La mente elastica nelle arti marziali giapponesi

Paolo G. Bianchi*

C’è il silenzio della mente che non è mai toccata da alcun rumore, da alcun pensiero o dall’effimero vento dell’esperienza. Questo è il silenzio innocente, e pertanto infinito. Quando c’è questo silenzio della mente, da esso scaturisce l’azione e questa azione non è causa di confusione o infelicità”.

Jiddu Krishnamurti ! “Non è la specie più forte o la più intelligente a

sopravvivere ma quella che si adatta meglio al cambiamento”.

Charles Darwin ! Oggi più che mai abbiamo bisogno di stimoli

positivi e proattivi perché la vita di tutti i giorni è sempre più frenetica e richiede un costante e veloce adeguamento delle nostre risposte. Questa situazione produce nelle persone uno stato di continua tensione e un’ansia da risultato della prestazione come mai prima nella storia. Tutti ci rendiamo conto che sia nel mondo del lavoro che in quello delle relazioni personali ci giungono stimoli continui per cambiamenti veloci e per immediate risposte agli eventi. Il tempo, che prima, soprattutto in certi ambiti, aveva un valore relativo, ora è totalmente azzerato. Questa situazione crea un profondo stato di stress sia nell’emittente che deve subito trovare soluzioni, che nel ricevente che ha aspettative sempre più alte. A ciò si aggiunge la normale propensione delle persone a non voler essere colte di sorpresa, ad essere pronte e preparate ad ogni evento e a reagire

immediatamente così da poterne uscire nel modo più appropriato e soprattutto vincenti.

Nessun aspetto della vita pubblica o privata è ormai esente da questa frenesia: adulti, adolescenti e bambini sono pieni d’impegni che vanno ben oltre alle normali attività di ogni giorno e gli anziani, sempre più in salute fisica e mentale, sentono il dovere morale di impiegare tutto il loro tempo in azioni sociali o simili. Nessuno si sente più escluso dal vortice del fare.

È intuitivo comprendere come tutto questo sia lontanissimo dai bioritmi che la natura ci ha consegnato quando siamo venuti al mondo; è proprio da qui che nasce e si sviluppa lo stress che viviamo e che sperimentiamo ogni giorno. Le modalità che possono aiutarci ad uscirne sono tante ed è proprio per questo che molte persone, soprattutto negli ultimi anni, scoprono o riscoprono filosofie e stili di vita che fino a qualche tempo fa erano ben lontani dalle nostre concezioni tipicamente europee. Il mondo delle discipline bionaturali si presenta ampio e variegato e sta cercando di dare risposte a tutti i gusti e a tutte le tasche. È ormai assodato il continuo rifiorire di corsi che vanno dalla meditazione, allo yoga, alle arti marziali di ogni genere. Anche la medicina occidentale sta dando forti segnali di attenzione a tutte queste discipline.

Come dicevo poco sopra il mondo delle discipline bionaturali è vastissimo e per questa ragione mi soffermerò su alcuni concetti tipici delle arti marziali giapponesi, eredità dello spirito dei Samurai, presenti nel Kenjutsu (arte dell’uso della spada) e nella pratica dello Jaido (tecniche di estrazione e taglio con la spada), ma comuni anche in discipline più note quali Judo, Karate, Kendo.

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Come vedete, quando parlo di queste arti le definisco discipline in quanto solo chi pratica in modo serio e costante può ottenere i risultati aspettati: serve quindi una scuola, un codice di comportamento ben preciso dentro e fuori di essa e soprattutto essere accettati sotto la guida di un maestro; figura fondamentale perché incarna la tradizione e gli aspetti che la disciplina praticata rappresenta.

Il fai da te, non è assolutamente previsto in quanto gli aspetti teorici e quelli pratici si fondono tra loro e devono essere affrontati man mano accompagnando la maturazione dell’allievo nella continua ricerca e nel miglioramento. L’obiettivo è quello di compiere di ogni gesto un atto destinato a rimanere per sempre.

Ora, tutti ben sappiamo che questo è impossibile; ne erano altrettanto ben consci i samurai medievali quando si preparavano alla battaglia o dovevano risolvere qualche diatriba amministrativa o di giustizia. Quello che ci insegnano con la loro affascinante filosofia è vivere il momento presente gestendo in modo adeguato le emozioni e, soprattutto, vincendo le paure per esserne liberi.

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La mia riflessione vuole soffermarsi in questi ambiti perché il mondo che dovevano affrontare i samurai non è così diverso dalla nostra realtà di ogni giorno: la necessità di dare risposte coerenti ed immediate, ora come allora, è fondamentale e fa la differenza.

Certo nessuno oggi rischia la vita fisica, ma ponendol’accentosuunacontinuaperformance da mantenere e, non avendo molte persone il senso della disciplina tipica dei samurai, forse è il caso di aprire qualche riflessione che possa essere utile per la vita di tutti i giorni.

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Taisen Deshimaru, monaco buddhista giapponese scomparso negli anni ‘80, sosteneva che “le possibilità del nostro corpo e della nostra mente sono limitate: è la sorte della condizione umana” e la via da percorrere per riuscire a superare questo stato è racchiusa nei segreti del Bushido (traducibile come “la via del guerriero”).

Il Bushido è un codice di condotta morale, scritto in Giappone nel VII secolo, con lo scopo di aiutare i samurai (classe politica e amministrava dominante nel Giappone di quegli anni) a svolgere al meglio il loro compito; gli autori sono diversi e differenti le epoche.

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Nel testo vengono affrontati molti aspetti della vita pratica e della loro gestione, ma quello su cui i maestri maggiormente si focalizzano è aiutare il samurai a vincere le paure, soprattutto della morte, attraverso un allenamento duro e costante non solo fisico, ma interiore rendendolo un uomo unico nel suo genere sia in tempi di guerra che in quelli di pace: un uomo

quindi altamente flessibile, capace di passare dal campo di battaglia ai problemi della corte, dalla gestione dell’amministrazione all’arte e alla poesia con estrema facilità e competenza in un multitasking che oggigiorno invidieremmo senza alcun dubbio.

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Il Maestro di spada Yagu Munemori (1571 – 1646) nel suo trattato Heiko Kadensho si sofferma su tre punti fondamentali per acquisire flessibilità: “Il ponte della scarpa” ovvero la necessità di conoscere in modo approfondito le tecniche principali, “La spada che dà la morte” cioè la psicologia con la quale affrontare l’avversario, “La spada che dà la vita” dove enuncia il concetto della “Non spada”. Questo pensiero è altamente innovativo: il praticante deve essere prima di tutto abilissimo nel maneggiare ogni genere di arma, ma per diventare un uomo autentico deve saper trascendere la tecnica. Come? Imparando a eseguire senza l’intervento della mente.

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Sempre secondo le teorie del Maestro Munemori la mente rappresenta l’insieme dei concetti razionali e questi producono sempre nell’uomo conflitti e interferenze. Il praticante invece deve raggiungere uno stadio tale nella sua capacità di concentrazione da annullare totalmente la pratica ed essere in grado di agire in modo spontaneo senza pensare.

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I suoi suggerimenti per coltivare la capacità di concentrazione vanno chiaramente a coinvolgere ambiti diversi: “Evitare sempre i conflitti con gli amici, saper discernere i principi di una relazione” ma anche “Allarga la tua conoscenza a tutte le cose” dove l’insegnamento vuole essere al comportamento degli uomini e al loro legame con le cose possedute.

E ancora “Quando nella tua mente non è rimasto più niente tutto diventa più facile (…) quando hai praticato indefessamente e nessuna delle pratiche in cui ti sei esercitato rimane nella tua mente, la mente vuota è il cuore di tutte le cose. (…) Per raggiungere questo stato devi praticare, se ti addestri al meglio l’addestramento scompare, questo è il segreto di tutte le vie”.

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Dunque per compiere il primo passo verso una mente elastica bisogna innanzitutto saperla svuotare. Il principio è molto vicino alle filosofie buddhiste – zen dove si insegna il totale distacco da cose e persone per vivere più sereni e soprattutto per vincere le delusioni che ogni senso del possesso porta con sé. Infatti in un passo del suo trattato, Munemori enuncia: “L’attaccamento è ciò che chiamo malattia. L’attaccamento è aborrito nel buddhismo (…) Chi pratica la Via (delle arti marziali) non può essere certo considerato un maestro se, pur padroneggiando le tecniche, non si è ancora liberato dall’attaccamento.”

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“Lascia libera la mente, non permetterle di fissarsi su un qualcosa, ma ricentrala infallibilmente a te”. Questo passaggio mi ha sempre colpito per la sua complessità. Prima di tutto emerge che è impossibile non pensare, non compiere l’atto di avere dei pensieri siano essi di qualsivoglia genere e natura.

Nella prima parte, invece, Munemori parla di lasciare “libera” la mente che significa svincolarla da ogni pensiero, una sorta di pensieri in libertà che devono essere lasciati passare con leggerezza e senza alcuna particolare attenzione verso di essi.

Il concetto è poi ribadito nella seconda parte “non permetterle di fissarsi su un qualcosa”: quindi nessun pensiero predominante, ma una libertà totale di passaggio da un pensiero all’altro. Il termine “fissarsi” è qui usato come sinonimo di “imprigionarsi” totale antitesi del termine “libera”. Interessante il terzo punto “ricentrala infallibilmente”. Ma cosa significa “essere centrati”?. Credo che “occidentalizzando” il concetto possa essere reso con “concentrati”. La mente vuota predomina sull’azione perché la concentrazione sul presente evitasconfinamentiinutili,rimuginamentislegati dal senso dell’essenziale tipici delle persone indecise e riporta all’agire con determinazione.

Quello che secondo Munemori allontana dalla via, dal senso di verità e dalla purezza di pensiero è il senso d’illusione che si crea attraverso i pensieri inutili. Il samurai fa pulizia tra ciò che serve e ciò che intralcia e il pensare troppo rientra in quest’ultimo caso.

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Nella vita di tutti i giorni lo stress che percepiamo è spesso generato dal conflitto tra pensiero e azione. Se da una parte siamo chiamati a riflettere su ciò che facciamo, dall’altra siamo pressati dalla necessità di agire, prendere decisioni rapidamente e accettarne le conseguenze che, a volte, sono disastrose.

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Ed è per questo che, nell’ultima parte del suo trattato, Munemori parla di “La spada che dà la vita” in quanto debellato il caos prodotto dai pensieri inutili non resta che la visione chiara di ciò che si può fare in quel momento con estrema lucidità e soprattutto elasticità.

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Per la precisione questo concetto di “mente vuota” o “mente svuotata” viene chiamato “mushin no shin” ed è un processo che, per inciso, risulta particolarmente difficile soprattutto per menti come le nostre impegnate costantemente nella risoluzione di problemi spesso creati da altri menti. Ma com’è possibile passare da uno stato di non pensiero ad uno stato di azione (nel caso dei samurai spesso spietata) con la convinzione di avere agito bene?

Anchequiimaestriciaiutanoattraversocodici comportamentali lineari e di chiara esecuzione.

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Shiba Yoshimasa (1350 – 1410) fu poeta e guerriero. Scrisse il Chikubasho, una lista di precetti in cui vengono presentati i doveri del samurai, l’importanza della compassione (non come pietismo, ma come attenzione sociale ai più bisognosi), l’uso dell’empatia come mezzo di comunicazione e soprattutto l’importanza di affinare i sensi attraverso l’arte e lo studio delle

manifestazione della bellezza. Yoshimasa parla anche di un altro aspetto molto importante: la reputazione soprattutto nel clan (oggi lo definiremmo social reputation).

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“Il carattere e la profondità del cuore si possono cogliere nella sua condotta, perciò ci si dovrebbe comportare come se anche i muri avessero occhi…” ci dice il maestro Yoshimasa anticipando che per ottenere uno stato di mente elastica è importante essere prima di tutto retti e devoti verso i sette principi base ai quali ogni samurai deve scrupolosamente attenersi, principi che erano trasmessi oralmente da maestro ad allievo:

Gi: (Onestà e Giustizia) “Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell’onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato”.

Yu: (Eroico Coraggio) “Elevati al di sopra delle massechehannopauradiagire,nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte”.

Jin: (Compassione) “L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d’aiuto ai propri simili e se l’opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una. La compassione di un samurai va dimostrata soprattutto nei riguardi delle donne e dei fanciulli”.

Rei: (Gentile Cortesia) “I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini. Il miglior combattimento è quello evitato”.

Makoto – Shin (Completa Sincerità) “Quando un Samurai esprime l’intenzione di compiere un’azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l’intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di “dare la parola” né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa”

Meiyo (Onore) “Vi è un solo giudice dell’onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e leazionicheneconseguonosonounriflessodi ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso”.

Chugi (Dovere e Lealtà) “Per il Samurai compiere un’azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il Samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile”. Questi sette principi, che reputo di estrema attualità, semplificano molto i processi distintivi di ogni azione, permettendo alla mente di essere liberata da tutto il superfluo.

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Occorre ricordare che chi pensa che questi valori siano frutto di una pesniero esclusivo di stile elitario si sbaglia. Ce ne dà conferma il Maestro Nabeshima Naoshige (1538 – 1618) che nelsuotestoNaoshigeKougyoKabegakidiceai samurai:“Tuttidovrebberofareesperienzadella faticacosìcomelaconosconoleclassiinferiori”. Questo vuole essere un richiamo forte a non sentirsi un’élite per scelta divina (era l’imperatore o un suo funzionario a nominare i samurai e l’imperatore era considerato divino a tutti gli effetti), ma una classe al servizio (la parola samurai deriva dal verbo, saburau, che significa servire o tenersi a lato e letteralmente significa colui che serve). Quindi tutti siamo chiamati al rispetto di questi valori di base, proprio per quel grande senso di semplificazione che essi comportano e per quel processo di eliminazione dei pensieri inutili reso efficace dal continuo addestramento.

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Takuon Soho (1573 – 1645) arrivava ad esemplificare il concetto di mente vuota – mente elastica dicendo che la tecnica, l’esercizio spirituale e la liberazione della mente diventerannounacosasolaattraversolosforzoe l’addestramento continuo così come la velocità di un fendente può recidere ogni esitazione. Quindi temporaggiare, tergiversare diventa inutile e pericoloso e può essere corretto solo dalla pratica, da quell’addestramento continuo in cui si studiano tutte le possibilità per affrontare l’avversario.

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Nel Kenjutsu, così come nello Jaido o in ogni arte marziale giapponese si parla di Kata (forme), dove l’allievo impara la strategia appropriata per affrontare differenti situazioni. Man mano che l’allievo prosegue nell’addestramento il coinvolgimento della mente tenderà a diminuire permettendogli di reagire agli stimoli in modo sempre più spontaneo.

La figura del maestro (e fin qui ne abbiamo citati diversi) agisce da mediatore tra l’input e l’output, tra lo stimolo e la reazione, è la sintesi di esperienze, saperi e senso pratico che diventano tutt’uno e si esprimono nella propria capacità ed elasticità fisica e mentale.

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Questo passaggio è importantissimo. Per essere elastici mente e corpo non bastano. Lo studio dei kata, solitamente di difficoltà progressiva, permette al praticante di commisurarsi fino in fondo con il proprio sé e vincerne timori e debolezze facendo sempre più chiarezza sulla propria volontà e sul suo valore per il proprio spirito interiore. L’insegnamento dei maestri chiarisce quindi che l’elasticità è un traguardo raggiungibile solo se si lavora su tre livelli: corpo, mente, spirito.

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Ed è proprio Soho a parlarcene: “Se ti focalizzi sull’azione del corpo, la mente sarà catturata dall’azione del corpo dell’avversario.

Se ti focalizzi sulla spada dell’avversario, la mente sarà catturata dalla spada dell’avversario. Se ti focalizzi su quali saranno le intenzioni dell’avversario di colpirti, la mente sarà catturata da quel pensiero. Se ti focalizzi sulla tua spada, la mente sarà catturata dalla tua spada, se ti focalizzi sulla tua intenzione di non essere colpito, la mente sarà catturata dalla tua intenzionedinonesserecolpito.Setifocalizzi sullaposturadeltuoavversario,lamentesarà catturatadallaposturadeltuoavversario. Questo significa che non esiste un luogo in cui focalizzare la mente”, ma evidentemente è un luogo ipotetico che va creato ad hoc e che solo un lungo e delicato addestramento può insegnare.

Yamamoto Tsunetomo (1659 – 1718) nel suo Hagakure ci insegna che “L’addestramento non finisce mai. Se un uomo pensa di essere giunto alla fine va contro lo spirito del bushido, mentre se, per tutta la vita, pensa di non essere mai arrivato, quando muore gli altri penseranno che ha completato la via del samurai. Pur addestrandosi per tutta la vita è molto difficile che un uomo raggiunga l’uno mantenendosi puro. Se non è puro, egli non raggiunge la via. Seguire il maestro e il valore militare devono diventare una cosa sola”.

Il “mushin no shin”, “mente vuota” o “mente svuotata”èquindilamenteelasticacherende flessibile l’uomo e come insegna Miyamoto Musashi (1584 – 1645) non è esclusiva del samurai, ma appannaggio di tutti “Alcuni pensano che, anche se apprendono la Via della strategia, non l’applicheranno nella vita. Ma la vera via della strategia è tale da poter essere applicata in qualunque momento e in qualunque circostanza”.

Come vincere allora e diventare uomini dalla mente elastica? Le arti marziali giapponesi ci indicano un percorso lungo, faticoso, ma anche estremamente pratico e di grande risultato che può aumentare le nostre possibilità di vittoria.

