.

Oltre la fluidità. Oltre l’immobilità.

Oltre l’impotenza e il toccare.

Oltre l’assenza, oltre l’assenzio.

Oltre la libertà, oltre il bisogno. Oltre il sapore e oltre il sogno.

Oltre il buio.

Oltre il matto e la sua segreta compagna. Oltre il saggio.

Oltre o prima.

Oltre e prima.

Fuori è dentro, di fronte è attraverso, già è non ancora.

Non riconoscere le differenze.

Vivere e basta.

Intirizzita di immobile brina.

Vivere e basta.

Qualunque ne sia significato e costrutto.

Vivere ciò che c’è, ciò che sono, ciò che mi attende, ciò che non mi attende.

Vivere e basta.

Vivere senza procedere.

Vivere.

Basta con le corse nel cerchio.

Che cerchio è questo fatto solo di rugiada?

Come riconoscere nella sua trasparenza la nostra immagine?

Fra cento anni di noi non si avrà voce, nome, pensiero, ricordo.

Quale soggetto pretendiamo di essere?

Quali corse, azioni, crescite, gioie, affanni, incertezze, insufficienze pretendiamo nostre?

Quale è il soggetto? Chi è?

Uno nessuno cento e mille e mille.

Chi rende un individuo me, voi, chiunque abbia respirato in passato o in futuro, chiunque abbia fatto radici e fruttificato o si sia inaridito in disparte, chiunque abbia urlato nel suo primo vagito la sua voglia di ventre, chiunque abbia provato, esperito la vita?

La vita, è la vita che vive.

Nutre chi vive e ne vive.

Svenuta in un deserto svenuto, vivevo.

Pensieri sfumati e fragili, come i soffioni nel campo d’estate, carezzavano rari le dune di sabbia gelata.

Mi sfioravano.

Pensieri come sussurri.

Ampliare l’area della coscienza.

Come ritrovare mio nonno ora?

Dove cercarlo ora che credevo di sapere?

Come comunicargli che finalmente avevo compreso?

“Dove sei nonno?”

Ampliare l’area della coscienza significa annullarla.

Perderla.

Perdere la coscienza.

Dimenticare sé stessi.

Smettere.

E divenire così altro.

Divenire l’altro da sé.

Altro se stesso.

E intanto la voce diveniva me stessa.

In me la voce del deserto e la voce del nonno e forse altre voci ancora, sembravano specchiarsi fino a coincidere.

L’impressione era che coincidessero nei fatti.

Fu allora che mi ricordai della realtà.

Forse la realtà si ricordò di me e mi raccolse.

Riaffiorai a me stessa.

“Sei tu, nonno?”

Udivo la mia voce come rimbalzare verso di me da scalinate lontane.

“Sei tu, nonno?”

Una mano ora sfiorava la mia fronte.

Mi carezzava la mente e il cervello.

Era gesto di tenerezze dimenticate, sensazione che mi riportava altrove, in un passato che forse non era esistito.

Presto il passato ritornò nell’ombra da cui proveniva.

E io riemergevo.

La mano pettinava i miei capelli.

“Sei tu, nonno?”

Nulla.

Neppure il silenzio mi rispondeva.

La cantilena presto ricominciò.

Lente due braccia mi stavano ora abbracciando.

In quel tepore di vita sconosciuta che mi cullava sempre più scivolavo tenue in me stessa.

“Sei tu, nonno?”

Vivevo.

“Chi sei?

Chi sei tu che canti?

Chi sei tu che mi abbracci? ”

Lenta la voce rispose.

Vicinissima a me.

“Non chiederti, non chiedere chi sono.

Non ho, non v’è, risposta.

Non si esiste in assoluto.

Non sempre vi è un nome.

Ciò che si è, lo si è nella vita, in questa vita intendo, in ciò che questa vita sostiene, il mondo e tutti i viventi.

Chiedi, chiediti chi sono per te.

Per te io sono il soffio, l’aiuto, il nonno, la nonna, la complice, l’alleata, l’amica.

Per te sono stata la voce del deserto.

Per te ho cantato quando le palpebre del deserto, le sabbie, si alzavano la notte e ti ricoprivano di vento e di turbini freddi.

Per te ho sussurrato i misteri.

E’ alla mia voce che il mistero ti ha voluto incontrare.

Alla mia voce tu hai saputo incontrare te stessa.

E ancora conviene che ascolti.

Conosco il tuo cuore.

Le intenzioni che avrai.

Conviene che ascolti.

Conviene che tu sappia ciò che presto andrai ad incontrare, chi hai già incontrato ma da molto tempo dimenticato.

E sappi che chi ritorna dall’abbraccio della luna ritorna perché sa.

Ritorna perché ha riconosciuto il suo intento, e lo ha scelto, e ritornando lo attua.

Ritorna per attuare sé stesso, e il suo intento riluce.

Per questo conviene che ascolti la mia voce quando canta per te”.

Poi venne ancora il silenzio. A lungo.

Tacque anche il deserto.

“Sei tu, nonno?”

Seguì un silenzio, insieme di freddo e di tepore, di nulla e di vita.

Ancora più a lungo.

 

Taotejing 20. Diverso dal comune

Smettetela con la cultura e sparirà ogni preoccupazione.

Fra un “sì” e un “oh, certo” chiarire la più lieve differenza.

Il bene non è il male, chiarire in che modo.

Temere, ma proprio solo quello che temono gli altri.

Studiare non ha mai fine e non si viene mai a capo di nulla.

La gente è sempre tutta contenta, come alla festa del sacrificio del bue,

come a primavera quando si sale sulla torre degli spiriti.

Io solo resto indifferente, non ho desiderio alcuno.

Sono come un neonato che non ha ancora nessuna espressione.

La gente possiede di tutto, io invece manco di tutto.

Io cuore d’idiota, scemo perfetto scemo.

La gente è piena di certezze, io invece incarno l’incertezza.

La gente vede lontano lontano, io sono l’unico miope,

indifferente come un mare piatto, inconsistente come un alito di vento.

Tutta la gente sa precisamente cosa vuole e lo fa,

io invece mi sento l’unico impedito, fatto e finito.

Sono ben differente dagli altri e la mia mamma ancora mi allatta.

 

Bibliografia

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Lao Tse, Il libro della Norma e della sua azione, traduzione di Rosanna Pilone, Milano 1962.

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Lao Tzu, Il libro della virtù e della via (Il Te tao ching secondo il manoscritto di Ma wang tui), a cura di Lionello Lanciotti, Milano 1981.

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Thomas Cleary. L’essenza del Tao. Milano. 1994

Chungliang Al Huang. Abbraccia la tigre, torna alla montagna. Milano 1998

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Moiraghi, Carlo. Colloqui con Lao Tzu, Armenia, Milano 1996.

 

 

 

 

 

 

 

 




Il Volo della Fenice, Manuale di Ginnastica Medica Cinese per tutte le età

Lucio Sotte*

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La Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese si è dedicata nel 1997 all’edizione di due volumi sulla ginnastica medica cinese dedicati al Qi Gong ed al Tai Ji Quan: Ginnastica Medica Cinese 1 – Qi Gong e Ginnastica Medica Cinese 2 – Tai Ji Quan.

Qual’è allora lo scopo di questo nuovo volume sul medesimo argomento?

Un obiettivo semplice e contemporaneamente ambizioso: da una parte si vuole presentare “Il Volo della Fenice” cioè il protocollo di ginnastica cinese che gli Autori hanno messo a punto per i Corsi della Scuola Matteo Ricci di Bologna e, consensualmente, avviare una riflessione sul significato del corpo e del suo movimento secondo la tradizione orientale che abbiamo incontrato in Cina ed alla luce della cultura occidentale nella quale siamo cresciuti. Desideriamo tentare di porre delle domande preliminari sulle rispettive diversità per tentare una prima integrazione delle conoscenze.

Due parole su “Il Volo della Fenice”: comprende quattro antiche serie di esercizi tratti dalla tradizione cinese classica e dagli Autori adattati al “nostro mondo”. Questo adattamento non vuole assolutamente dimenticare la tradizione né rinnegarla, ma anzi valorizzarla ed ottimizzarla alla luce delle caratteristiche, necessità e disposizioni degli utenti cui questi esercizi si rivolgono: donne ed uomini del nostro paese di qualunque età che desiderano introdursi alle ginnastiche mediche cinesi ed approfondirle.

Le sequenze degli esercizi sono inoltre il frutto dell’esperienza didattica condotta dagli Autori per anni in questo settore sia nei Corsi della Scuola Matteo Ricci come in altri ambiti sanitari e non. Cito a titolo esemplificativo i Corsi di Ginnastica Cinese per la terza età da me organizzati per il Comune di Civitanova Marche negli ultimi quattro anni: 140 anziani raccolti in palestra in primavera ed autunno in “religioso silenzio” interrotto solo dalla vocalizzazione dei “sei suoni” ad imparare e mettere a frutto “nella propria carne e sulla propria pelle” i tesori dell’antica tradizione cinese. L’entusiasmo degli allievi fin dal primo impatto con la cultura cinese mi ha subito contagiato ed ho capito che il valore degli incontri non era solo preventivo e terapeutico, ma anche sociale, umano e culturale. Attraverso questa ed altre esperienze analoghe è stata messa a punto la serie di esercizi, semplificando quelli complessi, vivacizzando quelli lenti, limando quelli più difficili.

Così, giorno dopo giorno, tra una Forma di Apertura e una Forma di Chiusura in quattro anni lo yin-yang è diventato pane di tutti i giorni per i partecipanti al corso.

La mia più bella soddifazione è stata comunque l’ingresso in campo al quarto turno di Primo, il padre novantaduenne di Claudio, pensionato sessantenne acquistato al secondo turno: è uno dei fedelissimi che non fa mai assenze, nemmeno durante le peggiori epidemie influenzali.

Così i miei allievi, inghiottendo la “rugiada celeste” hanno curato l’osteoporosi, migliorato la digestione, l’evacuazione, la respirazione, la circolazione e scambiato inviti a pranzo e cena con gli amici che non vedevano da tempo e mimando il “drago che si avvolge attorno alla colonna” hanno favorito le funzioni epatiche e integrato Oriente ed Occidente ad onta del loro istruttore che da anni ci prova in tutte le maniere senza riuscirci così appieno.

L’accordo sottoscritto tra la Fondazione Matteo Ricci e le Terme di Castrocaro per la creazione di un “percorso termale cinese” è stata un’ulteriore occasione di limatura e verifica del “Volo della Fenice”. La medicina cinese ha molto da offrire nel settore termale sia attraverso l’agopuntura e le metodiche correlate che con il massaggio, la farmacologia, la dietetica e le ginnastiche mediche: i corsi di Qi Gong organizzati presso le Terme permettono ai clienti che li hanno frequentati di tornarsene a casa con un miglior equilibrio biofisico e con un know how in più che porteranno con sé: potranno prolungare gli effetti benefici della settimana termale per tutto il tempo in cui praticheranno gli esercizi.

Veniamo ora alle domande su corpo e movimento.

La cultura occidentale si avvicina al nostro corpo immersa nella sua visione dualistica dell’uomo che partendo dalla distinzione tra psiche e soma crea all’inizio una separazione che è successivamente difficile colmare. La res extensa e la res cogitans di Cartesiana memoria sono state il primum movens di due percorsi di studio separati che sono stati realizzati contemporaneamente sullo stesso uomo senza che avvenisse tra loro un reciproco dialogo o contatto. Mentre l’anatomista, l’anatomopatologo e l’istologo prima e il biochimico, il radiologo, il genetista poi approfondivano lo studio della struttura del corpo, lo psicanalista interpretava i

movimenti della psiche.

In Occidente si è lungamente tentato di riunificare soma e psiche, ma nessuna medicina psicosomatica è stata in grado di riannodare le fila di due tessuti nati su trame così differenti e di ricollegare ciò che era stato pensato diviso al suo esordio. Anche lo studio del movimento soffre di questa distanza tra psiche e soma e si fa fatica ad immaginarlo come un fenomeno integrato anche se esso rappresenta forse una delle migliori realizzazioni ed esemplificazioni dell’unità che ci caratterizza.

A fronte di questa visione divisa dell’uomo impostasi nei nostri paesi, in Oriente l’uomo è stato da sempre osservato con uno sguardo olistico e immaginato come una condensazione di energia Qi che mentre da una parte, nei suoi aspetti più densi, dà origine allo yin e dunque anche alle strutture materiali del nostro organismo, dall’altra, nei suoi aspetti più eterei, origina lo yang e di conseguenza organizza lo psichismo.

Non esiste uno psichismo che non si ancori su una struttura materiale e tale struttura si configuracoerentemente con il mentale che la organizza, la muove ed in qualche maniera la dirige: in ultima analisi si tratta di due manifestazioni differenti dello stesso fenomeno.

Il pensiero di un movimento del corpo ed il suo contenuto emotivo ed affettivo, la sua realizzazione attraverso l’articolarsi di segmenti ossei mossi dal fenomeno della contrazione muscolare che si esercita attraverso la resistenza tendinea, il suo progetto contenuto nell’elaborazione di un messaggio nervoso che è elettrico prima, ionico poi ed infine molecolare fondato su neurotrasmettitori sono in Cina tutti elementi differenti di un “unico” fenomeno che non può essere pensato se non in maniera olistica. Anzi l’allontanamento da questa unità è il primo segno della malattia, il manifestarsi di una discontinuità è il primo segnale d’allarme di una disritmia che fa “steccare” il suono di una parte del corpo che non è più in grado di accordarsi con l’armonia del tutto.

In Cina l’esercizio di ginnastica si pone in primo luogo un fondamentale obiettivo: riprodurre e riformulare dei modelli che, mentre permettono al corpo di riacquisire la sua instintiva reattività e di ricomporsi in una unità, ne attivano singolarmente ma contestualmente le singole componenti energetiche e psichiche, materiali e meccaniche.

La “corporeità” è espressione yin del “mentale” yang e l’armonia del movimento del corpo rappresenta la manifestazione di un corretto equilibrio psichico.

In Occidente lo iato psiche-soma affida all’emisfero cerebrale sinistro la comprensione dell’organizzazione cosciente meccanica e scientifica del moto ed a quello destro la capacità di percezione estetica ed artistica dello stesso fenomeno: il ritmo, il coordinamento e la musicalità espressi nella danza sono manifestazioni artistiche organizzate dall’emisfero destro in cui la “bellezza” del gesto sembra essere disancorata dai fenomeni meccanici, elettrici, biochimici che lo producono che invece sono campo di studio e di applicazione della medicina: la scienza che studia il nostro corpo. La “bellezza” del movimento di una ballerina di danza classica sembra quasi è separata dalla “salute” che il movimento stesso esprime, essendo la bellezza un fenomeno puramente estetico e la salute l’esito del buon risultato di un bilanciamento dei nostri equilibri elettrolitici, osmotici, ionici, chimici e mentali.

Uno dei più significativi insegnamenti avuti dal mio contatto col mondo cinese è stato invece il recupero della coscienza che l’estetica del bello equivale all’omeostasi dello stato di salute e che l’acquisizione della salute stessa ed il suo mantenimento corrispondono alla valorizzazione della nostra istintiva tensione al bello.

L’esecuzione di una forma di Tai Ji Quan o di un colpo di Kung Fu è corretta quando è efficace ed è efficace se appare bella essendo la bellezza della forma espressione della perfetta armonia del movimento: il gesto diviene l’esteriorizzazione di buon equilibrio yin-yang.

La pratica corretta di un esercizio di Qi Gong corrisponde alla bellezza dei gesti con cui viene realizzato che realizza le cosiddette Tre Unioni Interne: quella del Cuore-Xin e dell’Idea-Yi, quella dell’Idea-Yi e dell’Energia-Qi ed infine quella dell’Energia-Qi e della Forza-Li. Quando si impara un qualsiasi movimento si verifica una serie di passaggi: il Cuore, principe dello psichismo, crea l’Idea del movimento (prima unione), l’Idea del movimento genera l’Energia che lo sostiene (seconda unione), l’Energia si traduce in Forza che si concretizza attraverso l’atto finale, il gesto realizzato (terza unione). Nella fase di apprendimento questi tre passaggi sono successivi e graduali ma, col tempo, la pratica e l’esercizio essi tenderanno a identificarsi in un unico fenomeno che riunisce Cuore-Idea-Energia-Forza: il gesto finale sarà dunque espressione perfettadell’integrazione psicosomatica e, proprio perché tale, dovrà risultare esteticamente bello.

In qualche maniera la scienza recupera l’arte e la comprende e l’arte si esprime attraverso il linguaggio della scienza.