Yukio Mishima (1925 – 1970) diceva: “Molti avranno sperimentato come nell’attimo del colpo, sia esso inferto con un guantone da pugile o con un bastone di bambù, si avverta come un contraccolpo, più che un attacco diretto al corpo dell’antagonista, e questo è proporzionale alla precisione del colpo. A causa del colpo e della propria forza si crea nello spazio una specie di cavità. In quell’istante il corpo dell’antagonista colma esattamente la cavità spaziale e, quando ne assume perfettamente la forma, il colpo si può considerare riuscito. Perché mai si prova quella sensazione, come può un colpo avere effetto?

Perché il movimento per vibrarlo è stato scelto con esattezza, sia temporalmente che spazialmente, perché la scelta e la decisione hanno colto un attimo di distrazione nell’antagonista, l’hanno intuito ancora prima che si rivelasse. Questa intuizione è una facoltà misteriosa, che si acquisisce attraverso un processo di lungo allenamento. Quando l’attimo di distrazione si è rivelato, è ormai troppo tardi: è tardi quando quel qualcosa latente nello spazio davanti alla punta del bastone ha già preso forma; nell’attimo in cui prende forma deve già essere perfettamente situato nella cavità spaziale da noi designata e creata. È proprio quello, in ogni combattimento, l’istante della vittoria”.

E da qui si evince in modo chiaro che l’unica vittoria è quella che si conclude quando si ha acquisito consapevolezza di se stessi, dei propri limiti e delle proprie aspirazioni; un processo continuo che dura per tutta la vita.

Certo è che questo ci aiuta nella nostra vita di tutti i giorni e facilita le nostre azioni di problem solving.

Concludo con un altro insegnamento di Musashi: “Accetta ogni cosa così come è. Non cercare il piacere per la tua propria soddisfazione. Non dipendere, sotto alcuna circostanza, da impressioni parziali. Pensa con leggerezza di te stesso e con profondità del mondo. Sii distaccato dal desiderio durante tutta la tua vita. Non rimpiangere quello che hai fatto. Non essere mai geloso. Non lasciarti mai rattristare da una separazione. Risentimento e lamentele non si addicono né a te stesso né ad altri. Non lasciarti guidare da sentimenti di lussuria o passione. In tutte le cose, non avere preferenze. Sii indifferente al luogo dove vivi. Non ricercare il gusto del buon cibo. Non attaccarti al possesso di quanto non ti serve più. Non agire seguendo idee dettate dall’abitudine. Non collezionare armi e non praticare con armi quando non sia utile. Non temere la morte. Non cercare il possesso di beni o feudi per la tua vecchiaia. Rispetta Budda e gli dei ma non contare sul loro aiuto. Puoi abbandonare il tuo corpo. Ma devi conservare il tuo onore. Non allontanarti mai dalla via”.

Solo chi si presenta con una mente elastica può ottenere nella propria via quei cambiamenti continui che gli permettono di adattarsi alle situazioni e quindi sopravvivere. La mente vuota è la mente elastica. Le arti marziali di cui ho parlato sono solo alcuni esempi che possono permettere a tutti di cercare una via, un modo di addestrarsi, una condizione in cui approfondire una crescita continua e su cui basare la possibilità di migliorare se stessi, gli altri e il mondo che più direttamente li circonda. Come i grandi maestri giapponesi insegnano non servono grandi gesti, ma piccoli passi fatti con coraggio, energia, convinzione e soprattutto tanto amore; il resto è solo una logica

Bibliografia

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– LEZIONI SPIRITUALI PER GIOVANI SAMURAI, Y. Mishima, Feltrinelli, 1988

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– CAVALCARE LA PROPRIA TIGRE, Giorgio Nardone, Ed.Ponte delle Grazie, Milano, 2004

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– MA, LA SENSIBILITA’ ESTETICA GIAPPONESE, Luciana Gallo, Ed. Angolo Manzoni, Torino 2004

– DEMONI E MOSTRI DEL GIAPPONE, Royal Tyler, Ed. Arcana, Milano, 1988

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– BUJUTSU CLASSICO – vol. 1, BUDO CLASSICO – vol. 2, !BUJUTSU & BUDO MODERNO – !!vol. 3, Donn F. Draeger, Ed. Mediterranee, Roma, 1998

– SAMURAI, Leonardo Vittorio Arena, Ed. Oscar Mondadori, Milano, 2003

– I SAMURAI, Alida Alabiso, Ed. Universale Storica Newton, Milano, 2004

– IL CRISANTEMO E LA SPADA, Ruth Benedict, Ed. Dedalo, Bari,1993

– IL VISITATORE, Vittorio Volpi, Ed. Piemme, Milano, 2004




Da “La globalizzazione delle religioni e la fede dei cristiani”: religioni universali e altre religioni, la religiosità preconfuciana

Paolo Bascioni*

Religioni universali ed altre religioni

Dopo l’esposizione dell’Induismo e del Buddismo che sono propri della storia e delle molteplici culture dell’India, cercheremo di esplorare il mondo religioso cinese sforzandoci di penetrare in una civiltà ed anche in una dimensione religiosa

Ho il piacere di presentare a partire da questo numero di Olos e Logos alcuni contributi sulle religioni praticate in Cina ed Estremo Oriente che Paolo Bascioni, autore del volume “La globalizzazione delle religioni e la fede dei cristani” ci ha gentilmente concesso di pubblicare nella nostra rivista. La conoscenza della cultura e della spiritualità del mondo estremo orientale è la conditio sine qua non per una corretta comprensione delle radici su cui si innesta il sapere medico cinese

Lucio Sotte*

del tutto particolare. Per questo è opportuno, prima di addentrarci in essa, fare una precisazione o chiarificazione almeno su un aspetto del modo come vengono classificate le religioni. Nel trattare fino a questo momento, prima dell’Islam, poi

dell’Induismo e da ultimo del Buddismo, ci siamo interessati di Religioni Universali. Queste appunto, insieme all’Ebraismo e al Cristianesimo, sono qualificate come “Religioni Universali”. Le religioni cinesi non sono religioni universali; dovranno forse essere identificate come religioni nazionali, o più probabilmente “Religioni etniche”. Vi sono poi religioni che si classificano con identificazioni diverse, come ad esempio, “Religioni cosmopolite”. Vi sono perfino comportamenti religiosi per i quali non si usa neppure il termine “Religione”, ma piuttosto quello di “Culto” variamente specificato, cosicché si parla di “Culti misterici”, “Culti feticisti”, “Culti Animisti” ed altri. Infine per altre pratiche religiose o pseudoreligiose si adotta l’espressione “Religioni secondarie” o “Religioni impropriamente dette”; è questo ultimo il caso dello Sciamanesimo e dello Scintoismo. Di tutte queste identificazioni vediamo di richiamare brevemente almeno il concetto di “Religione universale” indicando anche perché esso si addice alle religioni fin qui trattate e non a quelle cinesi.

Una religione definita universale non significa che sia diffusa in tutto il mondo; la qualifica di universalità non è in rapporto alla estensione geografica e neppure al numero dei suoi seguaci. È qualcosa di più essenziale; è un attributo che riguarda il suo modo di essere, la sua intima natura, l’autocomprensione che ha di se stessa e del suo rapporto con Dio o con il trascendente e con l’uomo in quanto tale, e di conseguenza con l’intera umanità di ogni tempo e di ogni luogo. Una religione è dunque universale quando ha coscienza di dare risposte e offrire indicazioni, nell’ordine religioso, che servono all’uomo in quanto uomo e che rispondono alle sue aspirazioni più autentiche ed al fine ultimo che esige la sua natura; per tale ragione si sente in qualche senso responsabile dinanzi a tutti gli uomini.

!La qualifica di universalità si addice in questo senso innanzitutto alle cosidette religioni del ceppo abramitico; Ebraismo, Cristianesimo ed Islam.

!L’Ebraismo è in primo luogo fondato sulla vocazione che Dio rivolge ad Israele e sul patto che stabilisce con esso; una vocazione ed alleanza che non sono ad esclusivo vantaggio di Israele, ma servono a Dio perché Egli possa regnare su tutti gli uomini. L’intervento di Dio su Israele ha dunque una destinazione universale. Del resto Dio che chiama Abramo e sancisce per mezzo di Mosè l’Alleanza con l’intero Israele non ha dimenticato gli altri popoli che sono a lui legati attraverso il patto sancito con Noè dopo il diluvio. Inoltre l’Ebraismo ha, non solo l’idea, ma la certezza della creazione del mondo da parte di Dio, con particolare riflessione sulla creazione dell’uomo che è costituito ad immagine di Dio. Basterebbe questo per affermare che il Dio d’Israele è Dio di tutti gli uomini e tutti gli uomini sono suoi.

!!L’Islam ha come sua dottrina fondamentale e costitutiva la persuasione che Dio ha rivolto per mezzo di Muhammad e quindi del popolo al quale egli appartiene, il popolo arabo, la sua parola ultima e definitiva, il Corano, a tutta l’umanità. Il Corano deve pertanto diventare la norma che guida la vita dell’intero genere umano. Fin dall’origine fu di conseguenza presente nella coscienza di Muhammad e dei suoi primi successori, la persuasione che l’Islam doveva essere portato, e si può anche dire imposto, al mondo intero.

Il Cristianesimo, che pure nella sua essenza di maggiore originalità non è riducibile a religione, riveste una destinazione universale in tutti gli

aspetti che lo costituiscono. Per esso vale tutto ciò che è detto dell’Ebraismo, ma vanno aggiunti almeno due elementi di assoluta novità e originalità: i misteri dell’Incarnazione e della Redenzione. Il primo afferma il congiungimento di Dio, nella persona di Gesù Cristo, con la natura umana; il secondo garantisce che ogni persona è costituita nella condizione, almeno potenziale, di essere salvata. Non si dà religione che si presenti così essenzialmente aderente alla condizione umana, come il Cristianesimo.

!L’universalismo però non è caratteristica solo delle religioni abramitiche, ma sotto aspetti diversi e connotazioni proprie differenti, anche delle grandi religioni dell’Oriente e specificamente dell’Induismo e del Buddismo. L’Induismo, lo abbiamo visto, si costituisce come tentativo di approfondire e di chiarire il rapporto che lega l’uomo, Athman, all’Assoluto, Brhama, con l’intento di scoprire e quindi di indicare attraverso quali “vie” l’Athman può ricongiungersi al Brhama, l’uomo può raggiungere l’Assoluto; in questo infatti consiste la salvezza, una volta superato il ciclo delle rinascite. L’Induismo è quindi sì specifico della religiosità e della civiltà dell’India, però si pone secondo una dimensione sovraspaziale, cioè secondo una prospettiva universalmente umana.

Da ultimo il Buddismo, sorto come volontà di risolvere il problema del dolore sia indagandone le cause che lo generano, sia prospettando il modo per superarlo, ha per confine gli stessi confini del dolore e cioè nessun confine.

Non si può fare il ragionamento fin qui proposto, per le religioni cinesi; sorte in un contesto geografico e in un ambiente culturale di civiltà bene identificabili, esse sembrano non essere interessate a ciò che avviene altrove seppure, almeno nelle loro forme originarie, sono consapevoli che esista o possa esistere un altrove. Con probabilità vanno identificate come religioni nazionali o etniche. Al massimo, almeno in una certa fase del loro sviluppo, nel Confucianesimo e nel Taoismo, si potrà parlare di cosmopolitismo e dunque religioni cosmopolite; ma non sembra si possa! neppure a questi attribuire la qualifica della universalità.!!

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La religiosità preconfuciana

!Quando si parla di “Religione” nel contesto della storia, della cultura e della civiltà del popolo cinese bisogna essere molto cauti. Nella vita del popolo cinese non esiste una dimensione religiosa come si può osservare nello sviluppo delle civiltà fiorite intorno al mediterraneo, o in quelle dell’Oriente indiano o anche dell’America centrale. Al riguardo è significativo anche il fatto che nella lingua cinese non esiste una parola specifica per designare la religione; si adopera il vocabolo “Chiao”; esso serve però ad indicare “dottrina”, “cultura”, “sapienza”, nel senso di modo di vivere, e dunque verrebbe a comprendere anche la dimensione religiosa genericamente intesa.!Se si considera la storia della Cina degli ultimi due millenni e mezzo si può dire che in essa sono state presenti tre religioni: il Confucianesimo, il Taoismo e il Buddismo. Quest’ultimo, proveniente dall’India, si è diffuso e si è consolidato in Cina nella forma del Mahajana o Grande Veicolo, a partire dall’inizio dell’era cristiana; amalgamatosi con alcuni elementi del Confucianesimo e del Taoismo, ha esercitato per secoli, o meglio per più di un millennio, una grande influenza. La sua origine però non è cinese. Originari e tipicamente espressioni della mentalità cinese sono invece il Confucianesimo e il Taoismo. Essi hanno origine a partire dal VI secolo avanti Cristo.

Confucio, secondo l’opinione maggiormente accreditata, sarebbe nato nel 551 e morto nel 479 a.C.

Sul fondatore del Taoismo, Lao-Tse, il problema dei riferimenti cronologici è più complesso; alcuni lo pongono nel VI secolo a.C., contemporaneo o di poco anteriore a Confucio, altri ne spostano invece la vita e l’attività al IV secolo o addirittura tra il III e il II secolo a.C. Quello che è però importante tenere presente, più delle questioni cronologiche della vita di Lao-Tse rispetto a Confucio, è che le dottrine e le conseguenti forme di vita che da essi prendono nome ed origine, non sorgono in un ambiente culturale e religioso, per così dire, vuoto, ma in un contesto ben determinato, sia dal punto di vista religioso che culturale e politico; trattandosi della Cina non va dimenticato che non esiste una dimensione religiosa che non sia anche concretezza di vita a tutti i livelli, individuale, familiare, tribale, regionale e imperiale. Esiste dunque una “religiositas” cinese preconfuciana e pretaoista alla quale sia Confucio che Lao-Tse si rifanno. È indispensabile cercare di conoscere e rendersi conto in cosa essa consiste, qual’è la sua peculiarità e quali sono le sue componenti essenziali, per poter comprendere gli stessi Confucianesimo e Taoismo.

Bisogna prendere le mosse presso a poco dal 3600-3500 a.C.

Questa religione cinese antica aveva il suo fondamento nell’osservazione dei ritmi della natura e nello sforzo di stabilire una corrispondenza tra la vita umana e la vita della stessa natura concepita in modo animistico: non il dominio della natura l’uomo deve perseguire, ma l’armonia con essa. I fenomeni naturali dunque, come la pioggia, il vento, il tuono, il germogliare e crescere della vegetazione, specie del miglio, fondamentale nella alimentazione, erano oggetto di venerazione.

Accanto alla venerazione della natura ed alla ricerca della conformità con essa, questa religiosità arcaica cinese pone un altro elemento essenziale: il mondo degli spiriti e delle divinità concepite in maniera gerarchica. Ci sono innanzittutto i cinque spiriti della vita domestica: della porta esterna, della porta interna, del pozzo, del focolare e del cortile interno. Ma le divinità più importanti sono quelle della Terra madre e, sopra tutte, quella del Cielo, perché il Cielo è divinità, la divinità massima; concepito come buono, presente dovunque, tutto vede e tutto conosce. La sua raffigurazione non ha forma animale, è importante notarlo, ma umana; questo con probabilià potrebbe voler dire che esso è inteso anche in maniera personale.

Il culto degli antenati costituisce la terza componente fondamentale della vita cinese più antica. L’uomo, oltre il corpo, ha due anime che al momento della morte si separano, e dal corpo e tra di loro, per cui, una rimane sulla terra insieme al

cadavere, l’altra ascende verso il cielo. Tutte due però in questa condizione di esistenza spirituale, continuano a vivere come vivevano prima della morte del corpo. L’anima che resta sulla terra ha bisogno di tutto quello di cui si serviva quando era vivo il corpo: cibo, vestiti, cavalli, armi, moglie, figli e altro ancora. Nella Cina più antica quando moriva un personaggio importante, un signore feudale e ancor più un imperatore, si sacrificavano uccidendoli realmente, la moglie, i servi, i cavalli ecc. perché essi dovevano servire all’anima terrena (p’oh) del defunto. Più tardi questi sacrifici avvenivano solo in modo simbolico; si immolavano simbolicamente immagini o riproduzioni statuarie delle persone che avevano servito il defunto. Le anime degli antenati, sia quella che resta sulla terra (p’oh), sia quella che sale verso il Cielo (hun),! proteggono i propri discendenti a condizione che questi offrano ad esse i propri sacrifici, dei quali hanno bisogno. La protezione degli antenati assicura vita lunga, prosperità, pace e vittoria contro i nemici.