Lo iato psiche-soma è l’assioma sul quale costruiamo in Occidente la nostra vicenda umana: così accade che la maggior parte delle forme in cui si esprime il lavoro dell’uomo della società postindustriale della quale siamo parte è basata su un modello “psico-cerebrale” di impegno che sembra aver dimenticato la “somato-corporeità”. Il tempo del lavoro della nostra giornata è concentrato in attività sempre più yang e mentali e sempre più disancorate dallo yin e dalla corporeità: nell’ottimizzazione di questo tempo usufruiamo di una serie di attrezzi ed utensili che ci circondano e che riproducono per noi e semplificano i gesti quotidiani dei nostri padri e dei nostri nonni. Fin dall’inizio della giornata comincia questa “dematerializzazione” dei nostri gesti che diventano sempre più mentali: al mattino, in bagno, il pennello ed il sapone da barba sono stati sostituiti dalla bomboletta di schiuma già pronta o dal rasoio elettrico, lo spazzolino manuale da quello a motore, a colazione non spremiamo più nulla ma frulliamo poi, invece di camminare entriamo nelle nostre “scatole a motore” che ci conducono all’entrata di un autobus o di una metropolitana. Scesi infine dall’ultimo sedile che abbiamo occupato entriamo in un ascensore che sale le scale per noi e raggiungiamo il nostro posto di lavoro dove ci accomodiamo su una poltrona anatomica costruita per accogliere, adattandosi perfettamente alle sue forme, un corpo “stanco di nulla”. Così continua fino a sera tra telefonate, videate, tastiere, volanti, pulsanti e pedali. Quando finalmente ritorniamo a casa disfatti mentalmente siamo costretti ad impiegare il poco tempo libero che ci resta per usare finalmente il corpo rimasto inutilizzato per tutto il giorno; allora ci vestiamo da zombi (provate ad immaginare che cosa direbbero i nostri antenati del nostro abbigliamento tekno e sportivo) e sudando come scaricatori di porto del secolo scorso consumiano quel che ci resta delle nostre energie nella palestra vicino casa in cui con gesti e movimenti spesso ripetitivi organizzati da ulteriori utensili delle fogge e delle forme più strane (gli attrezzi e le macchine da palestra) consumiamo finalmente le calorie accumulate col pasto trangugiato di fretta nell’intervallo della “colazione di lavoro”. I più fortunati – ma sono una esigua schiera – riescono a fare dello sport vero: una partita a tennis o a calcetto, qualche chilometro di footing e di ginnastica all’aria aperta. Si asfaltano i polmoni di smog e sfidano la sorte come eroi omerici per qualche attimo di libertà. Rarissimi i cultori della passeggiata, della marcia o della bici che alle insidie dell’inquinamento dell’aria aggiungono quelle del traffico. Torniamo stanchissimi e stremati a casa per la cena in cui mettiamo a frutto quel poco o tanto di appetito che ci rimane per fare il pieno di pane quotidiano, si tratta di quel tipo di benzina un tempo verde che dovrebbe bilanciare le calorie così faticosamente consumate sudando. Non parliamo poi del fine settimana, una sorta di marcialonga o maratona che ci conduce dal venerdì sera al lunedì per permetterci di superare lo stress accumulato nei giorni di lavoro e impiegare edonisticamente tutto il tempo risparmiato durante la settimana con il rasoio, il frullatore, l’ascensore, il pulman, la metropolitana etc. Con un coraggio degno di ben altre gesta apriamo lo sportello della nostra vettura e ci mettiamo alla plancia di comando della nostra astronave che ci condurrà nell’opificio dove consumare fisicamente il tempo del nostro week end. Dopo ore di fila, di smog, di stress raggiungiamo la meta della nostra vacanza dove poter finalmente dare sfogo alle frustrazioni represse nei giorni di lavoro e “timbriamo il cartellino” per l’ingresso nello stabilimento scelto per il nostro rilassamento: arrampicarsi in montagna, nuotare al mare o in piscina, pedalare in bicicletta o sciare sulle piste da sci si tramutano spesso da un momento di svago in un nuovo test da sforzo da superare ad ogni costo per poter

raccontare al lunedì le gesta sportive vissute nel faticoso weekend e riprendere volentieri il tran-tran settimanale.

È stata per me una strabiliante sorpresa lo scoprire di poter praticare tutti gli esercizi di Qi Gong nella sala di casa e gran parte degli esercizi di Tai Ji Quan o nella stessa sala – riducendo il numero dei passi – o, al massimo, nel cortile sotto casa, senza essere costretto a rischiare la vita nel traffico, ad intossicare i polmoni o a passare le ore migliori del fine settimana in code interminabili in autostrada.

Un altro dato va sottolineato ed è relativo alla categoria dell’agonismo.

Lo sport occidentale nasce, fin dai tempi dei primi giochi di Olimpia, accompagnato dalla categoria dell’agonismo: si tira il giavellotto più lontano dell’avversario e lo si batte nella lotta greco-romana, si corre più veloce nei cento, duecento o quattrocento metri e si supera un’asticella posta sempre più in alto. Il confronto con un “nemico” da battere sembra la categoria sine qua non della pratica sportiva. Se ciò accade per gli sport praticati singolarmente è ancora più vero per quelli di squadra come il calcio, il baseball o il basket. L’agonismo dei contendenti ha generato il tifo degli spettatori che ormai è diventato una categoria sociale che nel bene e nel male dà colore agli stadi ed alle discussioni del lunedì. La civiltà occidentale si accompagna con la pratica agonistica degli sport che ormai sono stati trasformati da esercizio fisico accompagnato da un sano agonismo in un fenomeno sociale prima e politico poi che caratterizza, accompagnato anche dalle violenze degli stadi, il nostro tempo libero.

Anche in questo campo le ginnastiche cinesi mostrano un volto differente che pone qualche domanda a noi occidentali. Se è vero che in parte alcune di esse possono rientrare tra le arti marziali (ad esempio il Kung Fu) e tra le tecniche di difesa personale e dunque si accompagnano a gare ed agonismo, altre come, in particolare Qi Gong ed il Tai Ji, non solo non sono nate in ambito agonistico ma non si sono mai, nella loro lunga evoluzione, accostate all’idea del confronto con l’avversario. Meglio ancora potremmo dire che combattono con un unico avversario: noi stessi ed i nostri disequilibri energetici. L’agonismo di un esercizio di Qi Gong consiste nel superare le nostre debolezze, armonizzare le nostre disarmonie esintonizzare la coerenza delle nostre manifestazioni mentali e corporee nell’unità del corpo.

Un’ultima puntualizzazione è doverosa e riguarda il rapporto tra corpo, movimento e sistema dei meridiani o canali energetici.

La medicina cinese ha elaborato il concetto che l’organismo sia organizzato attraverso la rete dei meridiani che sono dei canali o vasi che permettono la circolazione delle varie forme di energia che sono alla base della vita di ogni uomo. I meridiani uniscono gli arti al tronco, il davanti al dietro, la destra e la sinistra, l’alto ed il basso, gli organi e visceri interni con le strutture ossee, muscolari, connettivali e cutanee esterne. Il corpo è immaginato in Cina come un network

di meridiani che si sovrappongono con la loro circolazione energetica ai tronchi vascolo-nervosi descritti dall’anatomia occidentale. Ma c’è qualcosa di più da capire: i canali o meridiani sono contemporaneamente il progetto virtuale secondo il quale si sviluppa il nostro organismo dall’uovo fecondato durante il periodo embrionale e fetale e la realizzazione matura di questo progetto che permette e favorisce la vita dell’uomo adulto, ma sono anche un sistema di interconnessione tra il microcosmo dell’uomo ed il macrocosmo della biosfera nella quale accade la nostra esistenza.

In cinese canale o meridiano si dice Jing: l’ideogramma che corrisponde a questo termine è formato da due radicali: quello destro indica il gesto ed il lavoro della geomanzia (dei fiumi sotterranei ed il lavoro che ne permette la scoperta), quello sinistro indica un tessuto, una trama (attraverso l’ideogramma che significa seta). Nel suo insieme il termine Jing significa che esiste una trama che ci collega e che può essere esaminata e scoperta. Il fatto più curioso è che questo termine è utilizzato in Cina sia per denominare i canali-meridiani che per identificare i Libri Classici della sua antica tradizione taoista e confuciana che parlano della trama che collega ognuno di noi al Cielo-Terra ed al fine ultimo della nostra esistenza.

Attraverso il movimento – che attiva, dinamizza, accelera o rallenta la circolazione dei nostri Jing – è permesso all’uomo di recuperare fisicamente quella sintonia con il Cielo e con la Terra che permette ad ognuno di noi di fare quel silenzio interno che ci armonizza con il cosmo: sarà poi un compito individuale e personale lo sfruttare questo silenzio per dare realizzazione alla propria verità.

 




La mia esperienza nella pratica del qi gong

Vito Marino*

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Storiella zen:

Il monaco chiese: «Come pratica il maestro?». Il maestro rispose: «Mangiando e dormendo». E il monaco: «Come gli altri?». E il maestro: «No, quando mangio io mangio; quando dormo io dormo. Gli altri non fanno così».

 

Come molti praticanti della mia generazione, parlo degli anni ’80, venni a contatto con il qigong come praticante di arti marziali, passando dalla pratica dell’Aikido a quella del taijiquan, e con la fortuna di praticare con un insegnante di taijiquan appassionato cultore del suo aspetto “interno”, Maurizio Gandini. La pratica era essenzialmente basata sui baduanjin e del zhanzhuang durante la lezione, e delle forme del Gioco dei Cinque Animali wuqinxi come pratica affiancata a quella del taijiquan.

 

Come medico agopuntore ero molto interessato all’aspetto potenzialmente terapeutico del taijiquan e, nel momento in cui ne cominciai ad insegnare lo stile yang quello che avevo imparato precedentemente fece parte da subito della mia lezione tipo: 20’ di qigong prima del taijiquan.

 

Nel 1992 feci l’incontro che più di ogni altro cambiò il mio modo di praticare la medicina cinese, fino ad allora ispirato alla tradizione vietnamita di Nguyen Van Nghi, e cominciai a ri-studiare con Leung Kwok-po, agopuntore taoista e praticante esperto di qigong medico e taoista. Il suo metodo di insegnamento è davvero esemplare, e mi ha influenzato al punto che ancora oggi ne seguo i suoi principi nella mia pratica medica: agopuntura, qigong, tuina, dietetica, tutto è integrato in una sola linea coerente di pensiero; il metodo della differenziazione delle sindromi, evoluto e perfezionato, diventava la chiave per aprire le porte della comprensione della condizione energetica individuale e, di conseguenza, della scelta dei punti, delle manovre di massaggio, dell’alimentazione consigliata, e ancora della scelta dei metodi di qigong da praticare.

 

In una calda estate siciliana del 1998 per caso venni a conoscenza del fatto che a Palermo, la cittàdove vivo, era tornata una insegnante cinese di qigong che era già stata in città per la sua attività di sportiva professionista, e che conoscevo perché mi aveva dato delle lezioni di cinese, Li Suping. Da allora cominciò la mia esperienza con il metodo che lei divulgava, fino a quel momento ancora poco conosciuto in Italia, il zhineng qigong.

 

Fu una folgorazione, non tanto perché fosse bello praticarlo, in quanto questa scuola ha dei metodi che a volte sono molto faticosi e molto poco “new age”…, bensì per l’effetto che ebbe su di me: dopo una vita da miope (-3:50 diottrie) da un giorno all’altro buttai a mare gli occhiali, in quanto in una notte recuperai quasi del tutto il mio visus passando a -0,25 in un occhio e a -0,50 nell’altro! Da quel momento non ho alcun dubbio sulla azione terapeutica del qigong, in qualsiasi ambito della patologia umana, e sul fatto che il zhineng qigong sia una forma molto efficace di pratica, la più efficace nella mia esperienza.

 

Ma la mia storia sulla comprensione del qigong non era ancora finita, perché dovevo ancora fare un altro incontro fondamentale per la mia vita, quello, nel 2002, con la Maestra Carmela Filosa, XIII generazione dello stile Chen Xiaojia del Taijiquan e XXI generazione della famiglia Chen, allieva dei Maestri Chen Peiju e Chen Peishan. Dopo tutti questi anni la mia pratica e la mia comprensione del qigong è cambiata in modo ancora più drastico, e condivido con i lettori di questo articolo le mie riflessioni a proposito.

 

Nel qigong, quando si parla di cosa lo contraddistingua da altre pratiche, e di cosa in effetti faccia rientrare una determinata pratica nel novero del qigong, si parla spesso delle “tre regolazioni”. Quando una pratica si basa sulla “regolazione del corpo” attraverso posture e movimenti, sulla “regolazione del respiro” attraverso il controllo della inspirazione, della espirazione e delle apnee inspiratorie e/o espiratorie, o con l’emissione di suoni, e sulla “regolazione della mente” con particolari visualizzazioni, la concentrazione su specifiche parti del corpo, meditazioni, allora questa pratica si può definire qigong.

 

Ma in realtà la cosa che nel zhineng qigong davvero caratterizza una pratica di qigong è la “introversione del pensiero”. Come scrive Ooi Kean Hin, “In genere le attività mentali delle persone sono focalizzate sull’esterno, su quello che succede nelle attività quotidiane, al di fuori del corpo. Questo fenomeno è conosciuto come concentrazione sull’esterno. La pratica del qigong richiede l’immergerci all’interno e mescolare questa concentrazione con le attività quotidiane. … (persino, n.d.A.) Nella pratica del qigong dinamico, con l’attenzione focalizzata sull’esecuzione (del movimento, n.d.A.) piuttosto che sul target esterno, il qi che è mobilizzato non sarà trasformato in forza che sarà portata all’esterno del corpo per svolgere il compito richiesto, ma sarà usata per rinforzare i canali del qi all’interno del corpo.”

 

Ancora Ooi Kean Hin: “Il Zhineng Qigong non tenta di concentrare la mente per ricercare la pace interiore o l’assoluta tranquillità. E nemmeno tenta di concentrare la mente sui percorsi del sistema dei meridiani per muovere il qi lungo alcuni tragitti (il metodo orbitale – zhoutian). Il Zhineng Qigong pone l’attenzione sull’uso cosciente della mente al fine di mantenere la concentrazione sull’esecuzione degli esercizi. Ciò vuol dire rimanere concentrati sulla relativa area mentre si eseguono le tecniche. Accoppiando l’attività mentale ai movimenti corporei si favorisce il mescolamento del qi corporeo con il qi primordiale e ciò rafforza la connessione fra uomo e natura.

Molti di noi pensano ad altre cose mentre mangiano o prima di addormentarsi. Svolgere le nostre attività quotidiane consapevolmente senza alcun altro pensiero è una forma di qigong di alto livello. Molti credono erroneamente che le forme statiche di qigong appartengano al più alto livello, mentre le forme dinamiche siano al livello più basso. In realtà a un livello elevato non esistono differenze fra le forme statiche e le forme dinamiche. Se il praticante può rimanere in quiete solo durante la pratica statica e non è in grado di fare altrettanto quando è in movimento, ciò vuol dire che deve ancora raggiungere un alto livello. A un alto livello il praticante è in grado di svolgere le attività consapevolmente mentre mantiene una mente assolutamente in pace. ”

 

Ecco, la pratica del taijiquan, complessa e totalizzante, durante la quale la concentrazione sulle singole parti del corpo e sul corpo nel suo insieme, e la coscienza dello sviluppo della forza dai piedi al bacino e ancora agli arti devono essere assolutamente sempre presenti, è stata per me la via maestra per capire il qigong e praticarlo al meglio delle mie possibilità. Il modo giusto per potere avvicinarmi, come si dice nel qigong, a una “pratica che parte dal midollo”.

 

La comprensione vera, profonda, almeno al mio livello, di tutto questo ha avuto il suo catalizzatore negli insegnamenti sul taijiquan della Maestra Filosa. Uno dei principi fondamentali del taijiquan, song jing ziran, yishi jichong, “rilassato e calmo in modo naturale, la coscienza è concentrata”, mantenuto e applicato nella pratica del taijiquan, mi ha condotto alla sua applicazione anche nel qigong. Nel taijiquan della nostra scuola ogni sequenza, a partire dalla prima, la sizheng taijiquan, sono strutturare e praticate in modo da coltivare la introversione della mente sulla sorgente del movimento, che di volta in volta, a seconda della abilità dello studente, può essere considerato il braccio, o il tronco, o le gambe, o il dantian, e sul percorso che, internamente, la forza segue per eseguire il movimento.

 

Il lavoro del taijiquan stile chen xiaojia, e del zhineng qigong, è uguale nel fine, portare la coscienza/consapevolezza, a mantenersi stabile all’interno del corpo, e da lì governare funzioni organiche e movimenti. Gradualmente la mente rimarrà stabile anche nel movimento del prendere un bicchiere a tavola: la nostra consapevolezza sisposterà dalla visione del bicchiere (coscienza estrovertita) al movimento del braccio che lo sta prendendo (coscienza introvertita). Più la mente rimarrà stabile, più si avvicinerà alla cosiddetta “pratica delle 24h”, che non significa praticare metodi e tecniche per 24h, naturalmente, bensì rimanere con la coscienza introvertita nelle attività quotidiane, e persino durante il sonno.

 

Un obiettivo troppo ambizioso? Eraclito diceva “Bisogna volere l’impossibile, perché l’impossibile accada”, ed Ernesto Che Guevara “Siamo realisti: vogliamo l’impossibile”. Siamo quindi in buona compagnia.

 




La pratica del qi gong riduce negli anziani la secrezione di cortisolo basale ed indotto da stress

Elisa Ponzio a, Lucio Sotte b, Marcello M. D’Errico a, Stefano Berti c, Pamela Barbadoro a,Emilia Prospero a, Andrea Minelli d

 Puoi scaricare qui l’articolo in PDF

Segnalo questo articolo comparso sullo European Journal of Integrative Medicine (di cui è riportato qui sotto il frontespizio). Riporta i dati di uno studio formulato su un’esperienza sul qi gong ondotta a Civitanova Marche (la cittadina in cui vivo) su un numeroso gruppo di anziani nei Corsi di Ginnastica Medica Cinese organizzati dall’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Civitanova Marche in primavera ed autunno per 18 anni, dal 1998 ad oggi.

Si tratta di un’esperienza molto interessante anche perché si è protratta per quasi due decenni con migliaia di partecipanti (ogni anno circa 300 partecipanti in primavera ed autunno in due palestre messe a disposizione dal Comune per 18 anni consecutivi).

I partecipanti ai corsi hanno fin dall’inizio di questa esperienza raccontato che la pratica del qi gong determinava un grande senso di benessere soggettivo associato a riduzione dei dolori reumatici ed articolari, a miglioramento della digestione ed evacuazione, al miglioramento del sonno e della sensazione di stanchezza. Nel corso dei quasi due decenni di questa esperienza abbiamo testato varie volte con dei questionari di autovalutazione lo stato di salute dei partecipanti prima e dopo i tre mesi di pratica del qi gong ottenendo sempre dei risultati molto interessanti che hanno evidenziato un miglioramento di tutti i parametri esaminati ed in particolare dei dolori reumatici ed articolari.

Questo argomento è stato occasione di verifica e di messa a punto di numerosi lavori di tesi per diplomi di tecnico di riabilitazione e per quelli di massaggio cinese.

La diffusione dei brillanti risultati così ottenuti ha creato le condizioni perché si potesse effettuare uno studio articolato in collaborazione con il Dipartimento di Prevenzione e Promozione della Salute della ASL di Ancona, il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università Politecnica delle Marche di Ancona ed il Dipartimento di Terra, Vita e Scienze Ambientali dell’Università Carlo Bo di Urbino.

Qui di seguito trovate l’abstract dell’articolo che è disponibile on line su www.sciencedirect.com con iltitolo “Qi-gong training reduces basal and stress-elicited cortisol secretion inhealthy older adults”.

 

Elisa Ponzio a, Lucio Sotte b, Marcello M. D’Errico a, Stefano Berti c, Pamela Barbadoro a,Emilia Prospero a, Andrea Minelli d

 

a Dipartimento di Prevenzione e Promozione della Salute della ASL di Ancona-Italia

b Dipartimento di Farmacologia Cinese, Scuola di Agopuntura AMAB, Bologna, Italia

c Dipartimento di Prevenzione e Promozione della Salute della ASL di Ancona, Italia

d Dipartimento di Terra, Vita e Scienze Ambientali dell’Università Carlo Bo di Urbino, Italia

 

Abstract

Introduzione: è riportato che il Qi-gong, una pratica mente-corpo che combina meditazione, esercizio fisico e controllo del respiro,  determina un miglioramento dello stato di benessere e delle funzioni fisiche dell’adulto e dell’anziano. Tuttavia sono da verificare gli effetti della pratica del Qi-gong sull’attività dell’asse ipotalamo-pituitario-surrenale HPA e sulla reazione allo stress in adulti ed anziani. È stato condotto uno studio non controllato prima e dopo la pratica del Qi-gong per verificare i possibili benefici di un training durato 12 settimane attraverso la somministrazione di un questionario di autovalutazione ed il controllo della secrezione di cortisolo basale e dopo stimolazione.

Metodi: Prima (T0) e dopo (Tf) un training di qigong, i partecipanti (n=28) uomini e donne, di età media di 65 anni (sono esclusi fumatori, obesi, persone affette da patologie croniche e patologie orali e soggetti con eventi stressanti maggiori nell’anamnesi recente) hanno risposto al questionario PSS-10. Dei saggi di saliva sono stati raccolti in vari momenti della giornata e durante un evento stressante mentale.

Risultati: la pratica del qi gong ha ridotto il livello di cortisolo basale durante il giorno, soprattutto al mattino. Nei soggetti che sono stati sottoposti ad eventi stressanti a T0 (n=16, l’incremento dal livello basale al picco inferiore a 1,5 nmol/l), la risposta del cortisolo allo sforzo cognitivo è stata marcatamente ridotta dopo il training, accompagnata da un decremento del PPS-10 score.

Conclusioni: la pratica del qi gong negli anziani sembra migliorare l’attività dell’asse ipofisi, pineale, surrenale HPA, ridurre i livelli giornalieri del cortisolo ed attenuare la risposta cortisolica allo stress mentale. Il miglioramento del profilo basale e dell’attività dopo stimolo HPA può riflettere un miglior adattamento allo stress e un miglioramento della situazione di invecchiamento. Questo studio incoraggia a proseguire i programmi di Qi-gong per nnziani.

 

 




Storia, principi ed effetti del tai ji quan del dott. Ma Li Tang

Lucio Sotte*

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Storia

Nel Classico dell’Imperatore Giallo sulla Medicina Interna, il Huang Di Nei Jing si dice:

«Qi zhi dao zhe, fa yu yin yang, he yu shu shu, shi yin you jie, qi ju you chang, bu wang zuo lao, gu xing yu shen ju: er jin zhong tian nian, du bai sui nai qu»

«Chi conosce il modo per preservarsi in buona salute segue le leggi del mondo naturale, esercita una corretta attività fisica, vive in maniera regolare, evita gli eccessi, ha il corpo in armonia con lo spirito; solo così è possibile vivere fino a cento anni.»

«Il coraggio nella lotta viene dalla calma del cuore, bisogna avere il cuore libero da affanni e stare rilassati. Ogni movimento deve favorire la circolazione del qi e del xue; i soldati in questo movimento sono i pugni e i piedi».

Esistono varie traduzioni del termine “tai ji quan” ma la più usata è “boxe della sommità suprema”. Secondo alcuni studiosi il significato è: “il tao insegnato mediante il movimento” oppure “il pugno estremo”.

Fondato sulla filosofia taoista, il tai ji quan ha un’origine leggendaria che risale al 1200 d.C.. L’ideatore presunto di questa disciplina, Chang San Feng, era un monaco del monte Wudang, nella provincia dello Hubei, che praticava il kung fu, un’arte marziale molto dura e basata sulla tensione psicofisica. Un giorno, osservando il combattimento fra una gru ed un serpente, si accorse che il rettile aveva la meglio grazie alla sua scioltezza ed alla sua capacità di concentrazione.

 

Prefazione autografa al volume della dott.ssa Ma Xu Zhou

Così, prendendo spunto da quell’osservazione, sviluppò una nuova tecnica di combattimento “flessibile ed apparentemente dolce”. Questa tecnica, poi, ulteriormente studiata e perfezionata lungo i secoli, diventò il tai ji quan che attualmente rappresenta uno dei caposaldi non solo delle arti marziali, ma anche di tutta la cultura cinese.

Al di là dei suoi fini combattivi, il tai ji quan, fondato sul principio taoista dell’armonia, divenne un metodo educativo estremamente interessante, sia dal punto di vista preventivo che terapeutico, per il mantenimento dell’equilibrio psicofisico.

In Cina, allo stato attuale, esistono due tipi di discipline marziali: “nei jia quan” o “forma interna” che associa il movimento alle tecniche di respirazione (ad esempio tai ji quan, ba gua, xin yi) e “wai jia quan” o “forma esterna” che si basa soprattutto sulla forza fisica (ad esempio boxe di shao lin, kung fu, wu shu).

La forma interna (nei jia quan), alla quale appartiene il tai ji quan, non si basa sulla forza muscolare ma sulla capacità di mobilizzare e condurre il qi, riduttivamente tradotto in Occidente con il termine energia. L’arte sta nell’evitare i colpi, quasi assecondando le mosse dell’avversario, cercando di capire le sue intenzioni e scoprire le sue debolezze, in maniera tale da rivolgere contro di lui la sua stessa forza.

 

La scuola Chen

Un secondo illustre personaggio, riguardante la storia del tai ji quan, fu Chen Wang Ting, un militare che nacque alla fine del periodo della dinastia Ming e prestò servizio presso la Corte Imperiale dove si distinse per il suo valore e per la sua capacità di reprimere le rivolte. Dopo la caduta dei Ming (1644 d.C.), Chen Wang Ting si ritirò nella provincia dello Henan ed elaborò lo stile di tai ji quan che ancora oggi porta il suo nome e che rimane la forma maggiormente caratterizzata dall’aspetto di arte marziale fra i vari stili del tai ji quan stesso attualmente praticati. Tutt’oggi si contano 18 generazioni di maestri “Chen” perché, per tradizione, la trasmissione di questo stile veniva tramandata alle generazioni di una stessa famiglia.

 

La scuola Yang

Lo stile Yang è il più diffuso oggi in Cina e fu elaborato da Yang Lu Chan (1789-1872). Dopo un periodo di tirocinio presso la famiglia Chen, il giovane Yang tornò a Pechino ed iniziò il processo di trasferimento del tai ji quan dalle campagne alle città, insegnandolo presso l’esercito mancese e la corte dei Qing. Con lui iniziò il periodo d’oro del tai ji quan che ebbe una grande diffusione presso le classi sociali elevate. Si dice, però, che Yang Lu Chan fosse contrario ad insegnare questa disciplina ai mancesi che riteneva “barbari stranieri”; ed ecco perché ridusse l’aspetto meditativo ed interiore del tai ji quan trasformandolo in una disciplina basata su sequenze di movimenti lenti, accentuandone l’aspetto fisico e plastico ma senza rivelare la filosofia e la disciplina mentale che ne costituiscono la vera essenza. L’insegnamento completo fu tramandato soltanto ai membri della famiglia Yang ed in particolare ai tre figli che poi lo diffusero in tutta la Cina. In questo periodo si delineò il cambiamento della natura del tai ji quan che, da esclusiva tecnica di combattimento, cominciò a diventare anche ginnastica terapeutica.

 

La scuola Wu

Wu Jian Qian ideò e diffuse, in particolare a Shanghai, la forma detta “piccolaconcatenazione” caratterizzata da un stile fatto di movimenti più contratti nei quali il tronco è più inclinato che nello stile Yang. Questa scuola, oggi, gode di grande popolarità tant’è che, in ordine d’importanza, è la seconda dopo la scuola Yang.

 

Principi del tai ji quan

La corrispondenza fra tai ji e tai ji quan

Secondo la filosofia taoista il tai ji è l’unità suprema, il principio che regge l’universo e presiede all’unione dello yin e dello yang. In questo termine, spesso tradotto come “limite supremo” (in cinese ji è la trave superiore della casa), c’è, innanzitutto, la nozione di asse, di “cardine intorno al quale si armonizzano le diecimila trasformazioni prodotte dal rapporto dialettico fra lo yin e lo yang”. La rappresentazione grafica del tai ji fatta da Zhou Dunyi, vissuto all’epoca della dinastia Song, ha una connotazione metafisica e, nel commento che lui stesso ne fa, sottolinea che lo yin e lo yang non sono di natura diversa e sono inseparabili.

«Il tai ji si mette in moto e produce lo yang. Quando il movimento arriva al suo apogeo sopraggiunge il riposo. Quando il riposo è giunto al suo apogeo ritorna il movimento. Riposo e movimento si alternano poiché ciascuno è la radice dell’altro. C’è separazione dello yin e dello yang ed i due principi sono stabiliti…..Lo yang si trasforma per reazione con lo yin e l’Acqua, il Legno, il Fuoco, la Terra ed il Metallo sono generati. Questi cinque qi si propagano armoniosamente e le quattro stagioni seguono il loro corso.

I cinque elementi costituiscono lo yin e lo yang e lo yin e lo yang formano il tai ji. Fino alla formazione, i cinque elementi hanno ciascuno la propria natura specifica. Il principio autentico del “senza limite”, le essenze dello yin, dello yang e dei cinque elementi si uniscono attraverso processi meravigliosi e si condensano. Il tao del cielo crea l’uomo e il tao della terra crea la donna. Questi due qi (energie) si rapportano fra di loro, si trasformano e producono i diecimila esseri. Le generazioni si susseguono, i cambiamenti e le trasformazioni sono infiniti.»

 

Tai ji e tai ji quan: la forma ed i principi

L’evoluzione che secondo il tai ji va dallo yin allo yang, ai cinque elementi ed agli otto trigrammi viene applicata anche al corpo umano («Il tai ji genera i due principi primari…i quattro principi secondari generano gli otto trigrammi…» – Yi jing o Classico delle Mutazioni).

Le corrispondenze più comunemente accettate dalla maggior parte dei maestri di tai ji quan sono le seguenti: il cuore è il tai ji, gli occhi sono il sole e la luna cioè lo yin e lo yang, gli arti sono i quattro principi secondari e le loro otto articolazioni sono gli otto trigrammi. La corrispondenza fra gli ottotrigrammi e le varie articolazioni è indicata diversamente dai vari maestri.

La forma circolare o a spirale del tai ji si ritrova in tutta la pratica del tai ji quan: l’ideale è far sì che l’immagine del pensiero (yi) sia quella di un cerchio mentre le mani descrivono, spesso, attraverso dei movimenti, delle linee sinuose. Inoltre, l’idea del cerchio si ritrova anche nell’esecuzione dei passi. L’ultima posizione riporta al punto di partenza: è il ritorno all’origine attraverso la chiusura di un movimento circolare. I maestri spiegano che l’esecuzione di movimenti circolari riduce, anche, le possibilità di presa dell’avversario. Infine all’idea di cerchio è associata l’idea della continuità: «i movimenti devono ricordare lo srotolarsi di un filo di seta da un bozzolo» (scuola Chen).

Il principio che regola il tai ji quan è lo stesso: ritorno alla natura ed alla spontaneità; «il movimento deve riflettere la calma delle montagne ed il fluire incessante di fiumi e corsi d’acqua».

 

Yin e yang

Nel tai ji quan il dorso è yang e il ventre è yin, gli avambracci ed il dorso delle mani sono yang mentre i polsi ed i gomiti sono yin, il viso è yang e la nuca è yin, il lato sinistro del corpo è yang mentre il lato destro è yin. I movimenti sono riconducibili a tredici movimenti di base: otto corrispondono agli otto trigrammi di cui quattro sono orientati verso i quattro punti cardinali e quattro verso le direzioni angolari e gli altri cinque corrispondono ai cinque elementi orientati verso i quattro punti cardinali ed il centro.

 

La versione dello yang tai ji quan o tai qi gong di Ma Li Tang

Questa sequenza è simile alla versione corrente semplificata dei 24 movimenti. Essa comprende 22 movimenti ed è stata elaborata da Ma Li Tang a partire dalle sue esperienze nelle arti marziali (fu un illustre maestro di ba gua, xin yi e wu shu) e nel qi gong, nonché sulle basi teoriche del tai ji e della medicina tradizionale cinese. Innanzitutto, riguardo la posizione da assumere, bisogna tenere presente le tre regole per porre in atto una difesa corretta:

– le due braccia devono essere sempre vicino alle costole;

– le mani con le dita chiuse a pugno devono essere sempre davanti al cuore;

– le due braccia devono essere sempre in posizione di cerchio.

Inoltre i gomiti e le ginocchia devono essere allineati in avanti mentre i piedi e le spalle devono essere allineati all’indietro.

Ci sono, poi, tre principi fondamentali per la pratica corretta del tai qi gong:

– regolare il cuore (tiao xin);

– regolare il corpo (tiao shen);

– regolare la respirazione (tiao huxi).

Ma la chiave principale del tai qi gong è il rispetto delle cosiddette “3 armonie o congiunzioni interne” e delle “3 armonie o congiunzioni esterne”.

Le 3 armonie o congiunzioni interne sono:

– unione del cuore con la volontà (xin he yi);

– unione della volontà con il qi (yi he qi);

– unione del qi con la forza (qi he li).

«La volontà muove il qi, il qi comanda il movimento ed il movimento guida il qi».

È uno scambio tra lo yin e lo yang, tra quiete e movimento, tra vuoto e pieno, in armonia con la legge dei 5 elementi (wu xing) e la circolazione del qi nei canali.

Le 3 armonie o congiunzioni esterne sono:

– la mano allineata con il piede (shou he zu);

– il gomito allineato con il ginocchio (zhou he xi);

– la spalla allineata con lanca (jian he kua).

 

Il metodo della respirazione

All’inizio, quando si comincia ad imparare la sequenza del tai qi gong, è consigliabile respirare naturalmente, cercando di mantenere un ritmo respiratorio regolare, non forzato ed in armonia con i movimenti. Quando si sente il bisogno di inspirare o di espirare lo si faccia in maniera tale da sentirsi a proprio agio.

Con il passare del tempo, quando si sapranno eseguire i movimenti con scioltezza, allora si potrà applicare la tecnica respiratoria adatta al tai qi gong cioè la cosiddetta respirazione controaddominale o estroversa (ni fu she hu xi). Secondo questa tecnica, durante l’inspirazione si devono contrarre i muscoli addominali e quando si arriva all’apice dell’inspirazione stessa si devono «sigillare» gli sfinteri (anale ed uretrale) per aiutare il qi a salire dai talloni lungo la colonna vertebrale per poi scendere fino al dan tian. Durante l’espirazione, invece, si devono rilassare i muscoli addominali e gonfiare leggermente l’addome.

La respirazione non deve essere avvertita tranne che nella tecnica “fa jing”, nella quale si espira di colpo dalla bocca nell’attimo in cui si sferra il pugno. Oltretutto, questo è l’unico caso in cui il pugno è strettamente chiuso ed il polso rigido e, in contrasto con la regola generale della “morbidezza” nell’esecuzione degli esercizi del tai ji quan, il movimento del pugno deve risultare rapido ed esplosivo.

Questa tecnica di respirazione presenta molti vantaggi: aiuta ad eliminare l’aria viziata che ristagna nei polmoni, tonifica la muscolatura addominale e crea una pressione sull’addome stimolando la circolazione sanguigna degli organi interni in esso contenuti, riducendo, così, il rischio della stasi del sangue. La respirazione controaddominale ha origine dalle arti marziali ed è basata sul principio che «si assorbe lo yin qi dalla terra attraverso al pianta dei piedi e lo yang qi dal cielo attraverso il punto GV20 – baihui e la punta delle dita delle mani alzate verso il cielo».

Una volta che si apprende bene la sequenza dei vari esercizi, bisogna cercare di far coincidere i due tempi della respirazione con i vari movimenti.

Quindi l’inspirazione deve corrispondere ai seguenti quattro movimenti: flessione del corpo o delle braccia, movimento verso l’alto, movimento di sollevamento e movimento di apertura. L’espirazione, invece, deve corrispondere ai quattro movimenti contrari: estensione del corpo o delle braccia, movimento verso il basso, movimento di pressione o di spinta e movimento di chiusura.