Tre sono dunque le componenti della vita e della religiosità cinese: la natura, gli spiriti fino alla divinità suprema che è il Cielo e gli antenati. Queste componenti non sono indipendenti l’una dall’altra, ma formano, insieme con l’uomo che vive sulla terra, una unità indivisibile ed omogenea: la forza che realizza tale unità è il “Tao”; esso tiene insieme il Cielo, la Terra e l’uomo. Il Tao può essere concepito come la “Legge eterna”, come il “Principio ordinatore” di cui è garante lo stesso Cielo. La pratica e concreta attuazione della Legge regolatrice del tutto si realizza obbedendo a due principi; uno positivo, uno negativo; uno attivo, uno passivo; uno maschile, uno femminile. Si chiamano: lo “Yang”, principio attivo e positivo; e lo “Yin”, principio passivo e negativo; negativo non vuol dire cattivo o dannoso, ma significa che riceve l’azione dall’altro e ricevendola, insieme producono l’effetto. Pertanto questi due principi, pur essendo opposti, sono anche complementari; l’uno richiama l’altro e non può stare senza l’altro; si completano reciprocamente. Tutto quello che esiste risulta dalla unione di questi due principi-forza, dalle cose più minuscole del microcosmo a quelle più appariscenti del macrocosmo; anche il Cielo e la Terra sono reciprocamente Yang e Yin. L’armonico rapporto di questi principi garantisce il buon funzionamento del Cielo, della Terra e della vita umana; il loro squilibrio o predominio dell’uno sull’altro, genera disordine e rovina: tempeste, alluvioni, siccità, malattie e morte. Ogni cosa ed ogni persona è rispetto all’altra cosa o persona, Yang o Yin; così, ad esempio, l’uomo è Yang rispetto alla donna che è Yin, la luce del sole è Yang rispetto a quella della luna che è Yin, il giorno è Yang rispetto alla notte che è Yin, e così via. Si può essere anche in una condizione di ambivalenza, essere contemporaneamente Yang e Yin; così, per fare qualche esempio, il signore feudale è Yin rispetto all’imperatore, ma è Yang per gli abitanti del suo territorio; la donna è Yin rispetto al marito, ma è Yang rispetto alla figlia; il figlio è Yin rispetto al padre, ma è Yang rispetto alla sorella o alla moglie.

Esiste dunque un ordine armonico e nello stesso tempo ferreo che regge l’esistenza cosmica e che lega insieme la Terra, il Cielo, gli spiriti, gli antenati e la vita umana. Questo ordine va riconosciuto, rispettato e riprodotto dagli uomini nell’organizzare la loro vita sulla terra. Nasce così la società cinese nella forma dell’impero gerarchicamente strutturato, sulla base del presupposto che vi deve essere una fedele corrispondenza tra la struttura del cosmo e la organizzazione della vita umana sulla terra.

Prima del duemila a.C. esisteva in Cina una frammentazione politica del territorio che conosceva una specie di sistema feudale nel quale il signore esercitava funzioni sacerdotali di intermediario tra il popolo e gli dei. Fin dal più remoto periodo Chou, che va dal 1122 al 600 a.C., si costituisce uno stato unitario di carattere feudale. L’imperatore diventa il legame che unisce il Cielo al popolo; anzi, egli è il figlio del Cielo e garantisce l’ordine sulla terra come esiste l’ordine del cosmo di cui l’organizzazione imperiale deve riprodurre il modello. I cinesi pensavano che la Cina fosse il centro della terra, ritenevano addirittura che il mondo intero si riducesse alla Cina; infatti erano persuasi che ai margini della Cina ed intorno ad essa esistessero solo pochi territori e popolazioni minuscole di nessuna importanza. Questa concezione si spiega forse con il fatto che i cinesi sono vissuti per millenni isolati e separati dal resto del mondo da frontiere naturali. Comunque ritenevano che l’imperatore era il sovrano del mondo intero, il rappresentante del Cielo sulla Terra; tutti quindi dovevano accettare la sua sovranità perché sottomettendosi a lui gli uomini riconoscono l’autorità del Cielo. Secondo questa impostazione il potere deriva dal Cielo all’imperatore e dall’imperatore ai suoi rappresentanti in tutte le regioni dell’impero, che lo esercitano in suo nome. L’imperatore offre i sacrifici al Cielo e alla Terra madre secondo un rituale prestabilito molto minuzioso. Si tratta di un culto ufficiale che è reso dal sovrano a vantaggio di tutto l’impero, e dai suoi rappresentanti o funzionari nelle diverse regioni o provincie a vantaggio degli abitanti dei territori ad essi affidati e da essi governati. In questo modo, e cioè essendo sottomessi all’imperatore, vivendo inseriti nell’ordine politico e sociale da lui stabilito, con i sacrifici che egli e i suoi rappresentanti offrono e conducendo tutti, imperatore e sudditi, una vita virtuosa, si ottiene la felicità, che riguarda essenzialmente l’esistenza terrena e consiste sostanzialmente nella longevità, nella ricchezza, nella salute ed in una morte serena.

Questa impostazione, chiaramente stabilita e codificata già ai tempi della dinastia Chou! (1122-600 a.C.) è restata in vigore fino al termine del sistema imperiale cinese con la caduta dell’ultima dinastia, quella dei Manciù, nel 1912. Quando questo sistema di organizzazione dello Stato si troverà ad affrontare una profonda e pericolosa crisi di disgregazione, tra il VI e il V secolo a.C., sorgerà la figura di Confucio che si propone con il suo insegnamento di consolidarlo e di rinnovarlo richiamandosi all’antica saggezza.

prima parte – continua nel prossimo numero




I Commentari di Padre Matteo Ricci: un resoconto della Cina del 1600 attualissimo per gli europei del III millennio – capitolo V

1. Natura, numero dei caratteri e suoni della lingua cinese scritta. 2. Grande anfibologia, attenuata alquanto dai cinque toni. 3. La lingua scritta cinese è la stessa per tutta la Cina e per i paesi limitrofi. 4. Uso comune della lingua mandarina in Cina e anche dei Katakana in Giappone. 5. Vantaggi morali e svantaggi intellettuali di una lingua così difficile. 6. Confucio, massimo filosofo morale della Cina; suo culto. 7. Scienze matematiche ed astronomiche; astrologia. 8. Doppio Collegio dei matematici ossia degli astronomi, quello dei cinesi e quello dei maomettani. 9. Falsa idea della natura delle eclissi; costumanze in tali occasioni. 10. Poca stima dei medici cinesi, e inutilità dei loro gradi accademici. 11. Dottrina confuciana contenuta nei Cinque Classici e nei Quattro Libri. 12. Esami letterari su questa dottrina confuciana. 13. Gran numero di maestri privati in mancanza di scuole pubbliche e di università. 14. Primo grado dei letterati civili: i baccellieri; loro trattamento. 15. Secondo grado dei letterati civili: i licenziati. 16. Sale, giorni e natura dei temi per ciascun giorno degli esami. 17. Trascrizione anonima delle composizioni e scrutinio finale. 18. Valore e utilità della licenza. Proclamazione dei risultati. 19. Terzo grado dei letterati civili: i dottori. I primi della lista. 20. Promozioni ed insegne dei neo-dottori. Indefinite ripetizioni di esami. 21. Promulgazione dei nomi dei laureati e delle loro composizioni. Amicizia contratta all’occasione di questi esami. 22. Esami e gradi dei letterati militari, tenuti in poco conto. 23. Onori dei letterati civili; arbitri anche di materie non studiate da essi.

Prima di dire del governo della Cina è necessario che dichiamo qualche cosa delle sue lettere e gradi che in esse si danno, per essere la parte più principale del suo governo, et un modo in che sono diversissimi di tutte le altre nationi del mondo. E

se di questo regno non si può dire che i filosofi sono re, almeno con verità si dirrà che i re sono governati da’ filosofi. E cominciando dalle sue lettere, o più tosto caratteri, al modo degli hieroglifichi degli Egittij. Conciosiaché il loro parlare sia assai diverso dallo scrivere, nessuno libro si scrive nel modo commune di parlare; e sebene se ne scrivono alcuni con un modo più vicino al parlare, non è cosa grave e di che si facci caso. Con tutto questo, le più delle parole sono communi allo scrivere et al parlare, e tutte le dittioni dell’uno e dell’altro sono monosillabe, benché vi sono molti diphtonghi di due o tre vocali parlando al nostro modo; percioché loro per ogni dittione hanno una lettera diversa senza nessuna distintione, non solo di vocali e consonanti, ma né anco di sillabe; e tanto importa tra loro dire una dittione come una lettera et una sillaba. Per questa causa sono in questa lingua tante le lettere quanto sono le parole.

Pure fanno una compositione tanto artificiosa che non vengono ad esser le lettere più di settanta o ottanta milia, e quelle di che usano ordinariamente (sono) puoco più di diecie milia; ché, quanto a quel numero intiero di tutte, né è necessario, né nessuno vi è che le sappi.

È vero che molte lettere sono dell’istesso sono, sebene di diversa figura, e ciascheduna significa molte cose. Per questo viene ad essere la più equivoca lingua e lettera che si ritruovi, e de nessun muodo può scriversi dettando. Anzi soventemente nel parlare si dimandano l’uno all’altro, anco fra persone eloquenti, letterati e di buona pronunciatione, che ripetano una parola et anco che dichino come si scrive; e, non avendo alle mani la penna, la scrivono col deto e con acqua, o con segni nell’aria e nella mano, percioché più chiaro è lo scrivere che il parlare.

A questa equivocatione di parola sovvengono loro con cinque accenti assai sottili con i quali diversificano quasi ogni parola o lettera, a tal che una sola sillaba nostra, pronunciata in cinque modi, significa cinque cose tra sè diversissime. Questa, mi pare, fu la causa che dal tempo antico questa natione fece molto più caso del bene scrivere che del bene parlare, e tutta la loro rettorica et eloquentia consista nella compositione, come quella di Isocrate; et il trattare tra loro con imbasciate, tutto è con penna, ancorché stiano nella stessa città.

In questo modo di lettera, parola per parola, vi è una grandissima commodità, che possono molti regni, di lingua diversissima tra sé, usare et intendersi con una stessa lettera, compositione e libri. Come in effetto avviene a questa lettera dalla Cina, che è anco commune al regno di Giappone, di Coria, di Cocincina e di Leuchieo, tanto tra sé diversi nella lingua che né una parola s’intendono gli uni agli altri; e con tutto facilmente si intendono nello scrivere senza imparare la lingua altrui. E dentro della stessa Cina in ogni provincia vi è una lingua propria, e molte volte più di una, non intesa dalle altre; e con tutto con lettera e libri tutto è una medesima cosa.

Con tutta questa varietà di lingue, ve ne è una che chiamano cuonhoa, che vuol dire lingua forense, di che si usa nelle audentie e tribunali, la quale si impara molto facilmente in ogni provincia con il solo uso; e così sino alli putti e le donne sanno tanto di questa che possono trattare con ogni persona di altra provincia.

Ho saputo che nel Giappone, oltre questa lettera, usano di un’altra propria, fatta con alfabeto simile alla nostra, con la quale scrivono la loro lingua senza aver bisogno di quest’altra moltitudine di lettere diverse; e forsi l’istesso avverrà agli altri regni sopradetti; ma nella Cina non vi è altro modo che questo. E così da fanciulli cominciano a imparare questa lettera e in essa si impiegano sino alla vecchiaia.

Questo, sebene non può lasciare di essere impedimento al fiorire delle scientie in questo regno, con tutto occupa molto l’animo loro e non gli lascia a sua voglia darsi agli vitij, ai quali la natura degli huomini è inclinata. Fu questo anco causa che venisse questa natione a fare un bello et elegante modo di compositione, con il quale spesse volte con puoche, non dico parole, ma con puochissime sillabe, dicono tanto che né in un nostro lungo discorso si potrebbe dichiarare. I loro libri cominciano, al contrario de’ nostri, come gli hebrei, a mano dritta; e scrivono d’alto a basso; e così vengono le righe ad esser contrarie alle nostre.

La scientia di che hebbero più notitia fu della morale; ma conciosiacosaché non sappino nessuna dialectica, tutto dicono e scrivono, non in modo scientifico, ma confuso, per varie sententie e discorsi, seguindo quanto col lume naturale potettero intendere. Il magiore filosofo che ha tra loro è il Confutio, che nacque cinquecento e cinquanta uno anni inanzi alla venuta del Signore al mondo, e visse più di settanta anni assai buona vita, insegnando con parole, opere, e scritti, questa natione. Laonde da tutti è tenuto e venerato per il più santo huomo che mai fusse nel mondo. E nel vero, in quello che disse e nel suo buon modo di vivere conforme alla natura, non è inferiore ai nostri antichi filosofi, excedendo a molti. Per questa causa nessuno de’ letterati pone in dubio nessuna cosa di quelle che egli disse o scrisse; e tutti i Re, sino adesso, lo riveriscono e (si) mostrano grati al beneficio della doctrina che da lui ricevettero. Per tutti questi secoli passati, sino ai suoi discendenti furno tenuti in grande conto, et il Re diede un titolo molto grande al capo della sua familia, che va sempre in sedia, con molto stato, rendita e grandi privilegij. Oltra di ciò, in ogni città e scuola, dove si congregano i letterati, per lege antica vi è il tempio del Confutio molto sumptuoso, dove sta la sua statua e il suo nome et titulo; et tutti i novilunij et plenilunij e quattro tempi dell’anno i letterati gli fanno una certa sorte di sacrificio con profumi et animali morti che gli offeriscono, sebene non riconoscono in lui nessuna divinità, né gli chiedono niente. E così non si può chiamare vero sacrificio.

Doppo questa scientia morale, hebbero i Cinesi anco molta notitia di astrologia et altre scientie di matematica. Nell’aritmetica e geometria furno più felici, ma anco questo tutto confuso. Fanno altre costellationi di stelle diverse dalle nostre, e pongono quattrocento stelle più che i nostri astrologhi, contando anco quelle che non sempre appariscono. Ma niente si curano di dar ragione delli phenomeni o apparentie, e solo procurano calculare al meglio che possono le eclipsi e movimenti de’ pianeti con assai di errori. Et in ché più si occupano è nella giudiciaria, pensando che tutto quanto si fa in questo mondo inferiore dipenda dalle stelle.

Sola in questa scientia di matematica si agiutorno qualche cosa di certi matematici seraceni che vennero dalla Persia. Ma nessuna cosa insegnorno con dimostrationi; solo lasciorno tavole dalle quali calculano il loro anno, e le eclissi d’ambi i luminari et anco i movimenti degli pianeti.

L’autore di questa famiglia che adesso regna prohibitte che nessuno imparasse questa scientia, se non i deputati, avendo paura che per questa via manchino alcuno qualche ribellione. Con tutto questo sostenta molti matematici dentro del suo palazzo, che sono eunuchi, et altri di fuora, con molte migliaia di scuti, per le grandi rendite che gli dà, secondo i gradi che negli essami conseguiscono. E sì quei di dentro, come quei di fuora, sono divisi in doi collegij: l’uno che segue il modo antico della Cina nel calcolo, l’altro che segue l’altro novo venuto dalla Persia. E dipoi conferiscono e si agiutano gli uni agli altri, quei di dentro e quei di fuora. Ciascheduni hanno la sua area o torre in luogo eminente, dove fecero molti belli strumenti di matematica, di bronzo, di smisurata grandezza, assai antichi, per osservare le stelle. Dove ogni notte sta alcuno veggiando se vede qualche cometa o cosa nnova nel cielo, per dar il giorno seguente ragguaglio al Re con publico memoriale, nel quale anco dichiarano la significatione di quello che hanno visto. Gli strumenti di Nanchino stanno in un monte dentro della città molto alto, e sono fatti di miglior lavoro che quei di Pacchino.

Le eclissi del sole e della luna divolgano i matematici di Pacchino per tutta la Cina. E per legge sono obbligati tutti i magistrati in ogni cità e

terra con i ministri degli idoli di radunarsi tutti in un luogo deputato con le sue insegnie a soccorrere a questi doi luminari, con sonare baccili di bronzo e far varie genuflessioni tutto il tempo che dura l’eclipse. Parmi che hanno paura che un serpente si mangi in questo tempo alcuni di questi pianeti.

L’arte della medicina è assai diversa dalla nostra, ma si regono, pare, per il polso. Fanno molte volte assai belle cure, ma tutto per simplici di erbe, radici ed altri ingredienti, e risponde più tosto alla nostra herbolaria. Non vi è di questa arte nessuna schuola publica, ma tutti imparano dal maestro che vogliono. Nelle Corti si fa essame di questa arte e si dà gradi, ma con tanto puoco deletto che nessuna autorità di più tiene il medico con grado di quello che tiene il non graduato; percioché non è proibito il medicare a nessuno, e tutti quei che vogliono, o sappino molto o puoco, si mettono a medicare.

Et è cosa certa che, sì alla matematica come alla medicina, non si applicano se non persone che non possono studiar bene le loro lettere per il puoco ingegno e habilità; e così stanno queste scientie in bassa stima e fioriscono assai puoco.

I gradi più solenni sono quegli della scientia morale, che dipoi vengono a governare il regno; perciò parlerò di questi qualche puoco più minutamente.

Il Confutio accomodò quattro libri antichi, e fece anco di sua mano il quinto, che si chiamano le Cinque Dottrine, nelle quali si trattano o delle cose ben fatte nel governo degli antichi, o sono di versi anco sopra la stessa materia, o de’ riti e cirimonie della Cina, o altri avisi per la prudentia nelle cose occorrenti. Oltre queste Cinque Dottrine, da tre o quattro autori furno raccolti varij precetti morali senza nessun ordine, si può dire, e fecero un libro molto stimato, che chiamano i Quattro Libri. Questi nove sono i più antiqui libri della Cina di dove uscirno gli altri, e contengono quasi tutte le lettere.

E per quanto in essi si dà una dottrina morale assai buona, per legge de’ Re passati, i loro letterati in questi fanno il fundamento del loro sapere, non solo procurando de intender bene questi libri, che sono di assai puoco volume, peroché tutti insieme non faranno tanto volume come le opere di Aristotile, ma anco si exercitano in fare varij discorsi sopre ciascheduna delle sententie che in essi vi sono. E perché sarebbe difficile star tutti tanto pratichi in tutti questi libri, che ad ogni materia di essi possano compor discorso elegante e all’improviso, come si fa nei loro essami, tutti sono obbligati a saper far questo nel Quattro Libri et in una delle Cinque Dottrine che ciascheduno elege, non potendo essere essaminato in altra.