 

Il radicamento

I piedi devono essere ben ancorati al suolo con il peso del corpo distribuito equamente: il maestro dovrebbe poter spingere l’allievo di sorpresa ed i qualsiasi momento senza che questo perda mai l’equilibrio. A tale scopo bisogna esercitarsi molto per imparare bene ad assumere la posizione di base: abbassare il centro di gravità dell’asse perineo-sommità del capo (punti CV1 – huiyin e GV20 – baihui), tenere la schiena sempre dritta ed il bacino ben equilibrato sulle gambe flesse. Più ci si abbassa e maggiormente il corpo acquisirà equilibrio e stabilità. Dalla vita in giù il corpo è ben radicato a terra ed il qi sale dal punto KI1 – yongquan lungo le gambe ed il canale straordinario du mai. Dalla vita in sù il corpo è rilassato e le spalle e le braccia sono distese.

 

Il movimento

Il movimento deve risultare “sciolto, morbido, rotondo e molto lento”. Inoltre bisogna fare “il vuoto della mente” e concentrarsi sul dan tian dal quale viene inviato il qi in tutto il corpo e che è paragonato, perciò, ad “un ragno al centro di una ragnatela che tesse i fili verso la periferia ed in tutte le direzioni”.

Altra regola fondamentale per compiere correttamente i movimenti è tenere presente che è sempre il piede ad iniziare il movimento mentre il resto del corpo deve seguire in modo automatico ed armonioso. Nel tai ji quan, quando si parla dei piedi e delle mani in movimento, si usano i concetti di pieno (shi) e di vuoto (xu): il vuoto è yin ed il pieno è yang. Un piede è pieno quando la maggior parte (70%) o la totalità del peso del corpo pesa su di esso. Ripartire equamente il peso del corpo sui due piedi è considerato un grave errore perché, in tal caso, non si farebbe distinzione fra lo yin e lo yang e, quindi, si creerebbe immobilità con la conseguenza di non potere effettuare con agilità i cambiamenti di direzione dei vari movimenti. Se il piede sinistro è vuoto anche la mano sinistra deve essere vuota e viceversa. La mano portata in avanti viene considerata yang e la mano indietro yin, la mano in alto yang e la mano in basso yin. Il movimento di apertura è yang mentre il movimento di chiusura è yin. Il passo che si pratica nel tai ji quan è definito “passo del gatto” ed ha origine dalle arti marziali. Durante l’inspirazione si appoggia il tacco a terra in maniera tale da far salire il qi al dan tian mentre durante l’espirazione si appoggia tutta la pianta del piede a terra in modo tale che il qi, passando per il punto KI1 – yongquan, ritorni alla terra. Un’altra regola importante consiste nel fatto che gli occhi devono seguire il movimento delle mani e le mani ed i passi devono seguire la rotazione della schiena; questo tipo di coordinazione è utile, soprattutto, per le persone di salute cagionevole o che soffrono di sindromi depressive o vertiginose. Inoltre bisogna mantenere la testa ed il collo eretti, come se fossero appesi ad un filo che li lega al cielo, per facilitare la salita del qi lungo il canale straordinario du mai. Il collo e la testa, poi, devono ruotare insieme al corpo compiendo un movimento estremamente armonioso. Nel tai ji quan il petto è leggermente rientrato e le braccia e le spalle rilassate come se “penzolassero” dal corpo. Bisogna assolutamente evitare di contrarre i muscoli in maniera tale che il movimento risulti sciolto e leggero ed il qi ed il sangue possano circolare liberamente; in caso contrario si hanno le parestesie.

Le mani non devono essere mai completamente chiuse tranne quando si sferra un pugno; ma, anche in tal caso, la tensione delle dita deve durare solo pochi secondi e cessare quando la mano viene abbassata.

La saliva deve prodursi in continuazione perché “se c’é saliva accanto ai denti si può vivere cento anni”. Infatti, se si praticano bene gli esercizi, i liquidi organici sono abbondanti e si ha un sapore dolce in bocca.

 

L’effetto terapeutico

Dopo un pò di pratica bisogna lasciarsi portare dal movimento: il suo ritmo ha un effetto calmante e riequilibrante il SNC. Altri effetti terapeutici sono: miglioramento dell’equilibrio, della funzione digestiva (grazie alla posizione della lingua, durante gli esercizi, che viene tenuta “arrotolata” contro il palato superiore permettendo una produzione maggiore di saliva ed enzimi digestivi), della capacità respiratoria, della funzione cardiaca, delle capacità mentali e della capacità di prendere maggiormente coscienza del proprio corpo.

 

La concentrazione mentale

La concentrazione mentale, insieme alla capacità di dirigere il proprio qi, fa del tai ji quan o del tai qi gong nella versione di Ma Li Tang, una disciplina terapeutica, una ginnastica terapeutica e non appena una ginnastica utile solo per fare del movimento e bella da vedere come fosse una danza.

Liu Wei Xiang, maestro di Ma Li Tang, diceva: «quando praticate il tai ji quan non lasciatevi distrarre da nulla, rimanete impassibili anche se il monte Taishan dovesse crollare vicino a voi o se foste aggrediti da una tigre». La buona qualità della concentrazione agisce positivamente sul SNC ed esercita un effetto regolarizzatore sul funzionamento degli organi interni econseguentemente sull’equilibrio psicofisico. Si deve cercare di guidare il qi dal dan tian e dal cuore a tutto il corpo.

«Non c’è più distinzione fra cielo, terra ed essere umano. Il pensiero (yi) è il generale che dirige il movimento; il qi, il sangue e gli occhi sono l’avanguardia ed i piedi e i pugni sono i soldati».

Sono vari i processi mentali che i maestri di tai ji quan utilizzano per provocare effetti fisiologici ben definiti ed è sempre il pensiero creatore (yi) a sostenere il ruolo determinante. A questo proposito si possono delineare tre tappe.

La prima tappa consiste nello «stimolare il qi (soffio)» ovvero è la creazione di un movimento energetico all’interno del corpo che può determinare quelle che sono definite “la grande e la piccola circolazione”.

La tecnica più diffusa di stimolazione del qi (soffio) sembra essere la grande circolazione ad anello chiuso nei due canali straordinari du mai e ren mai. Con l’ausilio del pensiero (yi) si fa scendere il qi dal dan tian al punto CV1 –huiyin e poi lo si fa risalire lungo il canale straordinario du mai fino al punto GV20 – baihui, facendolo passare per le tre barriere del dorso (san guan) che sono il punto GV4 – mingmen, il punto GV10 – lingtai ed il punto BL9 – yuzhen. Poi il qi ridiscende al punto GV26 – renzhong per circolare nel canale straordinario ren mai ed arrivare al punto CV1 – huiyin. Questa circolazione viene anche definita “dal cielo anteriore al cielo posteriore” e più raramente viene effettuata anche in senso inverso. Questa circolazione provoca un rilassamento totale di tutte le parti del corpo nonché la comparsa di grande calore seguito da sudorazione.

Liu Pei Zhong, illustre studioso del tai ji quan, affermava che: «se il calore si produce in tutto il corpo e se il punto yin qiao è collegato con il cuore, è possibile la trasformazione del qi in zhen qi (energia vera o soffio vero)».

La seconda tappa consiste nella «trasformazione del qi (energia) in energia mentale (shen)».

Il qi (energia), se è in quantità sufficiente, può essere trasformata in energia mentale (shen). Lo sforzo non agisce più sul movimento né sulla respirazione ma sul pensiero creatore, sull’intenzione (yi). Il pensiero (yi) presiede all’azione mentre l’energia mentale (shen) corrisponde al non-agire. Quando si esplica l’azione, il pensiero (yi), che ha sede nella milza, entra in funzione a comandare l’azione stessa. Nel tai ji quan ogni movimento parte dal cuore ed è guidato dal pensiero (yi) che fa da legame fra il corpo e la mente.

La terza tappa consiste nella «trasformazione dell’energia mentale (shen) e nel ritorno al vuoto». Quando l’esecuzione di un movimento coincide sempre più con la sua rappresentazione mentale, espressa mediante il cuore, e quando il cuore risponde immediatamente al pensiero emesso, si produce l’automatismo del movimento ed il passaggio nell’inconscio. Non è più necessario lo sforzo cosciente né per eseguire il movimento né per emettere il pensiero che lo determina, perché il pensiero fluisce spontaneamente. Chen Pinsan, maestro di tai ji quan vissuto agli inizi del novecento, descrive così questa situazione: «io non so più che questo corpo sono io né che io sono questo corpo». In questa affermazione ritroviamo la teoria “dell’oblio del corpo” (xing wang) del filosofo taoista Zhuang Zi il quale sosteneva che «il saggio supremo non ha io». Il significato di questa affermazione è che la pratica del tai ji quan libera dalla tensione psichica e determina l’effetto di rasserenare la mente.

 

 




L’armonizzazione del corpo ed i rapporti movimento forma nella pratica del qi gong

Marco Mazzarri*

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In questo articolo vorrei parlare del rapporto per me importante tra movimento e forma nella pratica del qigong.

Uno dei principi fondamentali della pratica, declinato nel linguaggio moderno, si esprime con Tiáo Shēn 調身, traducibile con “regolare o armonizzare il corpo”.

La regolazione del corpo si riferisce a movimenti e posture.

Secondo gli insegnamenti della Dott.ssa Zhu Miansheng: “In cinese si parla di Dòng Zuò. Il carattere Dòngindica il movimento legato alla forza (Li) ed alla presenza di pressione/pesantezza (Zhòng), quindi Dòng è l’utilizzo della forza per far lavorare il peso del corpo, per far muovere il nostro peso… nella concezione taoista lavoro il peso con leggerezza, altrimenti tutto diventa pesante. Riguardo al movimento, occorre seguire delle regole, in quanto ogni movimento ha i suoi principi (le sue regole) e le sue chiavi. Zuòè la postura corporea ed ogni postura ha la sua immagine (sono sempre regole ma intese in altra maniera): se la postura non è corretta, non vi è la giusta rappresentazione simbolica”.

Quest’insegnamento è stato per me molto importante, in quanto ritengo che studiare il movimento significa compenetrarlo, comprenderne le sue qualità basilari, i suoi sensi, quindi le sue “chiavi”: disperdere e concentrare, riempire e svuotare, salire e scendere, avanzare e indietreggiare, accogliere e dirigere, mobilizzare e stabilizzare, calmare e risvegliare sono alcune qualità dell’alternanza del movimento, che si esprime attraverso precise zone del corpo, o ben definiti collegamenti fisici sui quali dirigere l’attenzione volta per volta. Il movimento sarà pertanto imprescindibilmente diretto e motivato dalla capacità di coinvolgere correttamente determinati aspetti fisici, come per esempio la corretta distribuzione del carico nello spostamento del peso, il mantenimento di precise direzioni delmovimento nelle rotazioni, la “giusta” distanza della mano dal torace, quindi la corretta flesso-estensione di gomiti e polsi…

Il movimento è fluido, continuo, senza intoppi, senza scatti, non meccanico, integrato al respiro e all’intenzione.

Nella pratica del Dao Yin Fa al principio è data la precedenza ai movimenti rispetto alle posture: si preferisce pertanto lavorare il movimento sino ad interiorizzarlo, per poi prendere una forma (assumere una postura) che contenga il movimento interno, per non creare blocchi.

Pertanto, i movimenti esterni di decontrazione-estensione e di rilassamento-flessione di singoli segmenti corporei, di gruppi di segmenti e più spesso ancora globali, avranno lo scopo di far percepire il movimento, per poi affinarlo ed armonizzarlo; eventualmente, giunti a questo punto, il praticante potrà mantenere delle posture che contengano il movimento interno, senza i rischi che queste potrebbero comportare se “forzatamente” proposte sin dal principio della pratica.

Ritengo sia altresì importante prestare attenzione a non cadere nella trappola della perfezione del movimento, poiché ognuno dovrà trovare anche la sua maniera di esprimerlo, quindi ogni persona avrà il suo modo di eseguire gli esercizi, in base alla propria predisposizione.

 

La postura sarà tanto più efficace quanto più potrà essere evocatrice di un simbolo e più sarà corretta, più sarà in grado di “incarnare” determinati principio; il suo mantenimento nel tempo permette al praticante di adattarsi sempre meglio alla forma facendola propria, nella ricerca della pace interna e dell’abbandono a se stessi.

Le posture sono varie: a partire da una postura di base seduta, di fianco, eretta o coricata, possiamo atteggiare il corpo in svariate posizioni. In particolare le mani assumono una fondamentale importanza per specificare ove si intende dirigere o accumulare il qi. La preferenza per certe posizioni è logicamente legata alle proprie condizioni fisiche, allo stile di vita, alle abitudini.

Nella pratica del Dao Yin Fa di tradizione Ling Bao come trasmessa dal M.° Georges Charles, troviamo i collegamenti ai Cinque Movimenti.

  • Fuoco: riguarda le posture in piedi (che a loro volta si differenziano in vari tipi), attraverso le quali evochiamo al meglio la rettitudine ed il rapporto Cielo/Terra garantendo la mobilizzazione e la circolazione di sangue ed energia.
  • Terra: seduti a gambe incrociate è la postura di centratura e d’equilibrio yin/yang, “posizione mediorientale”.
  • Metallo seduti a gambe aperte (distese o leggermente flesse): è molto utile per sciogliere, ammorbidire; se eccessiva, può danneggiare i muscoli (Metallo che opprime il Legno), ma è anche preparatoria al lavoro osseo (Metallo che genera Acqua). La posizione Metallo è tipicamente occidentale: si pratica più inizialmente, poiché si evidenziano subito quali sono i problemi.
  • Acqua: riguarda tutte le posture coricate (supina, sul fianco e prona), nelle quali si praticano le distensioni e i rilassamenti profondi, ottima nella pratica serale e notturna.
  • Legno: la posizione inginocchiata, legata alle pratiche di risveglio (Seiza è tipicamente giapponese o orientale/Est).

 

Nella visione medica il qi gong in movimento è maggiormente indicato per sciogliere muscoli e articolazioni e per far circolare qi e sangue.

Il qi gong statico è più indicato per accumulare il qi e consolidare il corpo.

È preferibile, quando ciò risulta possibile, seguire le proprie inclinazioni dato che, molto spesso, la postura in cui ci si sente a proprio agio è la migliore per la pratica del qi gong. In quest’ottica è pertanto auspicabile cercare di adattare la pratica al praticante e non viceversa!

 

A tal scopo mi rifaccio ad una citazione dello Huai Nan Zi – «Il libro del maestro di Huainan», un classico taoista del II secolo a.C. – che nel capitolo 31, ‘l’ascensione graduale sino al Tao’ dice: “Abbiate cura di non smarrirvi mettendovi sullo stesso piano dei falsi profeti, delle scuole ove l’insegnamento contro-natura è proposto da insensati la cui condotta e le cui pratiche non valgono la pena di spenderci un pensiero. Diffidate particolarmente dei “ginnasti”, essi non conoscono altro che le posture ed applicano le loro arti seguendo un metodo unicamente corporeo. Laddove bisognerebbe intendere la circolazione corretta attraverso i corpi dei soffi del Cielo e della Terra, essi comprendono unicamente gli scambi tra l’apparato respiratorio dell’uomo e l’aria esterna. Tutte le loro pratiche fisiche sono prescritte nella stessa ottica insufficiente”.

Questa speculazione dello Huai Nan Zi, mi dà lo spunto per una riflessione importante rispetto a ciò che considero valido nell’insegnamento.

Secondo me, è molto importante comprendere che se ci si sofferma solo sull’aspetto fisico di ciò che osserviamo nella postura o di ciò che percepiamo della forma corporea, rischiamo di intervenire verso il ristabilimento di ciò che non è “conforme” (nella forma corretta) rispetto a schemi di perfezione che abbiamo più o meno introiettato: il nostro intervento in tal caso, sarà perciò sbilanciato su aspetti più interventisti e modificativi dell’equilibrio esistente, con maggior presenza di aspettative di come vorremmo “vedere” l’allievo, e maggiori rischi di invasività e di frustrazione reciproca in caso di insufficiente o di mancato cambiamento.

Questi rischi, a mio avviso, sono di per se più limitati nel caso in cui l’approccio del praticante divenga più ampio, e più diretto alla percezione e all’ascolto dei movimenti che avvengono all’interno dell’organismo: movimenti che possono essere più o meno grossolani (muscolari, circolatori e respiratori) o sottili (energetici), che permettono comunque di essere più vicini all`impulso vitale e di seguirne al meglio le evoluzioni durante la pratica. Questi sarà incentrata più sul seguire e sul facilitare il movimento, lasciando ampie possibilità di prendere contatto con i propri movimenti interni amplificando la fiducia nei propri potenziali.

 

Tutto questo bel discorso non mi porta certo a concludere che è sempre più utile partire dalmovimento che dalla forma, ma sicuramente lo è, a mio parere, nella maggioranza dei casi, e lo è rispetto alla mia formazione e al mio carattere: è indubbio che forma e movimento non sono separabili e che l’approccio attraverso uno di loro, comporta l’accesso e l’intervento sull’altro.

 

Del resto è noto che forma e funzione sono in stretta connessione.

I taoisti affermano che “l’energia muore dove comincia la forma, a meno che questa non sia animata da un movimento”; e qui entra in gioco il ritmo, la ripetizione ciclica. Ne deriva che la forma è energia in riposo e l’energia è forma in movimento: è quindi l’energia che permette di mantenere la forma e questa che a sua volta permette di manifestare il movimento. Tutte le pratiche psicofisiche taoiste attraverso la ripetizione ciclica ed assidua dei movimenti e/o il mantenimento prolungato di certe posture, permettono di comprendere ed incarnare questi principi.

 

Buone pratiche!

 

 

 

 

 

 

 




Corpi di forza una lettura interculturale, femminista, marzialista della “violenza di genere”

Alessandra Chiricosta*

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Ciò che so sulla forza, parafrasando Bruce Lee, lo ho appreso grazie alle arti marziali. Vuol dire che non l’ho solo letto, pensato, ma prima di tutto l’ho esperito. L’ho appreso partendo da me. È divenuto carne, sangue, muscoli, tendini, segnali elettrici. È una forza che è partita da me, dal mio corpo-mente, che è divenuta cosciente di sé grazie alla pratica del corpo-pensante. È presenza libera, non posso negarla se non negando me stessa. Per questo che, per quanto mi riguarda, i discorsi che creano una donna priva di forza, che la fanno naturalmente debole, risuonano come vuoti costrutti, armature senza corpo. Il mio corpo parla, e mi dice altro. Di questo mi fido.

Che il corpo di una donna sia un corpo “debole” è assunto radicato nel senso comune, in molti tempi e a molte latitudini. Il “gentil sesso” è così detto proprio in virtù di una concezione che vede il corpo della donna come biologicamente, naturalmente caratterizzato da tratti di accoglienza, di morbidezza che lo renderebbero strutturalmente inadatto all’esercizio della forza, soprattutto quando questa viene vista nei termini di un combattimento. La forza del corpo femminile andrebbe dunque ricercata altrove, in una dimensione che non comprende l’esercizio della forza combattente. In genere, questo “altrove” viene posizionato nei contesti della cura e della procreazione, o nella dimensione della sensibilità emotiva ed emozionale. Forza combattente, intesa nel suo portato psico-fisico ed emozionale, e “cura” sono visti, perciò, come termini antitetici e reciprocamente escludentisi: la forza fisica viene così spesso equiparata sbrigativamente alla violenza, o quanto meno ad un potenziale esercizio di questa. Un corpo forte è, quindi, naturalmente portato all’esercizio della violenza, qualora non intervengano limiti esterni ad inibirne questo tipo di espressione. Un corpo debole è naturalmente portato alla pace e alla mitezza. Un corpo forte è grezzo e bruto, un corpo debole è sensibile e fine. Questo tipo di interpretazione dualistica, dicotomica del rapporto tra forza e debolezza, che si traduce in un netto contrasto tra violenza e cura, maschile e femminile, guida, tra le altre cose, anche la lettura della grave questione della “violenza di genere” in molti paesi – tra cui l’Italia – e motiva molte delle scelte – o non-scelte – politiche in materia. Il consenso che viene più o meno implicitamente assegnato a tale paradigma è condiviso da molte e da molti, in modo trasversale a partizioni e posizionamenti. Rappresenta, ad oggi, una base di partenza per riflessioni, analisi e soluzioni, condivisa in virtù della sua naturalità ed oggettività. La differenza tra le posizioni si trova quasi sempre a valle di tale paradigma, aprendo dibattiti e conflitti che riguardano le strategie da utilizzare per la limitazione dell’esercizio della forza-violenza – se questa debba passare per il riconoscimento dello stato di “vittima” di una donna o, al contrario, puntare su un rafforzamento del suo “potere”, ad esempio – o, in contesti differenti, se tale asimmetria biologica vada semplicemente accettata, i singoli e le singole dovendone farsene carico al livello personale.

 

Il mio personale percorso di ricerca, al contempo esperienziale e intellettuale, mi ha portato a mettere duramente in questione questi assunti, smascherandone le caratteristiche di costruzione culturale, di dispositivo biopolitico, di profezia autorealizzantesi. Il percorso qui proposto muove verso una seria e radicale destrutturazione del paradigma corrente sulla forza in relazione al genere, non collocandosi, conseguentemente, in nessuno dei posizionamenti sopra esposti. Attraverso un’indagine svolta in più atti, che attraverserà vari campi e diverse discipline, si intenderà dimostrare come la costruzione “culturale” della forza/violenza del corpo maschile e della debolezza del corpo femminile, lungi dall’essere un dato biologico ed oggettivo, è un dispositivo biopolitico che ha limitato fortemente l’esplorazione di altre dimensioni ed elaborazioni di concetti come “femminilità” e “mascolinità” in relazione all’espressione della forza. È il paradigma, non l’oggettività corporea, ad aver articolato le relazioni tra i generi alla stregua di una lotta tra vittima – reale o potenziale – e carnefice – reale o potenziale. Paradigma che si basa su di una lettura superficiale, parziale, contraddittoria e farraginosa di cosa si intende per “forza”, “forza combattente” relativa ad un corpo sessuato. Paradigma che trova la sua smentita in molteplici luoghi e tempi, diversi da quelli che siamo abituati a considerare. Paradigma che ha tentato di eliminare ciò che lo contraddiceva, ma che non sempre è riuscito nell’intento. E tracce, cicatrici, cesure indicano l’esistenza di possibilità diverse di pensare la relazione tra i generi, il cosa renda un corpo-mente mascolino o femminino, la violenza, la forza. Seguire le tracce, fare luce su di una mistificazione, articolare nuovi percorsi di indagine e di azione è una questione che si mostra oggi di particolare importanza. Restituire al corpo di donna un suo proprio accesso alla forza, ripensare il concetto di forza come plurivoco e multisfaccettato, svelare in che modalità un paradigma culturale sia divenuto una profezia autorealizzantesi sono qui visti come passi necessari per poter realmente puntare ad una relazione tra i generi non segnata da una “violenza originaria”, ma che, invece, si apra nel segno di due soggettività ugualmente compiute, in grado di intessere relazioni nella differenza.

Cosa si intende quando si definisce una donna, per natura, più “debole”? Il “corpo della donna” –concepito artificiosamente come singolare, rimuovendo la specificità che ogni singolarità comporta – è così culturalmente costruito per apparire debole, o meglio, più debole del corpo maschile. Il corpo della donna non è visto in sé, nella sua pluralità di incarnazioni e nelle possibilità che da quelle uniche e irripetibili incarnazioni si dispiegano, ma come terminus ad quem, singolare e naturalmente determinato, del corpo maschile. Un corpo, questo, che si vuole dotato di una forza quantitativamente maggiore e di un correlato – anche se ambiguamente argomentato – diritto all’esercizio di questa forza su chi sia costitutivamente più debole. La costruzione di un’ identità maschile “forte”, e quindi in diritto naturale di comandare, necessita di una controparte che inveri questo assunto, di un “lato oscuro” che ne manifesti la chiarezza e la verità. La “debolezza” del corpo della donna legittima l’esercizio della forza da parte dell’uomo sul suo corpo in modi che solo all’apparenza appaiono contraddittori, come la violenza e la protezione. Non a caso sono questi i poli tra cui la narrazione dominante pone la questione della violenza di genere. Convinzione di chi scrive è, invece, che i corpi delle donne siano dotati di propri accessi alla forza, anche alla forza combattente. Questi accessi sono stati in gran parte ostruiti proprio da costruzioni culturali, divenute nel tempo pratica e politica, che hanno sostituito un percorso di cosciente comprensione e sviluppo, a partire da sé, dei potenziali che i corpi delle donne possono esprimere con ideologie identitarie calate dall’alto e funzionali ad una narrazione che vuole “l’uomo” come unica soggettività compiuta e modello normativo. Anche la “soggettività maschile” così costruita appare come limitata e limitante. Se il senso della mascolinità viene ritrovato nell’esercizio dell’assoggettamento di qualcun’altra – o qualcun altro – in un atto, cioè di prevaricazione e misconoscimento, anche la possibilità di uno sviluppo di una mascolinità autonoma e plurisfaccettata viene seriamente compromesso. Nonostante la “soggettività maschile” si pensi, in questa azione prevaricatrice, come “vincitrice”, l’ordine che instaura la renderà prigioniera di una visione di sé parziale, da cui difficilmente potrà sfuggire, proprio perché significherebbe rinunciare alla propria sovranità. Ordine asimmetrico e coloniale per sua stessa natura, ordine piramidale, patriarcale. Per tale ragione si rende necessario un profondo ripensamento delle dinamiche di costruzione della relazione tra i generi che sia radicale, ovvero che ritorni alle radici, che analizzi criticamente i modi e le ragioni attraverso cui la “soggettività femminile” sia stata inferiorizzata e provi a riarticolare percorsi differenti. Si tratta, cioè, di sfidare il “senso comune” nel quale presupposti per nulla “oggettivi” sono stati assunti al livello di verità autoevidenti e articolare nuovi paradigmi. La ricerca sulla forza a partire da un corpo di donna si posiziona lungo questa direttrice.

L’operazione di rimozione della forza dal corpo della donna è una tragedia in molti atti e a plurimi livelli, che si è dipanata, con alterne vicende, attraverso secoli di storia. Molti, moltissimi i dispositivi posti in atto per trasformare l’ideologia in “natura”. Primo fra tutti proprio una definizione assolutamente parziale di ciò che si definisce “naturale” e ciò che viene detto “culturale” e forse, verrebbe da pensare, proprio questa netta cesura tra natura e cultura costituisce un punto nevralgico della questione. L’effetto che poi questa visione ha posto in atto è stata una forma di “proibizione” culturale per le donne di esercitare il proprio corpo in quelle discipline e azioni che ne avrebbero consentito la coscienza e lo sviluppo di una forza combattente. L’assunto che vuole il corpo di donna debole, quindi “poco femminile” qualora debole non si dimostri, è imbarazzante nel suo essere tautologico. Tuttavia proprio questo assunto è divenuto reale, avendo per molto tempo e in molti luoghi decretato l’allontanamento delle donne da quelle forme di coscienza pratica che lo avrebbero smentito nei fatti.

La forma di coscienza che la forza richiede è soprattutto pratica. Modalità di conoscenza in gran parte svilita nei nostri contesti culturali, essendo l’attività fisica sovente considerata qualcosa di meno degno di quella intellettuale – e comunque in rapporto dicotomico con questa – o trasformata in industria del benessere dall’evidente carattere prestazionale. Se questa dinamica colpisce la concezione dei corpi indistintamente, le modalità in cui si attua vanno ad aggravare le esistenti visione stereotipate del corpo femminile e di quello maschile. Le separazioni tra natura e cultura, tra intelletto e corpo sono produzioni culturali che hanno fondato modi di percepire e agire nella realtà, non verità assolute. Dimostrazione ne è che non sono presenti nella totalità delle culture. E forse non è casuale che sia proprio nei contesti culturali che non le comprendevano che si sono sviluppate forme filosofico-pratiche che nutrono e coltivano la forza combattente che un corpo di donna può sprigionare. Perché la forza combattente non è una sola, non ha solo i modi che una certa visione, che definirei “militarizzata” usando un felice concetto elaborato da Angela Putino, ci propone come assoluti. Come si avrà modo di mostrare, l’analisi che parte dalla forza che un corpo di donna può sprigionare condurrà a riformulare presupposti e categorizzazioni che eccederanno di gran lunga dal terreno, reale o figurato, del combattimento, andando ad investire le modalità dei rapporti tra i generi, le concezioni su cui si fondano i generi stessi, il rapporto degli esseri umani con i contesti in cui abitano, siano essi “naturali” o “antropici”, con l’organico e l’inorganico. Mostrerà che l’esercizio della violenza non è insito nella forza, ma in quella particolare concezione della forza combattente che si pensa come “forza-sopra”, soggiogante. E che è anche all’origine di una certa definizione asimmetrica e soggiogante del maschile e del femminile nell’ambito dell’ideologia patriarchista. Ciò che qui si propone non è, dunque, un triste ed inutile scimmiottamento da parte delle donne di ciò che rende “forte” il corpo di un uomo, un’ulteriore forma di militarizzazione. Al contrario, viene qui suggerito un percorso che, ripartendo da basi, radici, corpi diversi, diversamente concepiti e simbolizzati, sia in grado di dischiudere e articolare una differente concezione della forza combattente, come sviluppo di sé, non forza coercitiva.

L’accesso alla forza passa, dunque, per una donna, attraverso una destrutturazione critica di un intero mondo che si è creato a partire dalle ideologie che questo accesso l’hanno voluto occludere. E, nel contempo, attraverso la ripresa di un diverso rapporto con la propria corporeità che non sia solamente teorico, ma pratico/teorico. Che punti, ciò, a superare quella dicotomia, quel baratro in cui si perde la forza di un corpo di donna. Un rapporto differente che non parla più di dialettiche, ma di relazioni, in cui “esterno” e “interno” sono non opposizioni statiche, principi di separazione, ma momenti dinamici, fluidi.

 

Le Forze combattenti nel taijiquan

Per comprendere se sia possibile un’analisi differente dei concetti di forza e violenza, occorrerà uscire dal solco del pensiero europeo ed aprirsi ad un dialogo interculturale che possa mettere in luce ciò che qui da noi non si sia pensato. Nel far questo, si renderanno anche più chiare le motivazioni che portano a diverse “scelte culturali”, spesso adombrate dal nostro stesso essere immersi e informati dalla cultura in cui viviamo. Uno dei contesti in cui la teorizzazione sulla e la pratica della forza combattente ha conseguito punte di rara intensità è quello delle arti di combattimento dell’Asia Orientale e del Sudest Asiatico. Nell’ambito marzialistico cinese, ad esempio, diversi termini vengono utilizzati in riferimento alla forza combattente, per tradurre un concetto che noi abbiamo pensato come unico. Ciascuna di queste parole indica una diversa fonte, un differente sviluppo e diverse dinamiche in cui la forza si manifesta. Il primo, più semplice termine che viene utilizzato nell’ambito delle arti di combattimento per esprimere “forza” è 力lì. Il carattere indica un aratro di metallo. Il senso che così viene espresso è quello di un qualcosa che penetra nella terra, vincendone la sua resistenza con una sempre maggiore forza muscolare. 力 esprime, dunque, un’accezione meramente quantitativa e basica della forza, quella che in italiano si esprime con “forza bruta”. Nel significato datane nelle arti di combattimento cinesi, 力 è considerata “cieca e ottusa”, nel senso che costituisce solamente la forma più grezza e muscolare della forza. A differenza di quanto saremmo portati a pensare a partire dalle trattazioni che della forza si sono fatte nelle nostre tradizioni, questo livello della forza è il meno significativo in termini di efficacia combattente. È utile a svolgere lavori pesanti come, per l’appunto, dissodare un campo. In questa accezione, il carattere力 si ritrova in posizione radicale anche nell’ideogramma男nán, (uomo, maschile) che rappresenta la forza muscolare che sorregge un campo coltivato. Il senso che se ne deriva è che ciò che definisce il “maschile” 男nán sia sì la forza力, ma considerata nel suo primario utilizzo: quello per dissodare, vincere una resistenza senza comprendere le ragioni e le forme in cui questa resistenza si dia, preparare la terra per la coltivazione, cioè modificarla, organizzarla per renderla disponibile al suo utilizzo da parte del contadino.

Di ben diversa forma di coltivazione parla, invece, l’altro termine utilizzato per esprimere la forza: jìn 勁. La maggiore complessità di questo secondo carattere si mostra anche graficamente, presentandosi come composto da due elementi, jing巠 e . Già da una prima e rapida osservazione, possiamo cogliere che jìn 勁 includa , ma che in qualche modo la arricchisca, la trasformi. La presenza del carattere 力 all’interno di jìn 勁 evidenzia che quello di cui si parla nel caso di jìn 勁 non sia qualcosa di radicalmente separato dalla “forza muscolare bruta”, ma che la includa, che parta da essa. Non si può, cioè, rimandare alla contrapposizione a noi più familiare tra “forza muscolare” e “forza spirituale”, ad esempio, in cui le due forze si posizionano su piani separati, addirittura antitetici. Jìn 勁, invece, parla di una trasformazione, un raffinamento di . Il rapporto tra i sotto-caratteri non si limita ad una semplice giustapposizione, ma esprime un processo, indica relazioni che trasformano vicendevolmente. Il carattere che si unisce a è Jīng 巠, a sua volta composto da tre sotto caratteri: yī 一, ovvero “uno”, “intero”, “tutto”; chuān 巛, “fiume” e 工 gōng, “lavoro”, “pratica costante” (incidentalmente, è lo stesso Gōng che si trova anche nel termine Gōng fu 功夫). Il carattere jīng 巠, quindi, parla di un “qualcosa che lavora-fluendo al di sotto del tutto” – se la posizione di yī 一 al di sopra degli altri caratteri viene vista in maniera “letterale” – e viene ad indicare, ad esempio, i fiumi carsici. Ma parla anche di un “tutto”, un’unità complessiva, che “fluisce” grazie ad un “lavoro costante”: in questo senso viene tradotto anche come “passare attraverso” e quindi “oltrepassare” facendo esperienza.

Il senso che si ritrova in jìn 勁 è dunque quello di una forza che passa attraverso, fluendo, come un fiume sotterraneo, modificando ciò che incontra grazie ad un lavoro costante, una pratica, che ha permesso alla forza stessa di trasformarsi, divenendo ciò che è. La forza bruta, muscolare viene trasformata, raffinata grazie ad una pratica, un lavoro costante, che ha come caratteristica la fluidità dell’acqua, lo stesso potere dirompente di passare attraverso, di penetrare che un fiume carsico ha nello scavarsi il suo percorso nella dura roccia. L’acqua è senza forma, non è mai rigida: proprio questo le permette di vincere contro ciò che è duro. Questa è la forza che si esercita, studia e pratica nelle arti marziali, in particolare in quelle definite “nei”, interne, quali il taijiquan.