Della dichiaratione di questi libri e compositioni che si fanno sopr’essi non vi sono nessune schuole o università publiche, come alcuni nostri scrittori dicono, ma ognuno piglia il maestro che vuole e lo paga del suo. E sono questi maestri moltissimi (per due ragioni); l’una, perché uno non può insegnare a molti insieme per la difficoltà di queste lettere; l’altra per essere custume di ogni persona grave far insegnare a’ suoi figliuoli in sua stessa casa, sebene non sia più che uno o doi, per il pericolo che vi è di disviarsi con la conversatione di altri.

Si danno in questa scientia tre gradi per compositione a tutti quei che vogliono venire all’esame. Il primo grado si dà in ogni città, nel luogo che chiamano la schuola, come sopra habbiamo detto, da un grande letterato posto dal Re, in ogni provincia il suo, che chiamano Thihio; et il grado si chiama di siuzai, che risponde al nostro maestro. Il Thihio continuamente va per tutte le città della sua provincia esaminando e dando gradi in ciascheduna di esse a vinte o trenta persone senza excedere il numero determinato. Sicché, arrivato il Thihio ad una città, concorrono tutti gli studianti di quella città, e non di altra, che vogliono essaminarsi per questo grado, che alle volte sono più di quattromilia. ll primo esame si fa da quattro letterati, che sempre risiedono nella schuola, sostentati dal Re a questo effetto. Il secondo fanno i Prefetti della città e di tutta quella regione, i quali presentano intorno a 200 delle migliori composizioni al Thihio. A questi fa l’ultimo essame l’istesso Thihio e sceglie venti o trenta dei migliori e gli dà il grado di siuzai, incorporandoli nella schuola con quei degli anni passati.

Sono questi siuzai una parte molto principale del corpo della città, de’ quali si fa molto caso da tutti. Tengono vestito, berretta e stivali proprii, che altri non possono vestire; nel visitare i magistrati tengono anco proprio luogo e fanno cortesia più grave degli altri; hanno molti privilegij, e sono solo sogetti in certe cose al Thihio et ai quattro magistrati della schuola; e non si pongono altri magistrati facilmente a castigarli ne’ loro delitti.

Il Thihio, oltre l’admettere i novi a questo grado, fa anco l’essame degli altri siuzai antichi e, conforme alla compositione, fa cinque ordini. A quei del primo ordine dà premio e potere di conseguire certi offitij non molto grandi, senza ottenere altro grado: a quei del 2° anco dà premio, ma manco che ai primi; a quei del 3° lascia nel suo stato di prima; a quei del 4° castiga publicamente battendoli con la sferza; a quei del 5° toglie le vesti di siuzai e li priva del grado. E questo fanno per obbligarli a studiar sempre e non scordarsi di quello che hanno imparato.

Il 2° grado è di chiugin, che risponde al nostro licentiato, il solo si dà di tre in tre anni su la ottava luna senza fallo, nella città metropolitana di ciascheduna provincia dove si fa l’essame. E non si dà a tutti coloro che lo meritano per sue lettere, ma solo a un certo numero, determinato dal Re in ogni provincia, ai migliori degli altri. Nelle due Corti di Pacchino e Nanchino si dà a cento e cinquanta; in Ciechiam, Chiansi, Fochien, a novantacinque, et ad altre altro numero, conforme al numero de’ letterati che vi suole essere in quella provincia. A questo essame non entrano se non i siuzai; non tutti, ma di ogni città e scuola se ne sciegliono, pure per essame di compositione dello stesso Thihio, trenta o quaranta. E così vengono a essere quattromilia e più persone nelle provincie più dotte. Dunque nell’anno de’ licentiati che fu, verbi gratia, l’anno 1609 e serà l’anno 1612, e così di mano in mano di tre in tre anni, come ho detto,

puochi giorni inanzi alla 8a luna, che viene molte volte ad essere la luna del mese di settembre, i magistrati di Pacchino propongono al Re da cento letterati assai buoni, accioché tra questi segnali trenta, cioè due per ogni provincia, per Presidente dell’essame e dar il grado di licentiato in ogni provincia; l’uno de’ quali è del Collegio de’ letterati del Re, che chiamano Hanliniuen, che sono i più excellenti di tutto il regno. Il Re non gli segnala se non tanti giorni avanti che per la posta, molto in fretta, possino arrivare a tempo alla provincia per la quale sono designati; con molta cautela che, dopo l’esser designati, non parlino con nessuno. Nella stessa provincia anco, da diverse parti, da’ magistrati sono chiamati molti letterati per dare la prima vista alle compositioni et agiutare i doi essaminatori della Corte.

In ogni metropoli di ciascheduna provincia sta fatto un palazzo, solo per questo essame, assai grande, tutto circondato de muri alti e dentro con molte stanze, per stare questi essaminatori e vedere le compositioni, molto secrete e commode. Nel mezzo vi è un grande cortile dove sono fatte più di quattromila celle o casette molto piccole, in ciascheduna de quali non cape altra cosa che un huomo con una tavoletta et un banchetto, senza potersi, quei che dentro stanno, né vedere né parlare l’uno con l’altro.

Arrivati alla metropoli i duoi essaminatori, così i duoi principali della Corte come gli altri, senza parlare con altri, né tra di sé, mentre dura l’essame, sono serrati dentro di questo palazzo, ognuno nella sua stanza. E intorno al palazzo tutto questo tempo, si fanno exquisite veggie di giorno e di notte, accioché nessuno di quei di dentro tratti niente con quei di fora, né quei di fuora con quei di dentro, né per parola né per lettere.

Si fanno, per dar questo grado, tre essami in tre giorni, e sono sempre gli istessi in ogni provincia, cioè il 9° giorno, il 12° et il 15° della ottava luna, e dura dalla mattina sino alla notte, con le porte serrate, perché la stessa città dà un desinare leggiero in quel dì a tutti quei che stanno dentro, essendo tutto apparecchiato il giorno avanti. All’entrare de’ siuzai, che si hanno da essaminare, si fa grandissima diligentia che non portino seco nessun libro scritto, ma solo doi o tre pennelli, con che si scrive la loro lettera, et il calamaro e intenta, con carta per scrivere e copiare la sua compositione. E così sono ricercati, sino a dentro delle vesti, penelli e calamari; e se gli ritruovano con qualche libro o cosa scritta, oltre non lasciarlo entrare all’essame, sono castigati severamente. Tanto che sono entrati, serrate e sigillate le porte, il primo giorno gli essaminatori di Pacchino propongono in pubblico a sua voglia tre sententie, cavate dai Quattro Libri, sopre le quali hanno tutti da fare tre compositioni.

Propongono anco di ciascheduna delle Cinque Dottrine quattro sententie per tema di altre quattro compositioni che hannno da fare; di questo ogni siuzai, piglia quelle della Dottrina in che si esercitò. Queste sette compositioni hanno d’essere elegantissime e di molto buoni concetti, guardando le regole della loro rettorica, e non può essere nessuna molto maggiore o minore di cinquecento lettere, che rispondono a altre tante nostre ditioni. Al secondo giorno gli stessi entrano e sono serrati nell’istesso modo, e gli propongono varie cose accadute nelle historie antiche, o che possono accadere; e sopre queste fanno tre discorsi, dicendo il loro parere sopre quei casi o avisando al Re quello che si deve fare.

Il terzo giorno similmente gli propongono tre casi o liti, che possono occorrere negli officij publichi; sopre de’ quali ogn’uno risponde con tre compositioni la sententia che darebbono in tali casi.

Ogni siuzai, trascritte le sententie della compositione, se ne entra nella cella che i deputati gli assegnano, e, senza parlare con nessuno, fa le sue compositioni; e dipoi le scrive in un libro che solo si fa a questo effetto, nel fine del quale scrive il suo nome, e di suo padre, avolo, e bisavolo, e la sua patria, e lo segna con colla, ché nessuno lo possa vedere et aprire, e lo presenta ai deputati. I quali, riceuti (il libro, lo) fanno copiare in un altro libro con lettera roscia a molti copiatori, che stanno già messi dentro per questo effetto, e solo questa copia di lettera roscia danno agli essaminatori, lasciando l’originale nella stanza deputata a ciò con suoi numeri respondenti. E questo fanno accioché gli essaminatori non possino sapere l’autore di quelle compositioni, né anco cognoscendo per la loro lettera. I primi essaminatori di fuora crivellano queste compositioni tutte, lasciando le cattive et anco le manco buone, et eleggono di tutte il numero doppio di quanti hanno d’essere i licentiati: come, se hanno d’essere cento cinquanta, sciegliono trecento le migliori, e se hanno d’essere novantacinque scielgono centonovanta; e le mandano alle stanze degli doi essaminatori di Pacchino, i quali tra questi elegono le migliori compositioni, tante quante hanno d’essere i graduati. E, dipoi di elette e poste in ordine di più perfette, perché importa anco molto avere il primo luogo o altro infeiore per l’onore et utile del autore, e poi di elette, tutti gli essaminatori et altri deputati insieme le conferiscono con gli originali, e aprono i nomi degli autori di esse. E gli scrivono in una tavola grande con l’istesso ordine, e la pongono in publico nel fine della 8a luna, con grande concorso e festa de’ magistrati e di quei che conseguiscono il grado, e de’ suoi parenti et amici.

Questo grado è assai maggiore del primo e conseguentemente più preggiato, e tiene altri maggiori privilegij, e tengono altro vestito proprio. E se vogliono, senza essaminarsi per l’altro grado, possono avere assai gravi et honesti officij e magistrati nel regno.

Finito questo atto, gli essaminatori di Pacchino fanno un libro di tutto il successo dell’essame con il nome di tutti i graduati, et alcune compositioni di tutte le materie proposte, specialmente quella del primo tra graduati che si chiama chiaiiuen; e lo stampano di molto bella lettera, per divolgarsi e sapersi i nomi de’ graduati per tutta la Cina; e ne presentano alcuni tomi al Re et a quei del palazzo. In questo essame non entrano siuzai di diversa provincia; solo nelle due Corti entrano alcuni che hanno privilegio, per essere di doi collegij delle

Corti dove studiano, e entrano con pagare certe quantità de scuti alla camera reale.

Il terzo grado si chiama zinsu, che corrisponde al nostro di dottore. Questo si dà anco di tre in tre anni, et è sempre l’anno seguente all’altro de’ licentiati, solo nella corte di Pacchino, a trecento persone. A questo entrano solo i licentiati di ogni provincia e si fa sempre nella 4a luna, negli stessi tre giorni che si fecero i licentiati, e della stessa forma e modo senza discrepar punto. Solo, per esser questo grado di assai maggior importantia è molto maior la diligentia che se vi pone, accioché non vi si facci qualche inganno, e gli essaminatori sono persone più gravi, entrando in essi un Colao, che è il magior offitio di tutto il regno, et altri magistrati gravi deputati dal Re. Finito l’essame et eletti quei che hanno da dottorarsi nel luogo ordinario de’ licentiati, vanno tutti insieme dentro del palazzo regio, assistendo tutti i magistrati principali, e soleva anco assistervi l’istesso Re in questo. Con una compositione che tutti fanno sopra il tema che gli danno, si distingue l’ordine tra di loro in pigliare gli officij, e se ne fanno tre classi, di che si fa molto caso, dipendendo tutto d’una breve compositione. Quello che nel primo essame hebbe il primo luogho, tiene securo il 3° in questo 2° essame; ma quello che nel 2° essame tiene il primo, che è cioniuen, e (il) 2° luogo, che è tanhoa, tiene un grado assai eminente nel regno, e sempre anda con gravi offitij nella Corte; e non gli saprei comparare meglio ai nostri, se non a un duca o marchese, se questa dignità si trasferisse in suoi figliuoli.

Questi dottori, subito nello stesso anno, tengono veste, cappello con de’ stivali et altre insegne de’ magistrati, e sono proveduti di officij assai buoni, precedendo a tutti gli altri senza questo grado. E sono tenuti per nobili e persone gravi del regno; tanto che quei che puoco avanti erano suoi compagni, dipoi restano tanto inferiori che non si può credere, dandogli tutti vantaggio in ogni parte, e parlandoli con altri modi di parlare più cortesi et alti.

Quei licentiati che non potero conseguire il grado di dottore, se vogliono, potranno anco ottenere qualche officio, o dentro o fuora della Corte, assai competente, ma inferiore alli dottori; se non, tornano a sua casa a studiare, e entrano all’altro essame che tre anni di poi si ha da fare; e questo tante volte quanto gli piace. E sono alcuni che vengono dieci e più volte senza potere addottorarsi e morrono senza tenere offitio, per volere prima conseguire il dottorato.

Di questo essame de’ dottori si stampa anco per via degli essaminatori un libro con il nome de’ graduati, e le principali compositioni, che si divolga per ogni parte.

È cosa notabile che questi dottori, et anco licentiati, dell’istesso anno contraheno tra di loro una relatione et amicitia sì grande, che sono come fratelli, e si agiutano gli uni agli altri, et anco a’ suoi parenti, sino alla morte. Con gli loro essaminatori contraheno un’altra molto magiore come discepoli a maestri, e si amano come padri e figliuoli con molto rispetto e riverentia.

Di tutti gli addottorati nello stesso anno et offitij, patria, parenti, salire et essere abbassati a altro offitio sino alla morte di ciascheduno di loro, si stampa un altro libro, il quale ogn’anno si rinova et si ristampa di novo, dove si vede l’istoria di ogn’uno di questi dottori.

Questo modo di dar gradi di licentiato e di dottore si usa anco negli stessi anni ai soldati, con gli stessi nomi di chiugin e di zinsu, e negli stessi luoghi; cioè il grado di licentiato nella metropoli, e quello di dottore in Pacchino, in un altro mese diverso. Ma, come in questo regno vagliono puoco le armi, e le arte militare è sì puoco stimata, si fa con tanto manco solennità, e si dà a sì puoca gente, che pare una compassione.

Gli esami che si fanno sono tre. Nel primo, correndo a cavallo con arco, tirano nove freccie a tre bersagli, che stanno posti in una banda del corso. Nel secondo tirano a piè fitto altre nove freccie. E quei che almanco con quattro a cavallo e due a piè toccano il fitto, entrano nel terzo essame, nel quale si dà un tema di cose di guerra, sopra del quale scrivono un discorso. E dipoi i giudici et essaminatori conferiscono tutti questi tre essami. Et in ogni provincia dànno il grado di licentiato in arme intorno a cinquanta persone; e l’anno dei dottori dànno in Pacchino il grado di dottore in arme a cento persone scielte per essame tra i licentiati di tutte le quindeci provincie. I licentiati puoco montano; i dottori, con qualche puoco favore e buona copia di danari, conseguiscano qualche buona capitania.

Sì i dottori e licentiati di lettere come di arme, pongono sempre nelle loro porte un titolo di lettera molto grande, (con) che significano il grado che ànno conseguito, per honore della loro casata. È anco da notare che tutti i presidenti, essaminatori e giudici di questi essami, non solo delle lettere, ma anco della matematica, medicina, e delle armi, sono magistrati del grado di letterati, e non entra nessun matematico, né medico, né capitano de’ soldati, cosa assai nova ai nostri. Per dove si vede il credito che hanno in questo regno i letterati, che certo, pare a loro, che un letterato può dar buon giudicio di tutte le cose, anco di quelle che mai professò.




Conoscenza

Carlo Moiraghi*

Chi di voi è saggio e intelligente? Lo dimostri con le opere di una buona condotta, unite alla dolcezza che è propria della vera sapienza. Ma se, al contrario, avete in cuore amara invidia e discordia, non gloriatevi e non mentite contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: ma è una sapienza terrena, carnale, diabolica. Dove c’è invidia e discordia, vi è pure disordine e ogni sorta di male. Invece, la sapienza che viene dall’alto in primo luogo è pura, poi pacifica, indulgente, conciliante, piena di misericordia e feconda di buoni frutti, aliena da parzialità e da ipocrisia. Il frutto della giustizia è seminato dalla pace, a bene di coloro che diffondono la pace.!

Giacomo 3, 13 – 18

Per accedere alla via della conoscenza conviene evocare la propria mente bambina e ascoltarla, e chiederle, e imparare da lei. La mente bambina conosce la realtà perché anche l’esistenza è una bambina, semplice e pura, e solo un’altra bambina tenera come lei può conoscere le regole e i linguaggi di questo mondo bambino, e te ne parla e te li spiega se vede che tu lo desideri, però tu mai la tradire. La conoscenza non è una via, è un campo, vi si perviene da innumerevoli accessi, si apre in innumerevoli direzioni, di ogni genere e di ogni qualità. Vi è di tutto nel campo della conoscenza, di tutto e del contrario di tutto, così la conoscenza in sé non è né buona né cattiva. !Sta a te darle un significato, un valore. Sta a te riconoscere una zolla da un’altra, una conoscenza dall’altra, e trovare e scegliere per te almeno un pugno di terra umida e fertile. Dipende da te, la tua mente bambina lo sa fare, tu chiedile in onestà di aiutarti e segui i consigli che ti da, quali che siano. Vedrai che ti troverai bene.

La conoscenza è uno sterminato campo di papaveri, ogni papavero è una corolla di petali,

ogni petalo è un segreto del vivere vero, e vi è un tempo della tua vita in cui ogni mattina un petalo si apre per te. È la tua mente bambina che suggerisce ai petali di venire da te, li convince, forse li attira, forse con le sue rosee guance paffute li soffia piano piano verso di te.