La trasformazione di in jìn 勁 determina anche un cambiamento profondo nelle caratteristiche della forza e nei modi per percepirla, accrescerla ed esercitarla. si potenzia tramite accrescimento muscolare: in ciò corrisponde più o meno precisamente alla nostra idea di “forza fisica, forza bruta”. Non abbiamo termini, invece, per tradurre jìn 勁. La tradizione delle arti di combattimento cinesi ha dischiuso e articolato un senso che a noi resta oscuro, non avendo la nostra concettualizzazione e simbolizzazione del corpo permesso un accesso a questa esperienza. In ciò non temo di affermare che la visione del corpo e della sua forza presentata nella cosiddetta “cultura occidentale”, prigioniera di una concezione meccanicistica e dicotomizzante, appare, sotto questo aspetto, come assai più limitata e semplicistica. Il corpo che si invita a liberare nel taijiquan è un organismo assai più complesso e multisfaccettato del meccanismo elettrico-idraulico-pulsionale a cui si è arreso il nostro corpo “occidentale”. Ciò di cui parla la medicina tradizionale cinese, ad esempio, non sono singoli organi connessi in un meccanismo, bensì relazioni tra elementi in rapporto funzionale tra di loro e con l’ambiente in cui sono immersi, che li attraversa. Ciò ha permesso alla fisiologia energetica cinese, in particolare nel suo declinarsi nelle arti di combattimento, di osservare in altro modo, e secondo altre direttrici, il concetto, le pratiche e le manifestazioni della forza combattente. Proprio a causa di questa “mancanza” terminologico-concettuale nella lingua italiana, risulta molto complesso fornire una descrizione della jìn 勁 che non cada nelle nostre opposizioni dialettizzanti che separano mente e corpo, natura e cultura, forza e debolezza, solo per citarne alcune. Perché, sostengo, per uscire dalla dimensione cristallizzata del senso della forza con la quale ci troviamo a confrontarci “qui e ora”, è necessario uscire dal gioco mortifero della paura, dell’orrore del vuoto, su cui molto del senso della “nostra cultura” (se di cultura al singolare si potesse parlare) si è costruito. L’analisi della forza che si compie nelle nostre latitudini si inserisce in una concezione dei corpi, del loro simbolizzarsi, della mente, della natura, della cultura, del “maschile” e del “femminile” situato e determinato. Da questa posizione, con Weil, la forza dei corpi può essere solo forza aggredente, maschile, dominante. Violenza. Ma non ovunque è così. Al variare del paradigma, cambia lo scenario. Il taijiquan si origina in Cina, nell’intreccio tra filosofia yin/yang, scuola dei wu xing, daoismo, buddhismo. A cui si aggiunge un po’ di confucianesimo. Il corpo di cui si parla, che viene pensato qui differisce molto da quello che ci hanno insegnato ad esperire. Non si tratta, infatti, di una mera “concezione diversa” del corpo, ma di un senso del corpo che si dà nell’esperienza, nel movimento. Un corpo che è energia e pensiero, in cui nulla è separato – tantomeno il pensiero o i sentimenti – ma tutto è in relazione fluida. Questo insieme di corpo-mente-spirito è lo stesso che viene presentato nelle arti mediche cinesi, come nell’agopuntura, nel tui na. E significativamente, è proprio in culture come quelle originatesi in Cina, Giappone, Corea, Vietnam che l’arte medica e quella marziale procedono insieme, sconfinando l’una nell’altra. Caso emblematico è proprio il taijiquan, l’arte del “pugno del culmine supremo”, al contempo arte terapeutica, ginnastica di lunga vita e arte marziale. Non un’arte marziale tra le altre, ma proprio arte del culmine, punto di volta. Questi elementi non sono solo giustapposti. Il taijiquan riesce a potenziare la vita proprio nel riconoscerla, corporealmente ed esperienzialmente, come coappartenente alla morte. La “cura” risiede proprio nell’esercizio consapevole e costante della forza, quella forza che può anche essere distruttrice, se sceglie di esserlo. La libertà della forza e che la forza è in grado di dischiudere è connessa alla consapevolezza, all’autocoscienza.

Come “forza fluida”, jìn 勁 oltrepassa la dimensione meramente muscolare, pur non rimuovendola completamente. Yang Jwing-Ming ricorda che ciò che differenzia principalmente e jìn 勁 sia l’impiego di qi 氣. Energia vitale, che fluisce nei corpi e tra i corpi, non solo antropici od organici, qi 氣 è uno dei principi su cui si basano moltissime scienze e discipline dell’Asia Orientale. La sua circolazione è studiata per fini terapeutici (agopuntura, massaggi, ginnastiche curative), artistici (calligrafia, pittura, cerimonia del the, arti coreutiche), marziali, ecc. In pratica, il concetto di circolazione del qi 氣 pervade quasi ogni campo delle culture dell’Asia orientale, marcando una delle più profonde differenze rispetto ai criteri interpretativi nostrani. Pensando i corpi non come “sostanze separate” più o meno animate, ma come snodi di energie che acquisiscono forme differenti, il concetto di qi 氣 supera necessariamente le divisioni radicali mente-corpo, materia-spirito, interno-esterno, natura-cultura, esseri umani-resto del cosmo. Fuori dal solco cartesiano, che riduce i corpi a mere “materie”, interpretabili solo con logiche quantitative, permette di pensare a sviluppi differenti della propria corporeità, della propria organicità psico-fisico-emotiva. Per ciò che concerne l’accesso alla forza, è proprio la capacità di convogliare il qi 氣 lungo le linee corporee interessate che segna il passaggio da a jìn 勁. Tanto più si riesce a convogliare il qi 氣 nell’azione, grazie a yi 意, l’intenzione, tanto più la forza muscolare cederà il passo a jìn 勁. Anche la può essere sostenuta dal qi 氣, ma in questo caso si parla di “jìn dura”. Il passaggio tra i due tipi di forza, come si diceva, si compie in maniera graduale, senza salti. Nel momento in cui un praticante indirizza il qi 氣 all’interno dei propri movimenti, la forza muscolare inizia il suo processo trasformativo, “autocoscienziale”, passando da azione meccanica ad attività cosciente. Per questa ragione, benchè ancora rozza, la forza muscolare unita al qi 氣 è già considerabile una prima forma di jìn 勁. Ad essere ancora più precisi, jìn 勁 è considerata come la manifestazione percepibile del qi 氣. In quanto energia, qi 氣 non può essere esperita direttamente, ma solo nel momento in cui attiva una qualche forma di dinamica. Per portare un esempio più comprensibile nella nostra esperienza quotidiana, basti pensare al rapporto tra energia elettrica e una lampadina. Non si è in grado di esperire l’energia elettrica in sé, ma solo nel momento in cui “attiva” una lampadina, diffondendo luce. Jìn 勁, dunque, è una forma di manifestazione del qi 氣. Per questa ragione non appena si chiama in causa la circolazione cosciente del qi 氣 si inizia già a parlare di jìn 勁. Ciò risulterà, al livello pratico, in un progressivo rilassamento dei muscoli coinvolti nell’azione che, a differenza di ciò si potrebbe pensare, non comporta una diminuzione, bensì aumento del potenziale offensivo e dell’efficacia combattente. Le arti marziali cinesi, soprattutto quelle interne, si basano proprio sul superamento della mera forza , considerata troppo grezza e limitata, puntando ad uno sviluppo sempre maggiore e ad un raffinamento della forza jìn 勁. Yang Jwing-Ming fornisce una chiara spiegazione di cosa significhino, in termini teorici e pratici, le differenze tra le due forze. In primis, “la proviene dalle ossa e dai muscoli, mentre la jìn 勁 dai tendini, ed è sostenuta dal qi 氣”. Ponendo l’accento sui tendini, le fibre muscolari possono rilassarsi, permettendo al qi 氣 di circolare più fluidamente. Concentrandosi sui muscoli e sulle ossa, che sono rigidi, si otterrà un tipo di forza dura che, come nell’immagine del fiume carsico, soccombe alla fluidità. Come l’acqua, infatti, jìn 勁 “non possiede né forma né struttura”. Al contrario, ha una forma chiara, evidente e misurabile. Ciò comporta un’ interessante conseguenza: la 力 di un corpo può essere, in un certo senso, quantificabile a priori, mentre jìn 勁 può essere solo percepita e autopercepita. Per questo motivo le dimensioni corporee di un marzialista, la quantità dei suoi muscoli o la dimensione e il peso della sua ossatura risultano insignificanti nei termini di efficacia combattente. Si potrebbe anche arrivare a sostenere che un corpo meno muscolato, ma con tendini più elastici, sia in grado di sprigionare una forza più incisiva. Per questo, un corpo di donna, in linea generale, dotato di più elasticità tendinea e di maggiore coordinazione psico-motoria, è più facilitato nella percezione e nello sviluppo della forza jìn 勁. Se osserviamo i corpi delle marzialiste e dei marzialisti asiatici, li vediamo asciutti e scattanti, piccoli e leggeri, assai distanti dall’immagine muscolata di un ideale combattente “occidentale”. Non solo. Il passaggio dalla quantificabilità della alla percepibilità della jìn 勁 segna il discrimine tra una prestazione fisica e un processo autocoscienziale, tra uno sport e un’arte, tra un condizionamento e una pratica di liberazione. Per questo è definita anche “quadrata”, forma che in Cina indica ottusità, goffagine, rigidità ed ovvietà; “stagnante”, ovvero incapace di rinnovarsi; “lenta”, in quanto la contrazione muscolare rallenta i movimenti, irrigidendoli; “diffusa” in quanto non indirizzata da un’intenzione cosciente. Al contrario, la jìn 勁 è “rotonda”, figura che indica la ciclicità, la rinnovabilità continua di un movimento senza che si esauriscano le energie che lo determinano; “fluida”, perché in grado di scorrere nei corpi e tra i corpi, restituendo coscienza di essi e dei rapporti che li connettono; “veloce”, in quanto l’elasticità dei tendini, non bloccati dalla contrazione muscolare, determina un movimento a frusta assai più veloce di qualsiasi pugno “duro”; “concentrata”, in quanto sa indirizzarsi con precisione, senza disperdersi. Caratteristica di jìn 勁, difatti, è di esprimersi in consonanza con l’intenzione yi 意: ciò la rende cosciente delle forme e dei modi, delle ragioni e degli obiettivi in cui si manifesta. Si sostiene, infine, che la sia smussata, cioè un arma che colpisce solo in superficie mentre la jìn 勁 è affilata, ovvero capace di penetrare in profondità, come il suo stesso nome ricorda.

 

Riconoscersi nella jìn

Lo studio teorico-pratico della jìn 勁, di come essa si sviluppi nel proprio corpo, si indirizzi e si applichi nei contesti del combattimento si mostra come arte volta ad una progressiva acquisizione di coscienza della forza che il proprio corpo-mente, preso nella sua unicità e nell’insieme delle caratteristiche che lo costituiscono, possa sprigionare. Percorso, questo, che si esplica innanzi tutto nella rimozione di quei blocchi, di ordine fisico, mentale, emozionale, culturale, che impediscono di rilassarsi, di entrare in contatto con la propria forza, con se stessi. In questo senso, le pratiche di sviluppo della jìn 勁 si considerano a buon diritto come filosofie pratiche volte all’autopercezione, alla percezione dei corpi con cui si entra in relazione, alla comprensione degli equilibri in cui ci si muove. La jìn 勁, come si è detto, è forza che si esprime nella rilassatezza, nella morbidezza e nella fluidità che solo una pratica psicofisica autocoscienziale costante e attenta può riconsegnare. Si può ben comprendere come gli scenari dischiusi da questa visione della forza siano ben differenti da quelli osservati quando per forza combattente si intenda solo la . Se la è per definizione “forza sopra”, soggiogante, separata, agita da un soggetto sopra un oggetto (come l’uomo con l’aratro), il suo impiego non porterà altro che assoggettamento, negazione dell’altrui soggettività, dominazione. Il tutto in maniera “ottusa”, ovvero non garantendo alcun tipo di coscientizzazione, ma solo confermando quella legge di sopraffazione reciproca in cui, come ricorda Weil, “nessuno è vincitore”. Forza che diviene violenza. I caratteri cinese impiegati per esprimere questo ultimo concetto, bào lì, mostrano chiaramente che la violenza includa . Bào indica qualcosa di coercitivo, distruttivo (anche di fenomeno naturale). La connotazione sempre negativa del termine bào , ricorda Campbell, declina il senso della “ottusa” lì in una direzione distruttiva. Sia nelle definizioni datene nel  Xiandai Hanyu cidian, dizionario della PRC di ispirazione maoista, che nel Taiwanese Guoyu huoyong cidian, più informato dal confucianesimo, bào lì si connette ad una sopraffazione armata, militarizzata. Nella tradizione folkorica e letteraria che gravita attorno al mondo delle arti di combattimento in Asia Orientale, la “via del guerriero” e quella del “militare” sono viste come strade opposte, come termini antitetici. Le brillanti riflessioni condotte da Angela Putino sulla radicale differenza tra “funzione guerriera” e “militarizzazione” trovano conferma nell’articolatissimo e vastissimo patrimonio culturale sulla “via del guerriero” – e della guerriera – che si è prodotto in Cina, Giappone, Corea, Vietnam lungo vari secoli. Se il militare si muove nell’ambito della , che è cieca e ottusa, la sua strada non potrà che esplicarsi nell’assoggettamento: sia della cosa/persona che viene assoggettata, sia di chi praticamente opera questo “atto di forza”, a sua volta assoggettato ad un ordine superiore. Ma il guerriero e la guerriera sono ben diversi. Inscritte nell’ordine della jìn 勁, sono figure libere, o che percorrono un sentiero di liberazione, non solo individuale. Spesso connessi ad ambiti religiosi buddhisti e daoisti (le famose figure dei monaci combattenti) e terapeutici (Hua Tuo inventa sia la medicina cinese che gli stili di imitazione degli animali che originano il Gong fu), i guerrieri e le guerriere oltrepassano le logiche diadiche delle opposizioni binarie, non accettano la logica “ottusa” della , soprattutto quando si trasforma in bào lì. E lo fanno, come si è detto, trasmutando la in jìn 勁, ovvero “trasformando il problema in soluzione”. Pensare di sopprimere la violenza astenendosi dalla forza è, nel quadro fin o qui tratteggiato, un’operazione insensata e altamente pericolosa. Trattandosi di una rimozione, più che di una “sublimazione” – per usare fuori contesto terminologie che descrivono processi a noi più familiari – l’astensione acritica dall’esplorazione della forza comporta gravi rischi di misconoscimento delle modalità delle forze stesse, delle loro differenze, quindi della possibilità di farne analisi complete che portino a percorsi di superamento delle dinamiche di violenza. Si rischia, cioè, di buttare il bambino con l’acqua sporca, ostruendo per sempre l’accesso a quel particolare percorso autocoscienziale che permette di accedere alla propria forza, trasformarla e, facendo ciò, trasformare anche i modi e i sensi delle relazioni interne ed esterne. L’acquisizione di coscienza della jìn 勁 è un percorso autocoscienza non dialettico, che si presenta come possibilità di soggettivazione non soggiogante, bensì che parte da sé e si esprima nella coscienza che il sé è sempre relazionale. L’affinità di questo percorso con i sentieri di lotta delle donne di nuovo risuona nelle parole di Angela Putino che, anche con una limitata conoscenza delle tematizzazioni dell’Asia Orientali sulle figure guerriere, aveva ben colto le possibili convergenze della “funzione guerriera” con i femminismi.

L’accesso alla jìn 勁 si attua, come si è detto, attraverso un percorso esperienziale che coinvolge la totalità della praticante, la sua dimensione corporea, intellettiva, intenzionale, sensibile, emozionale. La pratica del taijiquan insegna come armonizzare le diverse sfere dell’esistenza in un unico momento consapevole, che si ripete al ritmo di inspirazione ed espirazione. Insegna ad ascoltare il proprio corpo, non considerandolo una macchina guidata da una mente, ma come dotato di un suo proprio linguaggio e modalità di “pensiero” sensibile e sensiente. I classici del taijiquan ricordano che “la mente segue il corpo”, intendendo con ciò che l’azione non-agente, wu wei, accade solo quando l’ossessione di controllo di una parte (in questo caso la mente) sul tutto viene sciolta, dissipata. Solo acquietando la mente, i suoi progetti, le sue griglie rigide e ponendola all’ascolto e al servizio del corpo energetico, quest’ultimo può esprimersi nel suo linguaggio e articolare movimenti zi ran, “naturali, spontanei”. Solo rilassando i muscoli e tutte le tensioni che ne provocano la contrazione o l’irrigidimento più o meno volontario si può sprigionare la forza che oltrepassa come l’acqua. La rigidità muscolare è cifra, nel linguaggio del corpo, di dinamiche che possono originarsi anche in altri stati psicofisici, come quelli emozionali. Se cerchiamo di comprendere cosa significa la paura, ad esempio, dal punto di vista corporeo, sentiamo che significa battito cardiaco accelerato, diaframma che si alza e rende il respiro più corto e affannoso. La maggiore pressione sanguigna e il minor apporto di ossigeno rendono più difficili le operazioni del pensiero, anche le più banali. Significa piedi che perdono radicamento a terra, a causa dell’innalzamento del diaframma. I piedi divengono meno sicuri del loro appoggio, quindi le gambe tremano. I muscoli si irrigidiscono, impedendo il movimento. La mancata coscienza della propria forza porta a risposte “mimetiche”, in cui il corpo si irrigidisce come un cadavere e la paura, letteralmente, paralizza. Si va, cioè, nella direzione di impedirsi a priori ogni azione difensiva. Questa mancanza di risposta combattiva caratterizza l’esperienza di moltissime donne e viene sovente letta, nel contesto della “violenza di genere” come una conferma della differenza sostanziale tra un corpo maschile ed uno femminile nei confronti di un dell’utilizzo della forza combattiva. Non solo. Viene visto in ciò anche l’estraneità del corpo-mente femminile alle logiche della forza, della violenza, essendo, al contrario, il corpo femminile caratterizzato dalla predisposizione ad una “cura” che, di sua natura, contrasta con la forza. La mia esperienza, invece, mi riconsegna altro. L’osservazione da me condotta in anni di pratica e d’insegnamento mi restituisce l’immagine di un rimosso, più che di un destino. L’aver separato la dimensione riproduttiva da quella combattiva, l’averle poste come alternative l’una all’altra, ha contribuito sopra ogni cosa a rendere il paradigma una profezia autorealizzantesi. Una banale riflessione mi fa constatare che la specie umana costituirebbe quasi un unicum tra i mammiferi se ciò fosse vero. Nella gran parte delle specie, soprattutto nei predatori, sono proprio le femmine-madri ad essere più pericolose, forti e astute nel combattimento, proprio perché la loro esigenza di essere combattive si fa più impellente e vitale proprio in virtù dell’esperienza della “cura” che stanno vivendo.