Così, invaghito dei teneri sorrisi e dei versetti della bimba ogni giorno un petalo viene a te, puntuale, e giunto a te si apre. Ormai lo dai per sicuro e ogni mattina aspetti la sua venuta, e prima o poi viene, presto o tardi ogni giorno viene, gioca con te, scherza con te, chiacchiera con te, con la tua mente bambina, poi non le resiste e si apre, e il suo segreto per te non è più segreto. A te spetta di ricordare come quel petalo e il suo segreto in sé non portino a nulla, perché la conoscenza, di per sé, non porta a nulla. È un campo sterminato, non ha una direzione né un verso, però è meraviglioso, macchie rosse di papaveri spruzzate nei gialli e nei verdi e intarsiate gli azzurri, una distesa casuale, difforme, con cumuli di erbacce e di pietre nei terricci smossi.

Il papaver somniferum ha fiore ermafrodito, comprende quindi dentro di! sé sia androceo che gineceo, ovvero stami e ovario, e ovuli e stilli. La sua fioritura è estiva, l’impollinazione entomogama, mediata cioè da insetti pronubi entusiasti delle tinte corallo e dei succhi squisiti prodotti dalle ghiandole presenti in quei petali, i nettari. Come da sempre si sa è fiore magico e lo dimostra anche con quel nulla che dura. Il suo petalo si fa niente in un non nulla sotto i tuoi occhi e tu resti lì, unico sopravvissuto, lo stringi nella mano e lui ora è solo un poco di fragranza gialla e arancione nel tuo palmo, caro. Hai presente i campi dei papaveri? Meravigliosi, sparsi fiori scomposti, storti, sghimbesci, stralunati, e neppure dello stesso colore, rossi, rosa, sbiaditi, violacei, biancastri, con quei minuscoli sbuffi scuri appena nascosti, quei semi giallastri appena intravisti, quattro petali in croce perennemente spiegazzati dai venti eppure resistenti, macilenti e meravigliosi, anche in questo loro stentare penduli meravigliosi. Invece sono solo una piccola prova. La conoscenza non porta a niente e non è che una piccola prova, però è meravigliosa.

L’unica vera direzione della conoscenza sta nel processo stesso della scoperta, nel vivere la soddisfazione in te perseguendola, nella bellezza di vedere aprirsi quel petalo per te, in te, la conoscenza è questo, non è nel presunto oggetto scoperto, che è del tutto effimero e secondario e può fuorviare, e che rappresenta la tentazione.

La conoscenza, almeno nei suoi primi passi, sta sempre tutta nel! medesimo petalo, nel medesimo segreto, consiste nel vivere in che modi nei differenti contesti e scenari il molteplice si faccia uno, il due si faccia uno, il numero si riveli uno, la cifra quale che sia si risolva nell’uno, sta nell’accorgersi di come il molteplice già sia uno da sempre né potrebbe essere altro, è conoscenza riunitiva, insomma uno e nessuno due, comprendere e fare esperienza di come nei singoli casi ciò avvenga.

Sta tutto dentro il rosso vermiglio quasi trasparente di quel petalo strappato che appena aperto sta già svanendo, sta tutto nella delicata fragranza di quel niente che è, e non è profumo.!!!!! Sappi come lungo le strade della conoscenza la debolezza sia la forza vera e come la forza sia la vera debolezza, e come al termine dei conti dei servi e della conta degli schiavi, che facciamo tutti perché siamo tutti servi e schiavi, servi di servi e schiavi di schiavi, sia conveniente ritrovarsi nel dare, non nel prendere, magari non nel dare tanto, non nel dare tutto ma nel dare, qual cosina ma dare. Sia però chiaro come dare e prendere siano modi, radici, principi, archetipi, nature, e non si possano quindi quantificare, se provi a quantificarli li! tradisci. Così pretendere di quantificare il dare, specificare dare poco o dare tanto, è già prendere, e la conoscenza è altrove. Anche quel campo allora è altrove, anche i papaveri e i petali e perfino tu, e neppure sai dove. Sai solo che quella bambina gioiosa, desiderosa di attenzioni, di libertà e di rispetto, la tua delicata mente innocente, ora non c’è lì con te. Ti domandi se forse senza accorgertene tu l’abbia delusa e se per questo lei non sia venuta. Forse invece ti era ben chiaro di tradirla quando alle prime tentazioni hai ceduto e l’hai rinnegata, forse anche senza incertezze, eppure sapevi quanto ne avrebbe sofferto, quanto si sarebbe indebolita, quanto ti saresti perduto, e adesso sei solo. Al tuo fianco ora non c’è più nessuno. Non ti resta che attendere, sicuro dell’indulgenza, del perdono e della prossima riunione. Di quando in quando sbirci dattorno, a lungo, ne ricerchi i segni del ritorno, finché lieve, quieta, finalmente odi di nuovo la voce bambina, il fiore e il profumo, intonare il felice racconto. Ti accorgi così di come l’insegnamento sincero da sempre risuoni fra il cielo e la terra dovunque, solo che vi si presti fiducioso e felice l’ascolto.

Cantico della riunione dei cuori

Nel tempo come fuori dal tempo, dove gli arcobaleni degli ultimi ed i cieli dei primi coincidono, alte strofe, segrete e evidenti, cantilenò la chiarissima voce, e vi fu chi le udì e le trascrisse. Non fu un caso. Mai lo è. “Ogni alito, amore mio grande, coniuga i due soffi e i due mondi, fa uno di due, né altro potrebbe, onnipresente sempiterna riunione dei cuori. E’ quanto mi hai insegnato, ora ascoltami tu. Non volere scoprire quanto non appartiene a quel mondo cui tu oggi dai forma e fiato e tinta e nome. Vedi amore, noi già varchiamo ogni cielo ogni istante. A chi ama non sono posti confini. La via della conoscenza è plasmata di amore,di libertà non di sforzo, di pace non di tenacia. Varie volte la tenacia consuma. Vedi amore, oltre l’oltre da tempo ti è aperto, spalancato, non vedi? Da sempre e per sempre oltre l’oltre abbraccia ogni vivo, ma così, come tu fai, tentandolo, violandolo, amore mio caro, forse già io ti vado perdendo, e forse tu me. Bada. Non volere provare, sperimentare, diventare, andare via, volare via. Non volere. Sei completa e meravigliosa così. Accorgitene. Sei completo e meraviglioso così. Sii responsabile anche e soprattutto verso te stesso, e verso di me, che ti ho donato il cuore. Io sono tua. Già ti ho detto, ma vale ricordartelo. Pratica unicamente ciò che sei, ma meno, meno, molto molto meno, e solo alcune volte, unicamente quando davvero necessiti. Non è affatto un gioco e lo sai. Puoi soffrirne. Ti può scottare e gelare. Allora? Resta qui cara, insieme a me. Rimani qui, caro amore, con me. Stammi vicino. Non ti accorgi? Non ti basta quanto siamo felici? Non vedi? Guardami. In questo modo in questo mondo Vivrai. Mano nella mano vivremo. Già da sempre viviamo insieme, noi due. Ricorda quell’antica promessa. Attraverso le vite. Noi.”




I Commentari di Padre Matteo Ricci: un resoconto della Cina del 1600 attualissimo per gli europei del III millennio – capitoli III e IV

Matteo Ricci*

Capitolo III

Delle cose che la terra della Cina produce

1. Fertilità della Cina in frumento, orzo, miglio, riso, legumi, frutti, fiori, betel, arecca, oli e vini. 2. Animali di cui si suol mangiare la carne. 3. Cavalli, pesci, tigri, orsi, lupi, volpi, elefanti. 4. Lino, cotone, seta, velluto, canapa, lane, tappeti, pelli. 5. Ottone, ferro, oro, argento, moneta; zecca. 6. Grande produzione e commercio di porcellana esportata fino in Europa. Vetro. 7. Piante: quercie, cedri, bambù; carbon fossile. 8. Piante medicinali: rabarbaro, moscato, legno santo, salsapariglia. 9. Sale di mare, di pozzi e di stagni; zucchero, miele e tre varietà di cera. 10. Varie qualità di carta: differenze dalla carta europea. 11. Pietre preziose, rubini, perle; colori; muschio, profumi; bitume. 12. Grande varietà, preparazione e uso del tè in Cina e in Giappone. 13. Molteplice uso della vernice, chiamata ciorone dai Portoghesi di Macao. 14. Spezie: cannella, zenzero, pepe, garofani, nocemoscata, aloe, calambà ecc. 15. Salnitro per polvere da sparo e per fuochi artificiali.

 

Per essere questa terra grande e stesa, non solo da levante a ponente, come la nostra Europa, ma anco dal settentrione al mezzogiorno, produce tutta insieme più varietà di cose che altra nessuna; posciaché contiene più varietà di climi, da la varietà de’ quali dipendono le cose che si producono, ricercando une, terra fredda, altre, caldo, et altre, temperata. E così ne’ sui libri di cosmografia si descrive molto copiosamente quello che ogni provincia e ogni regione produce, che sarebbe cosa lunga tutto qui riferire.

 

“Padre Matteo Ricci è il missionario gesuita (Macerata 1552 – Pechino 1610) che annunciò il cristianesimo in Cina e gettò il primo vero ponte culturale tra Oriente ed Occidente. È stato autore di numerosissime opere scritte in cinese per diffondere in Estremo Oriente gli aspetti più significativi della cultura europea (religione, matematica, astronomia, filosofia etc) ma scrisse anche i Commentari della Cina per far conoscere in Europa le meraviglie della cultura e civiltà cinese. È un piacere diffondere questo testo opera di un mio concittadino, visto che Olos e Logos viene editata a Civitanova Marche, in provincia di Macerata, dove Matteo Ricci nacque nel 1552

Lucio Sotte

 

E si può dire insomma quello che tutti i scrittori dicono di essa, essere molto abondante di tutte le cose necessarie al vitto, vistito, colto et anco vezzo humano. Puosi anco dire essere in essa tutte le cose di Europa.

Percioché è fertile di biade e vittuvagli, vi è frumento, orgio, miglio panico, sagena et altri diversi. Ma di gran riso, che è il più commune loro vitto, come di pane fra noi, ve ne è in molto maggiore abundantia che tra di noi. Oltre i legumi, specialmente fascioli, che ne pascono anco gli animali. E di queste sorti de biadi in molte provincie seminano e raccogliono due e tre volte nell’anno. Di dove si vede anco la industria di questa gente, la bontà della terra et abundantia della cosa più principale al vitto humano.

De’ frutti, anco, fuora di mandorle et olive, nessuna delle principali ve ne mancano, e ne hanno molte altre che mancano ne’ nostri paesi; come nella provincia di Cantone et altre al mezzogiorno, hanno licie e longane, frutta assai dilettevole al gosto; cocchi, che sono le noci indiche, e due altre sorti, che si chiamano suzu e paziao con le più belle melarancie et frutte di alberi spinosi, che in nessuna altra parte del mondo.

L’istesso si può dire di cose che nascono negli horti, delle quali più usano che noi, per esser molti fra la gente più bassa che tutto l’anno si sostentano di queste cose.

Dei fiori anco non mancano, ma fanno loro più caso della bella apparenza agli occhi che del bello odore; e così tra loro è incognita l’arte dello stillare, sì ne’ fiori come nelle herbe. Nelle quattro provincie più al mezzogiorno vi è la foglia del betre e l’albero di arecca, come nella India, della quale tutto il giorno masticano, con grande loro gosto, huomini e donne, mescolata con calcina viva; e dicono essere assai calda et utile allo stomaco.

Non avendo olio di oliva lo fanno pure assai buono, per condire le vivande e per ardere, di molte più cose che noi; ma il principale e migliore è di gergellino, per il che in ogni terra ve ne (è) abondantemente.

Ne’ vini sono assai inferiori a’ nostri, benché loro si persuadeno tutto il contrario; percioché producendo la terra puoca uva e puoco dolce, non fanno di essa vino, ma lo fanno di gran riso et altre molte maniere che fa esser la terra pieno di esso. Con il quale stanno contentissimi, perché nel vero et è di assai buono sapore, e non è tanto adustivo come il vino di uva.

La carne ordinaria è di porco; ma non vi mancano altri animali, come boi, bufali, pecore, capre, galline, anatre e oche, con cavalli, e muli, e cani, che loro vendono ne’ macelli come ogni altra carne. In alcuni luoghi, o per soperstitione o per non far danno alla agricultura, si astengono di amazzare boi o bufari.

Vi sono anco in ogni parte carni di caccia, di cervi, lepri et altri ucelli, non molto cara.

E così possiamo dire di essere anco simili alla nostra di animali.

I cavalli et altri giumenti da cavalcare, se non arrivano alla bellezza de’ nostri, almanco arrivano alla multitudine et abondanza, e ci passano nel vilezza del prezzo della vittura.

Non sanno scozzonare i cavalli, e così sogliono castrare tutti quei che servono al loro uso, etiamdio quei di guerra che sono moltissimi; ma solo all’udito de’ cavalli de’ Tartari fuggono, e così sono assai inetti per le battaglie, oltre non essere ferrati e non poter resistere i piedi in camini di pietre.

E questo ne’ luoghi dove i fiumi non stanno tanto alla mano; percioché è tanto distinta e piena questa terra di fiumi che, quasi per ogni parte, si può andare per camino di acqua, parte per fiumi naturali, parte per altri canali fatti per opera et industria humana. E da qui avviene l’incredibile multitudine di barche che vi sono nella Cina per il loro trafico e viaggi, che fece dire, ad uno de’ nostri scrittori, che tanta gente in essa stava sopre l’acqua come sopre terra; il che, sebene non è vero, nondimeno è cosa che può parer vera a quei che solo fanno viaggio per i loro fiumi.

Di qui anco si segue l’abundantia del pesce, non solo di mare, dal quale è bagnata dalle due parti del levante e del mezzogiorno, ma anco di molti lachi e fiumi che paiono bracci di mare per la loro grande larghezza e profundeza, oltre molti vivarij di pesce, assai più soliti che tra’ nostri, dove pescono pesce per vendere e per i loro usi, che in tutto l’anno mai vi manca.

Nelle loro selve non vi sono leoni, ma molti tigri, ursi, lupi e volpi.

De elefanti solo in Pacchino ne sono sostentati molti, solo per piacere e magnificentia, venuti di altri regni di fuora, et in nessuna altra parte ve ne sono.

Non hanno lino, e così il loro più comun vestire è di tela fatta di bambace, il cui seme, sebene da quattrocento anni inanzi non vi era nella Cina, con tutto adesso pare che ne ha tanta copia che la può communicare a tutte le parti del mondo; tanto fertile di essa si ritruova essere questa terra.

Doppo questa viene la seta. Questa ci fa dubitare se ne hanno più che le nostre terre, per vedere tutto ripieno di essa; della quale fanno pezze di raso, di taffettano, di damasco, et adesso anco velluto, e tutto quanto tra noi si fa, tre o quattro volte più buon mercato che tra di noi.

Vi è anco molta canova et altre erbe di che fanno varie tele, specialmente per l’uso della state.

Sebene di pecore non fanno cascio, e quello puoco che usano di latte è solo di buoi, con tutto fanno molta lana, nella quale pure ci cedono, non sapendo fare panni di lana; e così qua è molto caro e stimato il nostro panno.

Fanno pure di essa molte sargie e molto più feltri per le berrette e cappelli della gente ordinaria, et in luogho de’ nostri tappeti ne’ quali dormono e fanno le loro cortisie. Di questo l’uso è maggiore nelle parti settentrionali, le quali, sebene non stanno in tanta altezza di polo come le nostre, imperò il freddo è maggiore o uguale, congelandosi le acque de’ lachi e de’ grandissimi fiumi, senza potersi saper bene la causa di ciò. Di questi freddi si riparano anco con assai buone pelle di volpe, martellini et altri animali.

Tutti i metalli tengono, senza nessuna excettione, copiosamente. Oltre l’ottone giallo, fanno un ottone bianco, che pare argento, dell’istessa valuta che il giallo.

Ma del ferro colato fanno assai più opera che i nostri, come sono caldari, laveggi, pignatte, campane, mortali, cancelli, fuoconi, artigliarie, celate, mazzi et altri simili, che costano assai puoco.

L’oro assai fino vale molto manco che tra noi.

L’argento è la loro moneta ordinaria, senza batterlo; e così in tutte le compre si ha anco da pesare il prezzo, che è l’argento; che è cosa assai difficile per la varietà della finezza di esso che loro fanno e falsità che in esso si fa continuamente. Solo vi è qualche uso di quatrini di ottone fatti nella zecca regia.

Si fanno anco molti vasi di oro et argento tra la gente grave, ma assai manco che tra di noi. Le donne ancora negli ornamenti della testa ne consumano molto.

Ma quanto all’ordinario de’ vasi della tavola vi è la porsolana, così detta da’ Portoghesi, che è la più netta e bella cosa del mondo. La più fina di essa si fa nella provincia di Chiansino, dove vi è la terra di che essa si fa; e da qui si spande per tutto il regno in somma copia, e se ne manda anco ad altri regni sino ad Europa. È bella nell’apparenza e netta, che è quello che più si ricerca nel mangiare, e non si fende né rompa con cose calde e ferventi.

Adesso fanno vitrio, ma assai inferiore al nostro.

Quasi tutti gli edificij, anco quello del palazzo regio, sono di legno. Di dove e dalla multitudine di barche e navilij nel mare, fiumi e lachi, che habbianmo detto, si infere quanto piena sia la terra di alberi, communemente della stessa specie che i nostri.

Non vi ho viste quercie; ma ve ne è una sorte, che chiamano legno di ferro, incorruttibile e fortissimo, assai superiore alla quercia.

Vi è anco cedro, ma parmi che l’uso di esso, e per rare cassoni de’ morti, de’ quali in questa terra si fa molto caso, et alcuni ve ne sono che costano mille scuti l’uno.

Vi è anche una sorte di canna che i Portoghesi chiamano bambù, dura come ferro. E  la grossa non si può abbracciar con doi mani; e, sebene è vacua e distinta con cannelli e nodi, e però può servire per colonnello e di haste per le armi, cesti ed altri usi, che sarebbe lungo dichiararle.

Questa non vi è in ogni parte, ma in quelle dell’ostro, da’ quali si porta per tutta parte.

Per il fuogo non solo hanno le legna delle selve, carbone, canne e paglia come noi, ma vi è in questa terra un bittume o tufo, che loro chiamano mui, molto eccellente per questo effetto, senza nessuno fumo, il migliore nelle parti settentrionali. Questo si cava di varie miniere, che mai finiscono, e si vende ad assai buon mercato, per uso della cocina e delle stufe in queste parti settentrionali.

Delle cose medicinali produce questa terra alcune che non si ritruovano in nessuna altra parte, specialmente il reubarbaro et il moscato, che i saracini della Persia per terra portano alle altre parti del mondo e vendono sì caro, valendo qua sì puoco; percioché il reubarbaro val doi baiocchi la libra, et il moschato sei o sette ducati.

Qua anco nasce il legno santo e salsapariglia nelli deserti, et non costa più che irlo a cavare dalla terra.

Il sale non tutto si raccoglie dalle parti marittime; ma nelle provincie assai lontane dal mare vi sono acque di che fanno sale con molta facilità, e così ogni provincia adonda di esso. Con tutto, per essere l’uso di esso sì grande, molte delle entrate del Re sono per via del sale, et i magiori mercanti della Cina sono quei che traficano in sale.

Maggiore è l’uso tra di loro di zucaro che di miele, avendo di ambedue le cose eguale abundantia.

Quanto la cera, non solo vi è quella delle api, ma anco un’altra assai più bella e bianca, fatta pure di certi vermini che sostentano in alberi, che solo servono a questo uso; et è più dura e più relucente quando di essa fanno candele, né è tanto glutinosa. Un’altra anco ve ne è, fatta di un frutto di un albero, non inferiore a questa nella bianchezza, ma di molto manco luce.

Come in queste parti è grande l’uso della carta, facendo varie cose di essa, oltre i libri e lo scrivere, così si fa essa di assai varie cose, ma cedono molto alla nostra, e tanto che in nessuna sorte di essa si può scrivere nè stampare in ambe le parti, ma di una sola. E così, ad ogni nostro foglio rispondono doi dei suoi; e facilmente si rompe e dura poco. Con tutto questo fanno  foglia grandissime di doi e tre passi in quadrati, et è bianchissima quella che è fatta di bambace.

E lasciando le pietre di marmore, mischi et altri colori, et gli rubini, perle et altre cose pretiose, colori assai fini, odori di legno et altri bittumi, dirò di doi o tre altre cose a noi incognite.

Una è d’un arbucello infruttifero delle cui foglie fanno il cià, cosa assai pregiata in quelle parti et anco nelle circumvicine, cui uso non è antiquissimo nella Cina per non ritrovarsi tal lettera ne’ libri antiqui; e così pare che ne’ nostri boschi vi sarà anco questo genere di arboscello. Queste foglie cogliono nella primavera e seccano all’ombra; e guardano per fare una decottione di acqua, della quale usano molto, per essere di molto gosto al bevere et utile alla buona dispositione e digestione, bevendosi sempre assai calda e tutto il giorno, si può dire.  Percioché, non solo alla tavola, ma anco tutte le volte che viene uno di fora alla loro casa, la prima cosa che si presenta a tutti è una tazza di cià per bevere, e di poi va continuando, se sta molto tempo, tre o quattro volte. Ve ne è di molte varietà, uno più perfetto che l’altro; e così vale alle volte uno scuto alla libra et altre doi e tre.

Nel Giappone è più caro, e vale dieci e dodici scuti il più fino. Ma per l’uso di esso è qualche cosa differente dalla Cina; perchè nel Giappone macinano  queste foglie come farina e depoi in ogni tazza de acqua calda ne bottano uno o doi cocchiaretti, e così insieme con l’acqua lo bevano. Nella Cina mettono in un vaso di acqua calda una mezza oncia di queste foglia, e de quella acqua bevono lasciando le foglia nel vaso.

L’altra cosa è una vernice, fatta di un bittume che cavanolo dalla scorza di certi alberi, come latte di esso glutinoso, che chiamano i Portoghesi ciorone, con il quale invernicciano le tavole, le porte, i letti, le barche, le case e tutte le massericie di legno, dandoli varij colori che fanno parere tutto di osso brunito; cosa molto bella agli occhi e netta per l’uso de dette massaricie, che durano molto tempo. E questa è la causa delle Cose dei Cinesi e Giapponi parere così belle e lucide; percioché tutto legno cuoprono di questa vernice, e non si vede nessun colore proprio di legno. E di qui anco avviene che né Cinesi né altri popoli, che hanno di questo ciorone, pongono tovaglie nelle loro tavole; percioché ogni tavola sta coperta di questa vernice che pare uno specchio. E dipoi di mangiare, lavano con acqua o nettano con panno la tavola; e resta così lustra come prima, per non potere attaccarsi niente ad esso per esser molto liscio e duro.

Di questi alberi si potrebbono facilmente portare piante alle nostre terre; ma nessuno sin ora vi fu che procurasse questa bella opera.

Oltre questo ciorone vi è anco un olio, fatto di un frutto assai simile a esso, che cotto serve per lo stesso effetto e ve ne è assai magior copia.

Tiene anco questa terra tutte le droghe, molto sufficientemente la cannella et il gengibero, perché nascie copiosamente in sua terra. Delle altre, come di pepe, garofani, noce moscata, aloe o aquila, e calambè, coralli, ebano, avolio, rosamaglia, storace, sandalo, et altro stanno assai presso alle terre di Malucco, di dove è portata per mare ai nostri paesi; e così qui tutto val puoco, e non è tenuto per cosa sì pretiosa come tra’ nostri.

Finalmente è fertilissima questa terra di sanitiro. Ma l’uso di esso non è tanto per far polvere per la guerra, nella quale usano puoco di archibugi e molto manco di bombarde o artiglieria, ma tutta si spende in giochi di fuochi artificiosi, che fanno tutto l’anno nelle loro festi con tanto artificio, che nessuno de’ nostri lo vede senza grande meraviglia; facendo varie invenzioni di fiori, di frutta, di battaglie e girandolo nell’aria, tutto con questo artificio di fuocho. E un anno in Nanchino giudicassimo che in cerca d’un mese, nel principio dell’anno novo, si spese più sanitiro e polvera di quello che si spenderebbe tra di noi in una guerra continua di due o tre anni.

 

Capitolo IV

Delle arti meccaniche di questa terra

1. Ragioni dell’imperfezione delle opere artistiche in Cina.                 2. Architettura ed edilizia: edifici a pianterreno e senza fondamenta.  3. Stampa su forme di legno, e abile riproduzione per calco.                  4. Inferiorità della loro pittura e scultura e delle loro campane.               5. Strumenti musici, musica e canto; introduzione degli organi e dei gravicembali europei. 6. Varie specie di orologi e loro imperfezioni; orologi equinoziali sbagliati. 7. Rappresentazioni teatrali,                 specialmente durante i conviti. 8. Grande varietà di sigilli per             autenticare le proprie opere. 9. Inchiostro cinese; sua preparazione e suo uso. Pennelli da scrivere. 10. Grande varietà di ventagli; uso generale di essi; regali che se ne fanno. 11. Uso di tavole alte per la mensa, di sedie e di letti.

 

Conciosia cosa che e per fama e per chiara notitia sappiamo l’essere questa nazione di grandissimo ingegno et industria, dalle cose che nel Capitolo di sopra si disse, facilmente si può raccogliere essere in questo regno ogni arte in grande perfettione; poi a nessuna manca né la materia né la sua paga e mercede che fa fiorire tutte le arti. E così in questo Capitolo non farò altro che toccare qualche cosa in che tra’ nostri artigiani et i loro vi sia qualche differentia.

Et una è assai ordinaria che, per essere i Cinesi moderati e parchi nelle sue cose, non fanno molto grande spese. E di qui avvieni che gli arteggiani non sempre pongono le sue forze tanto in fare l’opre sue molto perfette, quanto in farle con puoca spesa di danari e di tempo, per potere vendere tutto a molto miglior mercato; e soventemente falsificano molte cose e non gli fanno altro che una bella apparentia. Nel che, pare a me, sono contrarij i nostri (e così loro lo confessano), che tutto fanno con molta perfettione per venderlo di poi più caro. E questa imperfettione delle opere nella Cina molto più notabile è in quelle che fanno ai magistrati, per essere da loro pagati con manco prezzo che dagli altri, e essere fatti venire per forza a fare le loro opere.

Nella architettura sono inferiori ai nostri, sì nella bellezza come nella fortezza degli edificij. Nel che non so si sieno più di biasimare i nostri che i Cinesi, i quali non edificano se non per durare gli puochi anni che hanno di vita e non migliaia di anni come i nostri. Et il commune etiamdio dei grandi palazzi del Re et altri signori sono appié piano e senza cantina sotto la terra. E così non ponno né credere né imaginare la magnificentia delle nostre fabbriche publiche e de’ particolari; e stupiscono quando gli diciamo che ordinariamente le nostre case durano centinaia di anni, e ve ne son alcuni edificij di mille e due milia anni, che stanno anco in piedi e molto forti. E siccome la causa de durare i nostri tanto, sono gli alti e buoni fondamenti che gli facciamo, alle volte più profondi di quello che hanno d’essere alti; così la causa di durar puoco i loro è perché, o non vi fanno nessuno fundamento, se non fosse il porre sotto qualche pietra e battere la terra, o si lo fanno, non sono di un braccio o doi di fundo, anco i muri, torri et altri edificij altissimi. E così puochi arrivano o passano di cento anni, anco gli edificij de’ muri delle città e palazzi regali, senza l’esser renovati molto soventemente, oltre che, come habbiamo detto, gli edifici delle loro case sono la magior parte di legno.

La stampa tra loro è più antica che fra noi, poiché l’anno più di cinquecento anni addietro; ma è assai diversa dalla nostra. Percioché le sue lettere sono moltissime e difficilmente si potrebbe usare del nostro modo, sebene adesso ne sogliono fare qualche cosa per via di composizione di lettere. Percioché il loro commune è l’intagliare in tavole di alberi di pera o mela, le quali sono liscie e non hanno nodi, o di giuggiume, nelle quali incollano al riverso il foglio di lettera o di pintura che vogliono intagliare. E dipoi con molta destrezza gli cavano tutta la carta, non restando nella tavola quasi altra cosa che la tinta della lettera o pintura; e dipoi con istrumenti di ferro cavano tutto quanto vi è de tavola fuora e dentro delle lettere un puoco fondo, non rimanendo alto altra cosa che le lettere e tagli della pintura. E dipoi stampano sopre queste tavole quanti fogli ne vogliono. E questo viene assai più facile nella loro lettera, che sempre è molto maggiore della nostra, e non si potrebbe fare agevolmente ne’ nostri libri.

E quanto alla facilità e prestezza, parmi che, nello stesso tempo, o puoco manco, che i nostri stampatori compongono et emendano un foglio, nell’istesso i loro intagliatori intagliano una tavola; e così costa molto manco stampare un libro a loro di quello che costa ai nostri. E vi è nel loro modo una grande commodità, che è stare le tavole sempre intiere, e potersene stampare puoco a puoco quanto se ne vuole, et anco emendare quello che si vuole doppo tre e quattro o molti anni, per esser facile mutare una parola et anco molte righe insieme con rimendare la tavola. Di qui viene la multitudine de’ libri che in questo regno si stampa, ognuno in sua casa, per essere anco grandissimo il numero di quei che attendono a questa arte di intagliare.

Perché, dipoi di intagliate le tavole di un libro, puoco costa lo stampare, come in nostra casa, di alcuni libri che habbiamo intagliati, i servitori di casa gli stampano quanti ne habbiamo bisogno.

Un’altra arte di stampare vi è in pietra et anco in legno, che è, avendo intagliato qualche libro o epitafio, et anco pintura, direttamente poi sopr’esso battono fogli di carta bagnata sopre feltro, tanto che fanno entrare la carta dentro delle lettere o linee della pintura. E lasciato poi seccare, con molta leggierezza e destrezza tingono la carta di sopra, restando le lettere o linee della pintura bianche.

Essendo i Cinesi amicissimi della pintura non possono però arrivare ai nostri e molto manco alla statuaria et arte di fondere o getto, tutto anco di molto uso tra loro, sì per varij archi e statue che fanno di uomini et animali, di pietra e di bronzo, come per i loro idoli e simulacri negli templi, con le campane, incensieri grandissimi che tengono avanti agli idoli et altre opre artificiose. E parmi che la causa di non essere loro eminenti in simili arti fu la puoca o nessuna communicatione che hebbero con altre nationi dalle quali potessero essere agiutati; poiché nella destrezza delle mani e buon ingegno non cedono a nessuna natione.

Non sanno pingere con olio né dar l’ombra alle cose che pingono, e così tutte le loro pinture sono smorte e senza nessuna vivezza.

Nelle statue sono infelicissimi, e non so che habbino altra regola nelle proportioni e simmetria che dell’occhi, i quali, in cose grandi, si ingannano molto facilmente. E fanno pure figure grandissime sì di pietra come di bronzo.

Le campane tutte si suonano con martelli di legno e non potrebbono resistere a martelli di ferro; e così nel suono non si posono paragonare alle nostre.

De’ instrumenti musici hanno e copia e varietà, ma non hanno organi né gravicembali o manicordi. Le corde sono tutte di seta cruda, e non sanno l’uso di queste altre fatte de budelle di animali; ma temprano gli instrumenti come noi con l’istessa consonantia, sebene la musica tutta è di canto piano senza la varietà de voci, di basso, alto, tenore, e canto de’ nostri.

E così tra loro mai fu vista tale consonantia nelle voci, ma stanno contentissimi con la sua, pensando che nel mondo non vi è altra musica. Con tutto ciò stanno stupiti degli organi et altri stromenti de’ nostri, che sin adesso potero vedere.

Gli loro horiuoli sino adesso furno di acqua e di fuoco con certe pipite odorifere, fatte tutte della stessa grandezza; fanno anco altri con ruote mosse di arena; cose tutte che di sé tengono molta imperfettione.

De’ solari, solo hanno l’equinotiale, ma non lo sanno ben collocare conforme ai luoghi dove li pongono.

Sono amicissimi di comedie assai più che i nostri. E così vi sono molte migliaia di giovani che si occupano in questo: altri che vanno per diverse parti, altri che stanno sempre nelle città grosse dove son chiamati e ben paghi nelle feste publiche e particolari. Ma questa è la più vile e vitiosa gente di tutto il regno. E molti putti sono comprati da alcuni maestri che gli insegnano a cantare e fare comedie e balli per guadognare con essi.

Tutte queste comedie si fanno ne’ loro conviti; e così nell’istesso tempo stanno mangiando e bevendo e udindo  le comedie. Gli argomenti di esse, anzi l’istesse comedie, quasi tutte, sono antiche di istorie o fittioni, e puoco si fa di nuovo. E quei che fanno questo essercitio, quando sono chiamati, vengono apparecchiati a tutte le comedie ordinarie. E cominciandosi il convito, presentano il libro a quello che quivi tiene il primo luogo, e sceglie quali comedie vuole che si faccino. E sono molte, perché durando i conviti otto o dieci ore alle volte, altretanto dura il fare le comedie, le quali si recitano tutte cantando, e puoco si parla in esse al modo commune.

Fra questa gente è grandissimo l’uso de por sigilli, non solo nelle lettere che scrivono, ma nelle compositioni e versi, pinture et altre cose che fanno, ne’ quali non vi è altra cosa che il nome, cognome, grado e dignità dell’autore. E non si contentano con uno, ma alle volte ne pongono varij, uno presso all’altro, ora nel principio, hora nel fine dell’opera. Né fanno questi sigilli in cera o altre cose simili, ma solo con colore roscio. E da qui viene che ogni persona grave tiene una scattola di varij sigilli suoi, grandi e piccoli, con i suoi varij nomi che tiene, fatti di varie materie: di pietra, di legno, di avolio, di bronzo, di corallo, di cristallo, et altre pietre pretiose e dure. E molti anco si occupano in intagliare sigilli in tali materie.

La lettera che in questi si usa è di diversa figura dalle altre, per esser questa quadrata e lunga. Di questa arte ve ne sono alcuni molto eminenti e preggiati; et è cosa che si reputa per grave,e molti nobili l’imparano perfectamente; è tra loro tenuta per liberale.

Un’altra arte simile a questa, anco molto preggiata, è il fare intenta negra, la quale loro fanno in panetti di fumo (e) di olio, come la nostra intenta de stampare. E,  conciosiacosaché loro sono molto dati allo scrivere questa sua lettera, et un buon scrittore è in grandissima stima in ogni parte e vive dove vuole, accarezzato e ben voluto da tutti; per questo l’intenta anco è molto stimata. Della quale usano con acqua sfregando quei pani sopre i loro calamari, che sono lamine di pietra molto dure e lisce. E dipoi scrivono, non con penna, ma col pennello di peli di lepre. E di questi calamari di pietra e pennelli da scrivere vi sono anco molti artegiani, che non fanno altra cosa che questa; e costano i buoni assai bene. E fanno di tutte queste tre cose necessarie allo scrivere molta varietà con ornamento e galantaria, come cosa che serve in cosa sì grave, come è lo scrivere.