Lo studio pratico-teorico della forza jìn 勁 mette in crisi il paradigma che assegna maggior forza combattente ad un corpo con ossatura e muscolatura più massiccia, caratteristiche queste associate (anche qui con grosse generalizzazioni) ad un corpo maschile. Nel contempo, falsifica la teoria che vede la forza combattente esprimersi solo nei termini di “forza soggiogante”, quindi in linea di continuità con la violenza. Questo è uno dei percorsi della forza , non della forza combattente tout court. Il processo di soggettivazione sessuata che avviene sotto il segno della forza parla necessariamente di un “soggetto” che agisce la forza sopra un oggetto che la subisce. Nell’ottica diadica in cui la forza sembra iscriversi, se il soggetto dotato di 力 è più tendenzialmente di sesso maschile, esso esprimerà la sua soggettività nella sottomissione fisica di un “oggetto –donna”. O, per meglio dire, è proprio l’atto di violenza che soggettivizza un “maschile” pensato come “forte” tramite la desoggettivizzazione di un corpo vivente, relegandolo nell’impersonalità di una funzione comune, quella di “vittima” di un’azione soggettivante maschile. Quindi, nella constatazione – in realtà teoreticamente anticipata dal senso comune – dell’incapacità di questo corpo di affermarsi contro la forza soggiogante, viene letta la conferma della verità dell’assunto stesso che priva il corpo di donna della possibilità di essere forte e combattente. La violenza, dunque, riattualizza l’ordine in maniera performativa e tautologica. La necessità della reiterazione delle violenze di genere, nelle loro varie forme, mi invita a pensare che, in un certo qual modo, questa visione parziale della forza è in parte conscia della sua limitatezza. È come se lo spettro, la possibilità di un’altra forza, venisse agitato per poter essere negato. In un’epoca in cui le donne hanno dimostrato la loro capacità di stare, allo stesso livello e differentemente, nei vari ambiti creati e colonizzati dal neutro maschile, la questione della forza combattente rimane un punto oscuro e scivoloso, perturbante direi. E non è un caso che proprio quando i movimenti e le teorizzazioni femministe hanno messo in discussione l’intero impianto delle dinamiche biopotere e della thanatopolitica, le questioni legate alla violenza di genere acutizzano la propria visibilità e infiammano i discorsi. Ravviso qui una particolare modalità della crisi negli ordini di rapporti tra donne e uomini così come si sono dati nella “tradizione culturale”: la paura “patriarcale” della messa in discussione di un qualcosa di più radicale, di un processo di soggettivizzazione psicofisica che informa le nostre culture e i nostri vissuti più di quanto immaginiamo. Processo che si invera come atto di forza soggiogante, reale o immaginario, in cui un corpo-mente pone se stesso in quanto “più forte”, ergo legittimato a distruggere, se vuole, o a proteggere, sempre se vuole. Nell’ambito della 力, non c’è posto per due soggettività, come il modello del “duello a mezzoggiorno” dei film western ci insegna.

Altre storie, invece, altri miti vengono narrati e riattualizzati ritualmente a partire dalla forza jìn 勁. Il modello che troviamo nelle storie di duelli tra marzialisti o marzialiste in Asia Orientale presenta sovente due figure che, riconoscendo reciprocamente il livello di raffinazione della forza che l’altro/a ha conseguito, si astengono dal combattere e si inchinano vicendevolmente alla maestria raggiunta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Il posto dove si sdraia il bue: dialogo

Laura Ciminelli* Maria Franca Bocchino**

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Il direttore della rivista “Olos e Logos” Lucio Sotte mi ha chiesto di scrivere un contributo per un numero speciale che tratterà di Qigong. Ti andrebbe di parlarne un po’?

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Va bene, proviamo… hai praticato stamattina?

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Sì. Al mattino pratico gli esercizi di movimento delle articolazioni e il Qigong dei Sei Suoni del m° Li Rongwei. Ho conosciuto il m° Li Rongwei a Roma nel 2004, era appena arrivato dalla Cina dove sin da bambino era stato introdotto alla pratica da suo padre e dal maestro di suo padre, del quale ci raccontava, che quando praticava “Lingzishu” sotto la neve non si bagnava, la neve non lo toccava. Per molti anni l’ho affiancato come interprete durante le sue lezioni e dopo aver sperimentato diversi metodi di Qigong, oggi l’esercizio dei Sei Suoni è il più consono alla mia persona. E tu quando hai intrapreso la pratica del Qigong?

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Ho conosciuto il Qigong circa due anni fa con la Scuola “Il soffio vitale – Formazione Qigong Roma”. In precedenza avevo avuto un’esperienza di meditazione Vipassana, un ritiro durato 10 giorni, l’ho fatto come se fosse stata una sfida, non sapevo niente di buddhismo. Eravamo circa 60 persone tra uomini e donne, separati; ci si svegliava alle quattro e mezza e si praticava per tutto il giorno, con brevi pause di colazione e pranzo. La cena non c’era; alle cinque si prendeva un infuso o mezza frutta e basta. Si continua va a praticare fino alle otto, a quel punto si ascoltavano delle letture e poi si andava a dormire. La cosa particolare di questo ritiro è il silenzio. Si sta per dieci giorni in compagnia di tante persone ma soli con se stessi. Non si parla, non ci si guarda, non si scrive, non c’è modo di andare oltre se stessi. Alla fine dei dieci giorni meditavo ad occhi aperti: sensazioni ben descritte dalle prime quattro delle “Otto formule”, emozioni che ho ritrovato praticando il Qigong, quindi…

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quindi… è una full immersion nel sé. Penso che esistano diverse vie, è giusto ampliare il discorso. Il Qigong non deve essere inteso come una setta o una religione che escluda le altre forme di evoluzione personale.

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Le tecniche di meditazione, concentrazione, rilassamento sono tante, nelle diverse culture ed epoche storiche. Mi viene in mente la sofrologia, il training autogeno, la bioenergetica, l’Alexander tra quelle più moderne, tutte hanno le basi nelle antiche meditazioni orientali. Anche la religione come la conosciamo noi, può essere una via.

 

Xiao Zhou Tian – Il circuito microcosmico

elaborazione dell’Istituto Superiore Medicina Tradizionale Cinese Villa Giada – Roma

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La pratica del Qigong non esclude la fede in una religione, non confligge con le proprie convinzioni e riferimenti sociali e culturali, si rivolge alla radice dell’essere. Negli ultimi anni ho conosciuto il m° Liu Jianshe che nelle sue lezioni affronta spesso questi temi, parlando del corpo originario della coscienza (Yiyuanti) rispetto alle sovrastrutture più esterne culturali e sociali. Nel Qigong non si prega un’entità spirituale esterna a noi, né si delega a qualcun altro l’accesso diretto alla divinità.

F

Il Qigong pone l’Uomo al centro tra Cielo e Terra. Ogni uomo è protagonista della propria spiritualità, ognuno può accedere ad essere l’Uno con la natura e l’universo, è sicuramente un modo di vedere completamente diverso. Per me rappresenta la cura di sé nella quotidianità, gestire i rapporti con gli altri, con ciò che ci circonda; se pratichi nel modo corretto viene spontaneo lo stare presenti a se stessi, risveglia sentimenti, intuizioni, stati di animo che a volte possono essere anche negativi. Se sei in una fase – come dire – di purificazione interna, ci possono essere dei momenti critici che il Qigong fa emergere, ma è sempre una fase positiva, un sentire e tirare fuori dei blocchi che possono essere sia fisici che emotivi, perché l’emozione è molto radicata nel corpo. Penso che le emozioni negative come la paura, l’ansia, la rabbia, abbassino le difese immunitarie rendendoci vulnerabili, ma credo anche che il corpo se ben nutrito si auto-cura. Il Qigong modula gli stati d’animo e scioglie i nodi che ci procuriamo con le tensioni emotive.

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Ho avuto anch’io questa esperienza. In quel “momento critico” purtroppo non c’era il maestro vicino ed ho commesso l’errore di interrompere la pratica, perché mi ero spaventata. Con il senno di poi ho capito che se avessi perseverato avrei risolto prima quel problema di salute che poi mi ha richiesto invece molto più tempo e fatica.

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Penso che la pratica del Qigong non possa rimanere una cosa isolata, a se stante, entra nella tua vita e modifica il tuo modo di affrontarla. Per esempio mentre faccio le faccende di casa penso alla postura, rilasso il bacino e le spalle, piego le gambe come se mi sedessi sull’aria, oppure mentre viaggio in metro in posizione del “palo eretto” gioco mantenendo l’equilibrio, senza poggiarmi. Insomma, evito di contrarmi, cerco di essere presente, di ascoltarmi.

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“Se hai capito cos’è il Qigong, potrai insegnarlo il giorno dopo”: è una citazione del m° Liu. Credo che si riferisca a questo. Capire cos’è il Qigong non dipende da quante nozioni hai accumulato o da quale livello di esecuzione della tecnica hai raggiunto, ma da come lo vivi personalmente. Per questo diffido da coloro che assolutizzano una forma o un’interpretazione del Qigong. Nel Qigong non dovrebbero esserci dogmi né circoli chiusi.

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Sì certo, bisogna darsi del tempo per fare esperienza. Non sempre riesco a concentrarmi come vorrei, i pensieri disturbanti mi distraggono, eppure comunque dopo mi sento meglio, più serena, più attiva. Mentre quando pratico con scioltezza sento dei piccoli gorgoglii nella pancia, come dell’acqua che si sposta, oppure alcune vertebre fanno “tock” come se si riallineassero. Come è iniziato il tuo percorso?

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Ho avuto il primo contatto con il Qigong nell’88, quando ero impiegata presso Radio Pechino, un giorno i miei colleghi mi invitarono ad andare a teatro a partecipare ad un incontro con una Maestra di Qigong che “emette il Qi”. Ho capito quel giorno quanto è importante per i cinesi il Qi. L’esistenza del Qi non si può mettere in dubbio, è come se qualcuno ci dicesse che l’aria non esiste; è un elemento al quale concettualmente non si può rinunciare.

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Al ritorno in Italia? C’erano gruppi di Qigong all’epoca?

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Non molti, tuttavia nel ’90 riuscimmo a radunare un gruppo di persone interessate e organizzare un viaggio in Cina dove incontrammo il maestro Xia Songquan a Chengde, una cittadina a nord di Pechino, residenza estiva degli imperatori, dove a migliaia e migliaia di chilometri da Lhasa trovi le pagode e i centri di spiritualità dell’antico Tibet. Ci parlò dei tre centri importanti che collegano il nostro corpo con il Cielo, la Terra e l’Uomo. Gli esercizi erano molto semplici e consistevano nel concentrare il Qi del cielo nel centro della fronte, il Qi della terra nel ventre, il Qi dell’uomo nel cuore. Fu una scoperta che mi aprì un mondo. Negli anni ho capito che il Qigong è l’anima della Medicina Tradizionale Cinese ed entrambe hanno origine dalla filosofia Yin Yang.

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E quindi anche dall’Yi Jing?

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Sì. A questo proposito, penso che la partecipazione al Laboratorio Taomaturgia sia una parte centrale della mia ricerca . Si tratta di un progetto artistico di Gianfranco Ucci per la realizzazione dei Sessantaquattro Esagrammi a colori iniziato nel 2006. Il mondo dell’arte è stato tra i primi a recepire il messaggio della cultura orientale, e non penso sia un caso.

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Anche per me il Laboratorio è stato una rivelazione. Gianfranco è riuscito a riaccendere la mia curiosità e la mia creatività, mi sono ritrovata in un mondo di geometriche simmetrie nello studio della mappa del cielo anteriore di Fu Xi, alla scoperta di quello che questo antico codice sorgente della conoscenza ha ancora da rivelarci. Studiando quali fossero i colori che potessero rappresentare il mutamento mi sono resa conto di quanti studi siano correlati agli Esagrammi, dagli indirizzi binari informatici al DNA… Mi sono persa… stavi dicendo che il Qigong è l’anima della MTC. In che senso?

L

La medicina cinese nella storia si è sviluppata a stretto contatto con la scuola taoista. In particolare, le teorie e le tecniche di coltivazione del principio vitale Yangsheng sono direttamente collegate alle teorie e ai metodi di pratica di lunga vita della scuola taoista. Con il massaggio, l’agopuntura e altre tecniche si interviene sul Qi dall’esterno del corpo, nel Qigong dall’interno. Nel ’98 con il dott. Lei Zhengquan, direttore del reparto di agopuntura dell’ospedale MTC di Xi’an ho partecipato ad una lezione del primario dell’ospedale che spiegava ai medici come percepire il Qi del paziente attraverso l’ago per intervenire sul flusso energetico. Spiegava come ottenere la sensibilità nelle dita per percepire lo stato del Qi del paziente. Secondo me se non si ha una pratica personale di Qigong è più difficile raggiungere questo risultato.

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Sì certo, perché altrimenti non ti ricarichi, non ti rigeneri, perdi la sensibilità dell’ascolto. È la base per lavorare con l’energia… capire, percepire, condurre il Qi. Facciamo una pausa di pratica?

L

D’accordo. Il m° Li Rongwei ci ha raccontato che per gli antichi per la pratica era sufficiente lo spazio dove si sdraia un bue.

 




Le testimonianze dei partecipanti ai corsi di qigong di Civitanova Marche

I partecipanti ai corsi di qigong di Civitanova Marche Anna Tartufoli, Olga Costanzo, Gina Sebastiani, Ivana B., Caterina P., Alessandra Papa, Alberta Paoletti, Gemma Rosati, Luigi Burini, Gilda Vesprini, Elisabetta B., Augusta Lelli, Bruno Tinto, Cirò, Anna Maria Scocco, Lorena Nicolai, Paola Gabrielli, Franco e Nazzarena, Laura Valentini, Rosanna Compagna

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Come anticipato nell’editoriale della rivista, questo numero di Olos e Logos l’ho voluto dedicare globalmente al qigong ed a questo progetto pilota che festeggia il suo 20° compleanno nel 2017.

Sono convinto che la sua storia vada raccontata perché, in base ai brillanti risultati ottenuti, esperienze analoghe possano essere avviate in Italia per favorire – tramite l’integrazione delle medicine – il benessere delle popolazione delle nostre città e dei nostri paesi!

Ho chiesto ad altri colleghi medici che hanno avviato nelle loro città di residenza corsi analoghi a questo di Civitanova di inviarmi degli articoli che raccontassero e commentassero la loro esperienza. Molti hanno risposto a questa mia sollecitazione e li ringrazio di cuore per il loro contributo.

Ho chiesto anche agli attuali “partecipanti” dei corsi di Civitanova di inviarmi le loro impressioni, sensazioni relative allo loro esperienza e le ho raccolte alla fine di questo numero della rivista.

Vale realmente la pena di leggerle: si va dalla poesia in vernacolo alle rime in lingua, dalle considerazioni storico-filosofiche, alla descrizione degli effetti benefici ottenuti. Insomma una vasta gamma di commenti che nel complesso esprimono un senso di soddisfazione ed anche gratitudine per l’avvio e la prosecuzione di questa iniziativa.

Anche molte delle foto che illustrano questo fascicolo di Olos e Logos sono il risultato della vena artistica di alcuni partecipanti ai corsi.

Ringrazio tutti di cuore e li aspetto all’inaugurazione dei corsi del prossimo anno.

Le testimonianze

Sono ormai al mio terzo anno di partecipazione ai corsi di quella che tra me continuo a chiamare  semplicemente “ginnastica” cinese, anche se il termine è sicuramente riduttivo se riferito a quello che comunemente si intende con la parola “ginnastica” nel mondo occidentale. È un appuntamento per me importante che si ripete due volte l’anno e che vorrei non subisse mai interruzioni.

Perché la ginnastica cinese mi piace tanto e la considero davvero speciale se la confronto con le altre mie esperienze di ginnastica tradizionale?

La considero speciale perché è un’educazione all’armonia, alla lentezza purtroppo così estranea al mondo di oggi, alla concentrazione, alla riscoperta di sé come unità fisica e mentale.

Mi piace la dolcezza vera dei movimenti che nella loro completezza e complessità coinvolgono tutto il corpo, ma costringono anche ad una riflessione profonda su quanto si sta facendo che va al di là del puro esercizio fisico.

La bellezza e l’armonia dei movimenti che diventano danza, insieme al senso di benessere che ne deriva, sono obiettivi non facili da raggiungere e soprattutto non immediati, ma la professionalità e la competenza di chi guida il corso svolgono in questo un ruolo determinante.

Anna Tartufoli

 

Il mio nome è Olga Costanzo, è il terzo anno che partecipo con molto piacere al corso di qigong, nella sede del centro civico di Fontespina, via Saragat.

Sono una ex insegnante di educazione fisica o come si chiama oggi, scienze motorie.

Ho 70 anni e fino a tre anni frequentavo una palestra, non ho mai lasciato la mia attività preferita, perché da quando sono andata in pensione ho continuato a fare attività motorie.

Alcune circostanze, con mio grande dispiacere, mi hanno costretto a smettere di frequentare la palestra.

Appena ho saputo di questo corso che si svolgeva sotto casa mia, mi sono iscritta; ero molto curiosa di vedere in cosa consisteva questo qigong.

Fin dalle prime lezioni ho capito subito che l’impegno per coordinare bene la respirazione con il movimento e lo spostamento dell’energia era impegnativo e molto interessante.