Un’altra arte vi è anco puoco usata da’ nostri, che (è) di ventagli per sventarsi nella state e tempo caldo. Del quale usano ogni sorte di gente, grandi e piccoli, poveri e ricchi, huomini e donne; e pare che nessuno sa andare per la strada senza un ventaglio nella mano, senza anco esser tempo caldo e come per galantaria.

Di questi fanno moltissime sorti e varij, sì nella materia: di canna, di legno, di ebano, di avolio, e con carta, con seta, con velo, con paglia; sì anco nella forma: rotondi, quadrati, ovati o quadranti. Ma il più commune, e di persone gravi, è di carta bianca o indorata, fatti di tal sorte che con pieghe si raccogliono come infra due mezze bacchette di legno, dove sogliono scrivere e farsi scrivere da buoni scrittori qualche bella sententia o sonetto. E questo è uno de’ più ordinarij presenti che si danno gli uni agli altri in segno di amore et amicitia.

Laonde noi anco ne habbiamo piena un’arca mandati da altri e per rimandare di presente quando ci occorre. Et in fare questi ventaglietti non è piccolo il numero di gente che si occupa. Mi parve sempre rispondere questi ventagli ai nostri guanti, de’ quali nessuno uso vi è in questo regno. E sebene l’uso principale di ambedue le cose è contrario, essendo questi per l’inverno e quegli per l’estate, negli altri usi accessorij di galantaria, per portar nelle mani, e dar presenti, e tenerli nella mano quando si parla; sono gli stessi.

In queste puoche cose sono i Cinesi da noi dissimili, ma in moltissimi assai simili, specielmente in una nella quale tutto il mondo è diverso da loro e da noi; che è il mangiare in tavole alte, sedere in sedie e dormire in letti, essendo che tutte le altre nationi, mangiano, sedono e dormono in terra; cosa degna di notare in due terre distantissime l’una dall’altra.

Donde anco si racoglie la combinatione che hanno nelle altre arti.

 




I Commentari di Padre Matteo Ricci: un resoconto della Cina del 1600 attualissimo per gli europei del III millennio – capitoli I e II

1. Il Ricci si accinge a stendere le sue memorie storiche per farne trarre argomento di ringraziare Dio

Molte volte avviene che, delle grandi imprese et opere che nel mondo si fecero, non potettero poi i posteri saperne i principij donde hebbero origine. E ricercando io alle volte la causa di ciò, non seppi ritruovarne altra, se non l’essere tutte le cose (anco quelle che poi vengono a riuscire grandissime) ne’ suoi primi principij sì piccole e deboli, che nessuno si può persuadere facilmente di esse potere sorgere cosa di molto momento; e perciò coloro che le trattano, puoco si curano di notarle e scriverle. Se non vogliamo dire che sono tai negotij tanto difficili et intricati, mentre si comincia a dare i suoi primi principij, et occupano tanto a quei che in essi si impiegano, che non danno agio e tempo ad occuparsi in scrivere.

Laonde, volendo io in qualche parte obviare a questo mancamento nelle cose della entrata de’ Nostri e delle primitie della christianità in questo vastissimo regno della Cina, mi mossi adesso a raccogliere e disporre in ordine le cose più notabili di quelle che sino dal principio avevo notate in questa materia, posciaché la maggior parte o passorno per le mie mani o seppi molto essattamente. Accioché, se alla Divina Maestà piacesse di sì piccolo seme farne nascere e ricogliere qualche buona messe nella sua santa Chiesia cattolica, sapessero i devoti fedeli che veniranno di poi, di dove hanno da comenzare a dare a Dio le debite gratie, e narrare le sue alte meraviglie fatte in questi ultimi secoli a lontanissimi popoli. E se (il che non permetta Dio) non arrivasse questo a dare il frutto che i suoi primi fiori promettono, almanco lasciarò un testimonio, a quei che questo leggeranno, di quanto la nostra Compagnia di Giesù travagliò e patitte per aprire questa intrata e cominciare a rompere questo bosco fiero, e con quanto sudore e diligentia lo ridusse a sì buone speranze.

2. Metodo seguito: semplicità, brevità, esperienza sua propria

Per esser questa, opera di ridurre e convertire anime alla Fede catholica, non si deve dubitare esser tutta opera d’Iddio; e così non serà necessario nel riferirla usare di altri ornamenti di parole, poiché la semplice verità schiettamente proposta è quella che più diletta et aggrada in simili materie alle pietose orecchie. Né voglio con questa mia relatione che perdino punto di credito le cose che gli altri nostri compagni, et anche noi stessi, in lettere annue o avisi particolari, habbiamo scritto sopre l’istessa materia. Poiché non è mia intentione qui riferire né trattare tutte le cose, né quelle che si riferiranno e trattaranno proseguirle tutte alla lunga.

 

3. Necessità di premettere uno studio sulla Cina e sui Cinesi

Ma perché le cose della Cina comunemente sono assai diverse dalle nostre, e questo trattato si fa principalmente per i nostri Europei, sarà necessario, inanzi al cominciare la materia principale, dichiarare qualche cosa del sito, costumi, leggi et altre cose proprie della Cina, specialmente quelle in che discrepano da’ nostri paesi, per potersi meglio intendere la materia della entrata de’ Nostri e principio che si diede alla christianità, senza far poi molte digressioni.

E, sebbene di queste stesse materie so che già vanno molti libri in Europa, con tutto ciò penso, a nessuno serà discaro saperle piutosto da noi, che già trenta anni viviamo in questo regno, discorressimo per le sue più nobili e principali provincie, trattiamo continuamente in ambedue le Corti con i più principali e grandi magistrati e letterati del regno, parliamo la loro lingua, e imparassimo molto di proposito i loro riti e custumi, e finalmente, quello che più importa, di giorno e di notte, habbiamo nelle mani i loro libri, che da altri che mai vennero alla Cina, e tutto seppero per bocca di altri che non erano sì bene informati di tutto come noi.

Ma serà questo brevemente ne’ seguenti capitoli di questo Primo Libro; percioché, chi volesse scrivere diffusamente di quelle materie che in essi si trattano, di ogni capitolo si potrebbe fare un libro assai competente.

 

1. Vari nomi dati alla Cina dagli autori Europei

Questo ultimo regno orientale venne a notizia de’ nostri Europei sotto diversi nomi. Il più antico, del tempo di Tolomeo, fu Sina.

Dipoi, nel tempo di Tamorlano, come dipoi chiaramente si vedrà, ci fu data notitia di essa da Marco Polo, con nome di Cataio.

Ma il più celebre, di questi tempi, è questo di Cina, divulgato da’ Portoghesi, che per lunghi e pericolosi viaggi per mare arrivorno a essa e mercanteggiano nella sua parte più al mezzogiorno, nella provincia di Quantone; sebbene i nostri Italiani et altre nationi pensino chiamarsi China, ingannati dalla pronunciatione e scrittura spagnola, che non segue nel loro vulgare, in alcune lettere, la pronunciatione latina.

Et è cosa degna da notare che tutti questi nomi forno apportati ai nostri con aggiuntione di «Grande»; posciaché sogliono chiamarla Magna Sina, e Marco Polo la chiama il Gran Cataio, e gli Spagnuoli la Gran Cina.

Di dove si vede l’essergli debita e connaturale la sua magnificentia e grandeza del suo nome.

Né vi è anco dubio l’esser questa terra il regno degli Hyppofagi, perché in tutta essa, sino a’ nostri tempi, si mangia carne di cavalli, come tra noi la vaccina.

E l’istessa anco è la Serica, poiché in nessuna di queste terre al ponente vi è seta se non in essa, e questa in grandissima abondanza, tanto che non solo la vestono grandi e piccoli, poveri e ricchi, ma anco ne mandano molta a tutte le parti circonvicine. Et i Portoghesi la miglior mercanzia di che caricano le sue navi o per il Giappone o per l’India, è di seta e di pezze di seta. L’istesso avviene agli Spagnuoli, che stanno nelle Filippine caricando le sue navi per la Nova Spagna. E ritruovo ne’ suoi libri l’arte della seta 2636 anni inanzi alla venuta di Christo benedetto al mondo. E pare che questa arte da questo regno si sparse al restante dell’Asia e a tutta l’Europa et Africa.

Laonde non è maraviglia esser detta e tenuta per Grande, giaché vediamo quattro o cinque grandi regni al presente come uniti già in uno.

 

2. Vari nomi dati alla Cina dai Cinesi

Quello che a me mi fece più meravigliare fu il sapere che tutti questi nomi sono alla stessa Cina incogniti et inauditi; e non sanno l’esser chiamati così, né la causa di tali nomi a loro imposti, avendone mutati molti e stando anco esposta ad altre mutanze. La causa è per il loro antichissimo custume che, quando il regno si muta di una famiglia in altra, si muta anco il nome del regno a voglia del primo re di quella famiglia, il quale ordinariamente elegge qualche bello e grave nome.

E così fu chiamata Than, che vuol dire largo senza termine; Iu, che vuol dire riposo; Hia, che vuol dire grande; Sciam, che vuol dire ornato; Ceu, che vuol dire perfetto; Han, che vuol dire la via lactea nel cielo, con altri molti. Et dall’anno del Signore 1236, che regna la famiglia Ciù, si chiama Min, che vuol dire chiarità; e, per durare anco adesso in questa famiglia, gli aggiungono una sillaba Ta, che vuol dire grande, e si chiama Tamin, cioè Grande Chiarezza.

I popoli vicini puochi sono che sappino queste mutanze; e così la chiamano anco con varij nomi, e penso che ciascheduno con il primo di che hebbero notitia. I Cocincinesi con i Siami di dove imparorno i Portoghesi, la chiamano Cin, i Giapponi la chiamano Than; i Tartari la chiamano Han, et i saraceni la chiamano Cathai.

Ne’ libri della Cina, oltre il nome di quel secolo corrente, si chiama Ciumquo, che vuol dire Regno nel Mezzo, e Ciumhoa, che vuol dire Giardino del Mezzo. Et il Re che ottiene tutta la Cina lo chiamano Signore di tutto il mondo, pensando che la Cina eminentemente tiene tutto l’universo. Il che, se paresse strano a qualcuno  de’ nostri, imagini che più strano parrebbe alla Cina il chiamarsi i nostri antiqui Imperatori con questo titolo, senza esser Signori della Cina.

 

Padre Matteo Ricci – Ritratto Postumo

 

3. Coordinate geografiche e grandezza della Cina    

Quanto al sito e grandezza di essa, al mezogiorno comenza in 19 gradi del equinoctiale nel insola di Hainan e va a finire in 42 gradi fuora de’ muri settentrionali dove comenza la Tartaria. Dal levante comincia nella provincia di Iunnan in 112 gradi dall’Insole Fortunate, e finisce in 131 nel Mare di Levante. E quasi viene a fare un quadrato perfetto, un puocho magiore in larghezza di quello che è lungo. E la magior parte di essa sta nella zona temperata e comprende tutti gli climi che stanno dal fine di dia Meroe sino all’ultimo de’ dia Romi. Di dove si vede excedere in grandezza a tutte gli altri regni del mondo, sebene non è sì grande quanto alcuni scrittori moderni la facciano, estendendola al settentrione sino a 53 gradi, che vengono a farla un terzo magiore di quello che è. Ma questi termini di essa habbiamo noi verificati con astrolabij et altri strumenti in varij luoghi di essa, dove passassimo e stessimo, con l’osservationi di varie eclissi, con i loro calendarij, dove molto puntualmente sono calculati i novilunij e plenilunij, e sopra tutto per molti e varij libri di cosmografia stampati, ne’ quali esattamente si descrivono le provincie, regioni e confini del regno.

 

4. Sue città e sua popolazione secondo il censimento del 1579          

Et accioché, non pensi alcuno che, per esser così ampio, questo regno habbi qualche gran parte di esso spopolato e deserto, o manco pieno di gente e città, porrò nel fine di questo capitolo, quello che ho ritrovato in un libro, quale si suon stampato nel anno 1579, della Descrittione della Cina, voltato parola per parola nella nostra lingua, che è questo: «Ha la Cina due provincie curiali, Pacchino e Nanchino, et altre tredici provincie di fuora. In queste quindici provincie (che possono fare altrettanti regni ben grandi) vi sono 158 regioni che loro chiamano fu (che sono come provincie piccole, sebene alcune di esse tra di noi farebbono grandi provincie, per comprendere dodici e quindici città oltre altre terre e fortezze). In queste fu vi sono 247 ceu (che sono città grosse, sebene si distingue ceu da hien più per dignità che per grandezza, essendo molte hien, come quelle ove risiede il Governatore della fu, magiori che ceu), e 1152 hien (che sono città comuni). Gli uomini adulti che pagano tributo personale sono 58 milioni e 550801 capi; oltre le donne che sono altre tanti, i fanciulli, e i giovani, e i soldati che sono più di un milione – perché vi sono alcune mezze provincie come Leatum et altre dove tutti sono soldati –  et parenti del re, eunuchi et altri molti, esenti dal tributo. Regni che danno obedientia alla Cina per il levante sono tre; al ponente cinquanta tre; al mezzogiorno  cinquantacinque; al settentrione tre». È vero che questi né tutti vengono adesso, e, venendo, apportano più danno alla Cina che guadagno, e così puoco si cura essa che vengano o lascino di venire.

 

5. Difese naturali ed artificiali sulle quattro frontiere          

Oltre l’essere sì grande e piena, la Cina è assai fortificata dalla natura e dal arte. Percioché dal mezzogiorno et dal levante tutta è difesa dal mare che la cinge; dalla parte di tramontana, oltre i monti, vi fecero per molte centinaia de miglia muri fortissimi, che impedono gli insulti de’ Tartari; e dal ponente nella parte più settentrionale viene difesa da’ Persiani con un deserto di arena, dove né possono habitare né anco passare molti insieme; e più al mezzogiorno tutto è pieno di monti e confina con regni piccoli de’ quali puoco si può temere.

 

 

 




I Ching e medicina tradizionale cinese: parte terza I Ching ed agopuntura

Alessandro Mazzocchi*

Come già accennato, sia l’I Ching che la Medicina Cinese sono basati sulla filosofia  duale dello yin e dello yang, quindi è lecito mettere in relazione questi due campi di conoscenza anche in epoca moderna. L’I Ching, infatti, si presta a simboleggiare i concetti della medicina cinese, poiché entrambi sono basati sulla stessa visione: la descrizione binaria della realtà. I due noti diagrammi, ossia quello di Fu Xi (o del Cielo anteriore) e quello di Re Wen (o del Cielo posteriore), sono di fondamentale importanza nello studio delle fondamenta dell’agopuntura. Nella figura che segue, i due diagrammi sono schematizzati in unico quadro come proposto da Lama Anagarika Govinda nel suo studio sulla struttura dell’I Ching (il cerchio esterno è l’ordine temporale del Re Wen, il cerchio interno è l’ordine astratto di Fu Xi, i segmenti interni a questo rappresentano le possibili trasformazioni):