Io sono una persona dinamica ed ho sostituito il movimento della vecchia palestra con il cammino sostenuto; il qigong mi sta donando invece quella calma e concentrazione su me stessa, intesa come percezione di sé non solo dal punto di vista muscolare, ma anche degli organi interni.

L’energia che si può convogliare attraverso questi movimenti e automassaggi nei punti giusti e dove è utile, è piacevole e gratificante. Capisco che non è facile per noi occidentali abituarci a concepire il corpo come una unità, con l’energia che è contenuta in esso e lo spirito che lo anima.

Questa disciplina così come ci sta insegnando la signora Fernanda è bellissima, lei è molto brava e paziente perché mentre insegna fa gli esercizi insieme a noi e li spiega nei minimi particolari.

Vado molto volentieri alla lezione, ed ogni volta imparo qualche particolare in più, non si finisce mai di imparare….ed essere una allieva, seppur vecchia, è molto piacevole. Grazie al dott. Sotte per tutto ciò che ha fatto e farà ancora, così anche grazie alla nostra cara insegnante Fernanda.

Olga Costanzo

 

Ho iniziato il corso il 26 settembre 2016, per me è il primo anno. Sono quattro le lezioni a cui prendo parte e un po’ di giovamento l’ho sentito. Mi si sono sciolti i muscoli che erano un po’ legati. Spero che per quando finisca sto un po’ meglio. Per ora continuo e alla fine del corso vedrò se c’è stato giovamento e deciderò se continuare. Per ora è tutto, più in là vedremo.

Sebastiani Gina

 

Io sono Ivana di anni 63. Sono quasi quattro anni che partecipo al corso di qigong e mi trovo bene.

Ivana B.

 

Io mi chiamo Caterina, ho 72 anni e da 15 anni partecipo al qigong, a me piace e lo consiglio.

Caterina P.

 

Questa ginnastica mi piace perché mi richiede tante piccole attenzioni che credevo scontate nei movimenti giornalieri, invece facendoli con rilassamento, la respirazione e la concentrazione, mi danno un senso di completezza.

Verifico ogni volta, la dove mi sbaglio con l’esercizio o che non riesco a farlo bene, le mie lacune personali, perciò mi porta a perfezionarmi.

Un grazie di cuore a chi mi ha dato l’opportunità di conoscere questa disciplina.

Grazie anche alla bravissima insegnante.

 

Ho intrapreso a frequentare questo corso di ginnastica cinese (come si vuol dire) stavo facendo già ginnastica di postura, ho incontrato un’amica collega di lavoro dicendomi di provare a frequentarla. Sono andata dal comune ad iscrivermi a settembre 2014. In questo momento posso dire solo grazie al dott Sotte che ha promosso questa iniziativa e a Fernanda.

Grazie

Alessandra Papa

 

Sono una signora di 70 anni.

Da ormai quattro anni frequento i corsi di ginnastica cinese che si tengono due volte a settimana nel mio quartiere.

Sono molto contenta perché ho imparato dei movimenti che mi aiutano a stare meglio fisicamente, stimolando con i massaggi alcuni punti del mio corpo.

Inoltre questi corsi rappresentano per me anche un punto di ritrovo e di socializzazione con persone della mia età.

Ringrazio il dottor Sotte e l’insegnante Fernanda per questa opportunità che mi hanno offerto

Alberta Paoletti

 

Mi chiamo Luigi Burini ho 67 anni, sono nato e abito a Civitanova Marche.

Sono venuto a conoscenza di questa disciplina “qigong” (ginnastica cinese) che organizzava il Comune di Civitanova tramite il passaparola da una amica.

Questo è il quarto anno che frequento questo corso e devo dire che ne sono sempre più entusiasta perché è un tipo di ginnastica fatta di movimenti lenti ed armoniosi del corpo, combinata con la respirazione, che mi trasmettono un’energia ed un equilibrio psicofisico unici.

La ginnastica cinese mi ha dato anche l’occasione di farmi degli amici, di socializzare, cosa molto importante per me che sono in pensione ormai da dieci anni e di fare ginnastica tutto l’anno così da tenere non solo il corpo ma anche la mente occupati.

Tutto questo grazie al dott. Sotte.

Cordiali saluti

Luigi Burini

 

La mia esperienza della ginnastica cinese è iniziata da circa 6 anni, in un periodo di sospensione tra salute e malattia, nel senso che si trattava della fase in cui il paziente è ancora considerato a rischio ma prossimo alla guarigione.

Devo dire che per me la malattia è stata un’opportunità di rinascita in quanto ho scoperto potenzialità inaspettate sia del corpo sia della mente, come la capacità di adattamento alle aggressioni subite dal fisico, una maggiore attenzione alle proprie esigenze e quindi, la conseguente ricerca di un miglior benessere psico-fisico.

In questa prospettiva ho intrapreso il percorso della ginnastica cinese, apprendendo, o almeno provando ad apprendere, in questi anni l’esecuzione di esercizi per attivare un respirazione profonda e rilassante, per risvegliare l’energia e visualizzare la circolazione, per concentrarsi sui suoni e sui movimenti benefici per i nostri organi, per muoversi armoniosamente senza forzature, favorendo così la riduzione delle tensioni ed una maggiore vitalità.

Penso tuttavia di avere molta strada da fare nel perfezionamento dei meccanismi per utilizzare al meglio l’energia positiva, per raggiungere il rilassamento ottimale, anche nell’ottica di prevenire e curare alcune patologie, il tutto finalizzato ad ottenere il miglior equilibrio individuale inserito in un contesto universale, ma non c’è fretta, poiché si tratta di una attività fisica che prescinde da limiti di età!

Vorrei infine sottolineare un aspetto positivo indiretto degli incontro tra i partecipanti al corso, che consiste nella possibilità di condividere l’esperienza con altre persone, di facilitare la comunicazione ed anche di creare nuovi rapporti di amicizia, come ho potuto sperimentare in questi anni.

Concludo queste mie riflessioni con un grazie di cuore all’insegnante che, con competenza e pazienza, ci trasmette le sue conoscenze.

Gemma Rosati

 

Sono più di 25 anni che pratico la ginnastica cinese e mi trovo bene con il gruppo di lavoro del dott. Sotte. Gli esercizi che eseguiamo fanno bene al mio corpo, infatti quando si interrompono durante il periodo di pausa, si nota subito la differenza.

Ringrazio sentitamente il dott. Sotte e Fernanda Biondi

Vesprini Gilda Breve riflessione sulla pratica del qigong.

Frequento i corsi di qi gong da circa due anni. Sapevo da tempo dell’esistenza di questa attività motoria di origine cinese proposta dal dott. Sotte a livello cittadino, così quando sono andata in pensione ho deciso di provare. Ho sempre frequentato poco le palestre, ma qui mi sono trovata subito a mio agio perché l’obiettivo non è tanto il potenziamento muscolare quanto il miglioramento del rapporto fra la mente e il corpo attraverso degli esercizi che ci vengono spiegati e proposti dalla nostra istruttrice Fernanda Biondi. Le nostre lezioni si tengono due volte alla settimana e durano circa un’ora, ma non è difficile memorizzare le sequenze e ripeterle anche a casa.

Gli esercizi sono organizzati in sequenze di percussioni dei vari organi, massaggi dei meridiani, oscillazioni delle braccia, rotazioni delle articolazioni, allungamento dei muscoli e sono sempre intervallati da esercizi di respirazione profonda e di visualizzazione dell’energia che scorre lungo i meridiani per il riequilibrio yin-yang.

Sono movimento semplici ed armoniosi che richiedono però una postura corretta, una certa concentrazione e il tentativo di visualizzare l’energia che scorre lungo i meridiani. Abbiamo anche imparato alcuni passi per il riequilibrio yin-yang ed esercitato dei suoni che possono alleviare disturbi che interessano il fegato, il cuore, il polmone e gli altri organi. La respirazione ha un ruolo fondamentale in tutto questo e il respiro lento e profondo consente una buona ossigenazione e regola il battito cardiaco allevando eventuali stati d’ansia.

Spesso si comincia con una serie di esercizi di massaggio del viso, degli occhi, della testa e del collo, che sono molto utili in caso di mal di testa o di contrattura dei muscoli cervicali. Altri esercizi, che servono per allungare la colonna vertebrale e dei muscoli del dorso, hanno dei nomi affascinanti che suggeriscono immagini poetiche e rimandano alla cultura orientale, come ad esempio “sostenere il cielo con le dita”, “raccogliere le perle dal fondo del mare”, “la fenice si libra nell’aria” o “il drago si avvinghia lungo la colonna”. Ho notato che ogni volta che eseguo tutta la serie degli esercizi mi sento molto bene fisicamente, l’umore migliora e ho una carica di energia che dura per buona parte della giornata. Inoltre, sento tutte le articolazioni sciolte e i muscoli meno contratti.

Penso di avere intuito solo alcuni degli effetti positivi di questa ginnastica, ma la mia breve esperienza mi suggerisce di continuare e di approfondire la conoscenza di questo approccio dolce al mantenimento della salute e del benessere della persona nella sua interezza

Grazie per avermi introdotto a questa disciplina.

Elisabetta B.

 

Carissima dott.ssa Fernanda, prima di tutto voglio farle i complimenti, lei è bravissima e direi per noi di una certa età ci vuole tanta pazienza e a lei non manca, quindi mi fa sentire a proprio agio. Sento che questo tipo di ginnastica, seguita da tanti movimenti armoniosi, è adatta, e fa bene al mio fisico, mi piace tantissimo.

Io spero che si ripeta ancora per tanti anni e di essere sempre presente.

Grazie di cuore.

Lelli Augusta

 

È con molta curiosità, dopo circa 20 anni di pratica yoga, che ho aderito all’invito a partecipare al corso di ginnastica cinese per anziani organizzato dal Comune su proposta, direzione e collaborazione del dott. Lucio Sotte specialista in medicina tradizionale cinese.

Scopo dell’iniziativa: migliorare e contrastare le cattive abitudini posturali, combattere lo stress, prevenire le malattie favorendo la forma fisica e quindi migliorare la qualità della propria vita.

Una serie di esercizi di lavoro sull’energia e sul respiro, idonei al mantenimento della salute psicofisica ed allo sviluppo del qi (energia vitale), appaiono all’esterno come movimenti fluidi e lenti, abbinati al respiro, internamente visualizzano e guidano il passaggio del qi nei principali meridiani.

In sintesi, lo svolgimento degli esercizi di difficoltà progressiva coinvolgono il controllo del corpo, del respiro, del pensiero e delle emozioni per il ripristino delle funzioni carenti per lo sviluppo di facoltà latenti.

La mia personale esperienza, trascorsi quasi cinque anni di pratica, conferma l’apporto di tutti i benefici della più nota ginnastica posturale unendoli alla serenità ed alla calma consapevolezza che si ottengono con la costante partecipazione, la scomparsa dei dolori e contratture spesso dovute all’età e vita sedentaria, la stabilizzazione dell’umore, benefici che oltre al benessere psicofisico della propria vita individuale nutrimento e risorsa nelle relazioni con gli altri.

Bruno Tinto

 

La ginnastica cinese è costituita dall’insieme di esercizi fisici con lo scopo di mantenere l’elasticità del corpo cioè l’efficienza dei muscoli e delle articolazioni soprattutto per chi fa vita sedentaria (3° età). Tale ginnastica per le persone anziane è appropriata poiché richiede movimenti lenti e ben studiati, in modo che i muscoli e le articolazioni vengono giustamente sollecitati e rinforzati a vantaggio di tutto l’organismo e perché il corpo acquisti e mantenga un assetto armonico.

I movimenti delle braccia, le flessioni e torsioni del busto, gli esercizi per mantenere elastica la spina dorsale, i piegamenti delle gambe, gli esercizi di respirazione consistenti in ispirazioni ed espirazioni nasali, si ha così un completo ricambio dell’aria contenuta nei polmoni e nello stesso tempo vengono attivati i muscoli toracici.

Un plauso all’amministrazione comunale che permette ad una vasta categoria di persone anziane di poter beneficiare di tale attività.

Personalmente è una buona occasione non solo per tenere il fisico più efficiente ma anche un momento di incontro di amicizia e socializzazione.

Cirò

 

È dal 2009 che frequento il corso di ginnastica cinese, mi trovo molto bene, è un momento di incontro con persone che conosco da anni e con persone nuove che frequentano il corso. Chi l’avrebbe detto che avrei seguito con entusiasmo un corso di ginnastica! Si di ginnastica cinese, fa bene al corpo ed alla mente.

Quando ho iniziato la più anziana allieva aveva 82 anni. Spero di poter continuare a poterla frequentare ancora per altri anni.

Anna Maria Scocco

 

Qi Gong.

È capitato una mattina mentre sola e pensierosa me ne andavo a far la spesa.

Passando per il parco, che a dir poco, è molto bello

ho visto delle signore formare un capannello.

Poste in cerchio, l’una avanti all’altra si muovevano lentamente rilassando corpo e mente.

Incuriosita, lo sguardo su di loro ho posato

e a distanza, per un po’, ho osservato.

Proseguendo per il mio percorso di programma ho pensato forse è bene che io mi fermi!

Al ritorno davanti a loro son passata. Neanche a dirlo apposta!

Una signora con lo sguardo mi ha notata

e all’istante sono stata catturata.

Ho accettato, di buon grado,

il suo invito e il risultato è stato molto gradito.

Nel loro gruppo sono entrata

e una bella amicizia si è creata.

Mi hanno guidato in un mondo sconosciuto fatto di suoni e di silenzi, dove poter ascoltare, ad occhi chiusi, i rumori invisibili del corpo.

Ora con ansia aspetto il suono del gong

che mi porta con piacere a frequentare il “qigong”

Giuliana

 

Egregio dott Lucio Sotte, sono Beccerica Franco, sono diversi anni che io e mia moglie Rossi Nazzarena frequentiamo i corsi di ginnastica cinese. All’inizio eravamo poco convinti del benessere che avrebbe portato, invece man mano che la facevamo ci rendevamo conto che questo tipo di ginnastica fa stare bene sia il corpo che la mente. Perciò ringraziamo lei che l’ha promossa, l’insegnante Fernanda che è bravissima, il Comune di Civitanova Marche che ce la fa gratuitamente. Con la speranza che continui ancora per tanti anni

Franco e Nazzarena

 

Faccio parte del gruppo di ginnastica cinese di Fontespina, mi piace molto la ginnastica cinese, ti fa stare bene con te stesso e con gli altri.

Mi piacciono tutti gli esercizi ma in particolare il tiao shi non so come si scrive, che si fa all’inizio e durante tutti gli altri esercizi. Mi piace anche il massaggio lento, la fenice e i passi insomma tutto mi piace, mi piace anche l’istruttrice, brava e severa quando co vuole. Non so che altro scrivere, spero sia sufficiente. A me ha dato tanto fare la ginnastica per dei problemi che avevo.

Nicolai Lorena

 

Mi chiamo Nazarena, faccio ginnastica cinese da circa tre anni nella palestra in via Saragat a Civitanova Marche. La mia impressione è stata all’inizio negativa perché non credevo a quei movimenti per me incomprensibili. Andando avanti ho capito però che mi stavo sbagliando, perché ogni giorno che passa scopro miglioramenti sul mio corpo, tanto che il periodo che non la posso fare mi manca molto e la considero vivamente a tutti.

Spero che si possa continuare sempre e ringrazio Fernanda per la pazienza e la passione che mette nel suo lavoro.

Ringrazio altresì il dott. Sotte che ha avuto la bella idea di diffondere questa pratica e spero che gli organi preposti non ci tolgano questa possibilità

Nazarena

 

Una sensazione di benessere è quello che mi da fare il qigong. Ripetere nell’arco della giornata il rilassamento, la respirazione con l’energia mi risolvono momenti di stress e situazioni urticanti.

Ho ricevuto i complimenti da un chirurgo durante un piccolo intervento in anestesia locale.

La ricetta del qigong….al bisogno q.b

Queste righe in dialetto civitanovese:

Al dott. Lucio Sotte

Mi chiamo Rosanna, ho 55 anni, ho iniziato questo corso di qigong aperto agli anziani. Prima d’ora ero entrata in contatto con altre realtà, però non mi hanno soddisfatta. Mi sono già resa conto che sono questi gli esercizi che cercavo e che desideravo da tempo. Ciò che apprezzo di più sono gli esercizi legati ai sei suoni, perché danno armonia, salute e mi aiutano a rilassarmi. Ritengo che tutti gli esercizi che stiamo facendo siano semplici e molto efficaci. Aiutano a migliorare il benessere fisico e psicologico. Sono movimenti lenti dove la respirazione e la concentrazione sono importanti. Sono validi per tutti e soprattutto per gli anziani. Posso dire che mi aiutano a staccare dai problemi e dai pensieri. Personalmente mi danno energia e non mi stancano.

Spero che questa esperienza che ormai si ripete da quasi 20 anni, possa proseguire per altrettanti. È una fortuna che tutto ciò sia nato a Civitanova Marche dove risiedo.

Voglio ringraziare l’ideatore di questo corso “ginnastica cinese” o “qigong”, il dott. Lucio Sotte e i suoi collaboratori.

Un saluto grandissimo e un grande augurio perché tutto ciò possa proseguire nel tempo.

Con affetto Rosanna Campagna

 

Mi unisco al coro dei ringraziamenti.

Alla fine di queste testimonianze credo sia indispensabile un ringraziamento particolare a Fernanda Biondi, mia assistente di studio, che negli ultimi anni ha condotto e continua a condurre i corsi di qigong del Comune di Civitanova. Senza la sua dedizione, competenza, passione questa esperienza non sarebbe proseguita e non avrebbe realizzato i brillanti risultati che queste testimonianze ci hanno raccontato

Lucio Sotte