La sequenza del Cielo anteriore è precedente la comparsa dell’uomo sulla terra ed esprime una perfetta armonia senza una reale ciclicità: il Cielo, massimo Yang, e la Terra, massimo Yin, si trovano agli antipodi e non c’è reale movimento. L’Uno primordiale si è scisso nei suoi costituenti basilari. La sequenza del Cielo posteriore è ciclica ed è in stretta relazione con la legge dei 5 elementi e quindi anche con i meridiani, con gli organi Zang e i visceri Fu. Notare che nel diagramma di Re Wen, Cielo e Terra non si trovano più in opposizione, ma entrano in un ciclo a periodicità annuale scandito dal susseguirsi delle stagioni, che comincia con la Primavera-Legno e finisce con l’Inverno-Acqua, mentre la Terra viene a rappresentare un periodo di transizione. Mentre Fu Xi parte dai principi del Cielo e della Terra – ossia dalle due componenti primordiali del creato – e ne fa gli assi principali del suo sistema, il Re Wen, più interessato all’uomo, al tempo e alle faccende terrene, costruisce attorno all’asse Fuoco e Acqua – le due principali forze terrene – il suo sistema. La disposizione di Re Wen dà importanza alla successione dei segni Gua nel tempo più che alla staticità degli opposti. Diventano quindi molto stretti i rapporti con la legge dei 5 elementi: i 5 elementi non sono forze immote, bensì principi dinamici in azione reciproca (Wu Hsing: agire). La prima descrizione della legge dei Cinque elementi si trova nell’Hong Fan (Grande Regola), la cui data di origine è controversa (400-500 a.C.?), comunque lo troviamo inserito nel Chou Ching, uno dei libri canonici di Confucio. Fra l’altro, la settima rubrica dell’Hong Fan accenna alla divinazione con gli steli di Achillea (achilleomanzia). Va sottolineata una discrepanza fra il sistema del saggio Re Wen e la legge dei Cinque Elementi, evidenziata anche da Lama Anagarika Govinda: a fronte dei 5 elementi, i trigrammi sono otto. Per ovviare a questo problema, successivi commentari hanno diviso in due classi i trigrammi originali, quelli con significato di principi universali, come Cielo-Kian e Terra-Kun, e quelli assimilabili ad elementi materiali (il Monte-Gen diventa, per esempio, l’aspetto più materiale della Terra). Yang Li, nel suo testo, insiste a lungo sugli stretti rapporti fra I Ching e l’agopuntura. Del resto, esiste una Scuola medica, che utilizza proprio i trigrammi e gli esagrammi del Libro dei Mutamenti per impostare la diagnosi ed un protocollo terapeutico. Tale metodica, conosciuta come I Ching acupuncture (altrimenti nota come Balance Method), è stata elaborata da un celebre maestro di agopuntura – Chao Chen – ed è stata divulgata dal figlio Yu Chen e da David Twicken negli Stati Uniti e in Occidente. Simile, almeno nelle sue implicazioni teoriche oltre che nelle applicazioni pratiche (ad es.: terapia delle sindromi dolorose), è il metodo perfezionato da Richard Tan in California. Lo stesso Chao Chen ricorda nei suoi scritti le parole di Sun Si-Miao, Maestro di medicina della dinastia Tang (618-907): “Senza studiare l’I Ching non è assolutamente possibile capire la Medicina”. Va detto, a titolo di esempio, che la celebre tecnica di armonizzazione dei punti (Twelve channel-taking Stem method), nota agli agopuntori, è la semplificazione ultima, attraverso qualche scorciatoia teorica, di tale metodica. Il bilanciamento destra-sinistra (es: 4GI e 3F), avanti-dietro (Shu-Mu), yin-yang (4Rt,36E; 3F,34VB; 6MC,6TR; 63V,6F) e l’accoppiamento dei punti Luo-Yuan il punto Luo del meridiano sano e il punto Yuan del meridiano malato) e la tecnica mezzogiorno-mezzanotte Na-Zi (Middnight-Noon Ebb-flow), sono tutti esempi del cosiddetto Balance Method. In quest’ultimo, si utilizzano gli otto trigrammi disposti in uno schema ottagonale  con le relative corrispondenze e analogie, così come avviene, in base al pensiero correlativo taoista, nella Legge dei 5 movimenti o “fasi”. Yang Li esemplifica la correlazione fra i trigrammi e alcuni agopunti utilizzati nella tecnica detta “Eight Magic Tourtle”: Ken corrispone a Shenmai; Kun a Zhaohai; Zhen a Waiguan; Xun a Linqi; Qian a Gongsun; Dui a Houxi; Gen a Neiguan e Li a Lieque. Per un approfondimento si rimanda al manuale di Yang Li e alle monografie degli autori citati. Altre metodiche invece utilizzano i 64 esagrammi dell’I Ching, secondo tecniche che consentono di affinare la diagnosi e di scegliere i punti da trattare con agopuntura. Il Dottor Twicken, per esempio, ha sviluppato una metodica, che nella sua forma originaria risale alla dinastia Song (960-1127) e rappresenta un’evoluzione di altre tecniche divinatorie più antiche basate sulla numerologia (due lavori basilari sulla numerologia sono quelli di Alfred Huang e di Da Liu). In breve, si individua il canale coinvolto nell’affezione dolorosa e si raffrontano l’esagramma corrispondente, risultante da specifiche tabelle di simboli elaborate da Maestri del passato, con l’esagramma cosiddetto favorevole, ricavato dallo studio dell’agopuntura taoista e quindi delle versioni taoiste dell’I Ching. Esaminando poi le linee differenti dei due esagrammi, si trattano gli agopunti distali corrispondenti alle linee divergenti e contro lateralmente per ottenere il tradizionale bilanciamento Yin/Yang. In quest’ultima metodica, appena accennata, sembrano convergere e trovare un loro equilibrio antiche pratiche taoiste e tecniche più moderne di agopuntura.

 

In conclusione, si è cercato di evidenziare, in questo articolo, l’importanza dell’I Ching nella Medicina Tradizionale, anche perché, a fronte di ciò, il suo studio non costituisce parte integrante dei principali programmi didattici di Agopuntura e Medicina cinese. Questi ultimi, come è giusto che sia, dedicano grande attenzione allo Huang Di Nei Jing, o Classico di Medicina Interna dell’Imperatore Giallo, compilato nella sua stesura definitiva durante il periodo degli Stati Belligeranti (475-221 a.C.), di importanza uguale al Corpus Ippocraticum in Occidente, ma rispetto a questo, ancora indispensabile testo di consultazione per gli agopuntori.

Pur tuttavia, come si è cercato di evidenziare precedentemente, l’importanza del Libro dei Mutamenti è addirittura duplice: un primo aspetto riguarda infatti la divinazione medica, che ha una tradizione antichissima risalente alle tre antiche dinastie sandai (al periodo Zhou, in particolare). D’altra parte, i moderni modelli estrapolati dalla fisica quantistica hanno avvalorato la teoria della Sincronicità, elaborata a metà del ‘900 da Pauli e Jung, con la quale i due scienziati cercarono di fornire una spiegazione fisica dei cosiddetti eventi paralleli (o sincronici) percepibili attraverso la “visione remota” al di là del tempo e dello spazio; secondo aspetto da sottolineare è che, a prescindere dalla divinazione medica, completamente avulsa dal nostro paradigma, ma di grande rilevanza storico-mitologica, l’I Ching costituisce forse l’opera più completa e importante sullo studio dello Yin e dello Yang e rappresenta il fundamentum della Medicina Tradizionale. Come abbiamo accennato nell’ultima parte del lavoro, esso diventa la base teorica e filosofica per taluni metodi di diagnosi e di terapia in Agopuntura (I Ching acupuncture). Del dettaglio di quest’ultima, per ragioni ovvie e di spazio, ci si potrà occupare più compiutamente solo in un altro momento.

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Carl G. Jung. (1976) La sincronicità. Biblioteca Bollati Boringhieri. Torino;

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Massimo Teodorani. (2003) Sincronicità. Macro Edizioni;

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J.A.G Roberts (2006), Storia dell’antica Cina. Newton Compton editore, Roma;

Pino Ferroni (2008), I tredici demoni, dalla medicina sciamanica all’agopuntura. L’Altare del sole Editrice, Parma;

Li Yan. (2004) I KING illustrato. Luni Editrice, Milano;

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Michel Vinogradoff (2006) L’esprit de l’aiguille. L’apport du Yi Jing à la pratique de l’acupuncture. Spriger-Verlag France, Paris;

Rao Ramakrishna (1967) Parapsicologia sperimentale.  Astrolabio editore, Roma;

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Lama Anagarika Govinda. (1998) La struttura interna dell’I King. Astrolabio-Ubaldini editore,

Roma.

Alessandro Mazzocchi Agopuntura e paradigmi scientifici. Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese numero 112 (2) aprile-giugno 2008, pp. 30-35.

 




Il favoloso mondo di Laozi parte seconda: i concetti di Wu xing e Wu wei

Roberto Favalli*

Vuoto, senza forma Wu Xing 无形

Il termine Wu Xing può essere tradotto come “senza forma”, “senza materia”: evoca l’idea dell’assenza, del vuoto.

Il nostro pensiero occidentale, illuminista, ha un’impostazione positivista, dando importanza a “ciò che è”, che si vede, si tocca, si misura, si quantifica. Il vuoto, il nulla, la mancanza, hanno spesso un’accezione non positiva e vengono indicati con il segno “meno”. Noi occidentali privilegiamo la parte mezza piena del bicchiere.

Secondo il pensiero daoista, la forma, “ciò che è”, la materia, determina la struttura dell’oggetto, ma la vera essenza delle cose è lo spazio, il vuoto che la materia circoscrive, “ciò che non è”. La bottiglia ha la sua forma ed è utile perché può contenere, ma è solo grazie al suo vuoto interno che può servire allo scopo, è lo spazio circoscritto dalle pareti materiali che rende la bottiglia utilizzabile. Le case e i palazzi sono costituiti da materia: i muri portanti e le tramezze divisorie che ne costituiscono la forma, la struttura. Essi sono indispensabili affinché l’edificio si regga, ma è lo spazio vuoto delle stanze, delimitato dalle pareti, a renderlo utilizzabile. Queste stanze, a loro volta, sono accessibili grazie ad un altro vuoto, la porta che si apre nella parete, e sono fruibili grazie ad altri vuoti nella materia, le finestre.

 

Nel capitolo XI del Daodejing si legge:

Convergon nel mozzo trenta raggi

Eppur è quel “nulla” (dove cosa non v’è) che rende il carro utilizzabile.

Argilla si cuoce per farne vasi,

Eppur è quel “nulla” che rende il vaso utilizzabile.

Porte e finestre s’aprono,

Eppure è quel “nulla” che rende la stanza utilizzabile.

Pertanto, è ciò che le cose “sono” o “hanno” a renderle utili,

È ciò che “non sono” o “non hanno” a renderle utilizzabili.

Laozi, Daodejing, capitolo XI

Il concetto di Vuoto vale non solo per le entità statiche, lo spazio, i volumi, ha valore altresì per gli elementi dinamici. Il fiume può accogliere nuova acqua che proviene da monte perché lascia scorrere l’acqua verso valle. Se si crea un ostacolo, l’acqua si accumula e tracima.

Il cuore può riempirsi di sangue, dilatandosi, perché al battito precedente si è svuotato, contraendosi. Se il cuore non si svuota completamente, non riesce ad accogliere nuovo sangue e tutto il sistema circolatorio a monte s’ingorga: i polmoni congesti si riempiono di liquidi e compare l’edema polmonare, il fegato si dilata, le gambe si gonfiano. È il quadro clinico conosciuto come scompenso cardiaco congestizio, potenzialmente letale.

Il cuore, però, non è solo la nostra centrale idraulica, è anche la nostra centrale affettiva. In tutte le epoche ed in tutte le culture il cuore è sempre considerato la sede degli affetti. Secondo il pensiero daoista, il Cuore, Xin, così come accoglie e non trattiene il sangue, altrettanto deve fare con i sentimenti. Il Cuore deve accogliere tutto senza trattenere nulla, per rimanere sempre vuoto, accogliente, in quiete. Se coltiviamo sentimenti quali risentimento, invidia, rancore, oppure desideri eccessivi ed ambizioni smodate, il Cuore sarà ingolfato, congesto, inquieto. Questo concetto, saldamente radicato nella cultura cinese, viene espresso molto efficacemente anche nella scrittura. Il carattere (impropriamente chiamato ideogramma) corsivo di Xin, Cuore, infatti, si scrive così:

 

 

 

 

 

Il carattere cinese Xin, Cuore

 

Il carattere è aperto in alto, dove sono indicati tre tratti che potrebbero corrispondere in senso anatomico all’aorta e agli altri vasi sanguigni, ma che si potrebbero interpretare, in senso affettivo, come i sentimenti che “calano” nel cuore. Al centro, il carattere è vuoto, per poter svolgere le sue perenni funzioni di accoglienza e rilascio del sangue e delle emozioni.

La filosofia daoista ci invita a vivere tutto con piena passione e sereno distacco, lasciando tutti gli accadimenti della vita quotidiana al di là di un sottilissimo diaframma impermeabile che deve proteggere il nostro io più intimo, il nostro Cuore. Si può ottemperare a questa esortazione vivendo la vita di tutti i giorni, svolgendo le proprie mansioni con impegno e soddisfazione, senza la necessità di allontanarsi dal mondo, chiudersi in un monastero o vivere in meditazione come vorrebbe invece il pensiero buddhista. Sul concetto di Vuoto, il Daoismo e il Buddhismo cinese trovano un forte elemento comune, ma poi si differenziano nettamente sul metodo. Il Buddhismo richiede pratica, applicazione, rigore, sacrificio, mentre per il Daoismo, almeno nella sua componente filosofica originaria (Dao Jia), è sufficiente seguire le regole naturali che ognuno ha dentro di sé per riuscire nello scopo.

A tal proposito, una storiella daoista narra di un vecchio che viveva in uno sperduto villaggio dell’antica Cina e considerato da tutti un grande saggio. Egli, però, non aveva messo in atto nulla volontariamente per meritarsi questo titolo: svolgeva la sue mansioni di tutti i giorni, dava da mangiare ai polli, dava da bere all’orto, badava alle sue piante da frutto, ma coloro che lo vedevano percepivano in qualche modo la sua grandezza spirituale. Come avveniva in quei tempi, spargendosi la sua fama, arrivarono i discepoli, desiderosi di apprendere l’arte del grande Maestro. Il vecchio saggio, però, non cambiò la sua vita, continuando imperturbabile nelle sue attività quotidiane, senza dare relazione ai seguaci, né tenere lezioni o discorsi. I suoi allievi imparavano dal suo esempio. La storia vuole che un giorno, mentre il vecchio stava riposando all’ombra di un grande albero, uno dei suoi discepoli, il più ardito o forse il più impaziente, osò rivolgergli la parola: “Maestro, dimmi, come hai fatto a diventare così grande!”; e il vecchio: “Non lo so, mangio quando ho fame e dormo quando ho sonno” (cioè “mi conformo alle regole naturali che ho dentro di me”).

 

Agire senza agire, Wu Wei

È uno dei concetti cardine della filosofia daoista, e mette a dura prova la logica ed il rigore razionale del pensiero occidentale. Wu è il termine di negazione, significa “non; essere senza”, e Wei significa “fare, agire, adoprarsi”. Usualmente viene tradotto come “non-agire”, oppure “agire senza agire”. Lontano dal significare rinuncia, ritirata, inattività, è invece la condizione e la forza stessa dell’azione autentica ed efficace. È il modo daoista di concepire l’azione

Il “non-agire”, non significa restare in uno stato passivo, statico, fisso, non muoversi, oziare, lasciarsi vivere, non è quindi “non fare nulla” bensì arrivare ad un’azione adeguata, efficace nella misura in cui si conforma alle leggi della natura. L’esempio classico è la barca che naviga sull’acqua. La barca non sa, non decide di galleggiare, eppure galleggia, l’acqua non sa, non decide di trasportare, eppure trasporta. Entrambi gli elementi, la barca e l’acqua, esercitano un’azione senza sforzo, senza forzature, semplicemente rispettando un equilibrio dettato dalla natura. Le leggi naturali che reggono l’intero universo sono perfette, per un semplice motivo: perché non sono state inventate dall’uomo. La natura è perfetta proprio perché non è frutto della mente limitata dell’uomo, ma è l’espressione tangibile di un Essenza superiore, dell’Entità creatrice di tutto l’universo.

Un’altra suggestiva traduzione di Wu Wei è “agire inconsapevolmente” lasciare che le cose maturino da sole, se ve ne sono i presupposti, senza interferire nello svolgersi spontaneo e naturale degli eventi. È un modo di agire non interventista.

Ognuno di noi può trovare nella propria vita innumerevoli esempi che confermano questa esortazione. Quando io mi sono accostato alla lettura del Daodejing ho cercato di soddisfare un desiderio personale, l’ho fatto per un’esigenza interiore, per il piacere della lettura in sé. Non avevo certo programmato che quella lettura mi avrebbe poi permesso di scrivere questo articolo o di tenere delle lezioni: questi sono obiettivi creatisi spontaneamente, senza una decisione programmata, sono azioni inconsapevoli. Mentre sto scrivendo questo elaborato, probabilmente sto gettando le basi per eventi futuri a me del tutto ignoti. Si potrà obiettare che l’agire inconsapevolmente rappresenta il frutto di un’azione consapevole, razionale, programmata, e questo è vero. L’aspetto veramente importante, però, è che tanto più siamo in grado di dare voce al nostro io profondo, tanto più le nostre azioni consapevoli sono espressione di nostre vere esigenze interiori, di pulsioni profonde, di vocazioni intime, tanto più si verranno a creare spontaneamente i presupposti per la realizzazione delle nostre vere aspirazioni.

Questa affermazione daoista, espressione della presa d’atto di una legge naturale, si può facilmente rintracciare in molteplici aspetti della nostra vita.

Leggiamo, ad esempio, una poesia a mio avviso profondamente daoista anche se non è di un poeta cinese dell’antichità. È una poesia di W. B. Yeats, poeta irlandese del secolo scorso, che, mentre narra un momento della vita di un uomo, inconsapevolmente, credo, illustra pienamente il concetto di “agire senza agire”.

 

Nel giardino dei salici, di W. B. Yeats

Nel giardino dei salici ho incontrato il mio amore;

là lei camminava con piccoli piedi bianchi di neve.

Là lei mi pregava che prendessi l’amore come viene, così come le foglie crescono sugli alberi.

Così giovane ero, io non le diedi ascolto;

così sciocco ero, io non le diedi ascolto.

Fu là presso il fiume che con il mio amore mi fermai, e sulle mie spalle lei posò la sua mano di neve.

Là lei mi pregava che prendessi la vita così come viene, così come l’erba cresce sugli argini del fiume;

ero giovane e sciocco ed ora non ho che lacrime.

 

La poesia, mirabilmente tradotta da Luisa Zappa e messa in musica dal marito Angelo Branduardi, è interamente pervasa di spirito daoista (Là lei mi pregava che prendessi l’amore come viene; Là lei mi pregava che prendessi la vita come viene…), ma in due passaggi è espresso con chiarezza il concetto di “agire senza agire” o di “agire inconsapevolmente: “così come le foglie crescono sugli alberi…; così come l’erba cresce sugli argini del fiume”. Le foglie e l’erba non sanno di crescere, eppure lo fanno; non sanno cosa sono le stagioni, eppure non sbagliano mai: spuntano, crescono, appassiscono e cadono inconsapevolmente, senza sforzo, senza tribolazioni, seguendo una legge naturale. Non hanno bisogno di apprendere, di studiare, di imparare: tutto ciò che a loro serve è già innato nel loro stessa esistenza.

Per raggiungere i nostri obiettivi, quelli veri, profondi, insiti nel nostro essere, non è necessario applicarsi in maniera esasperata, affannarsi senza requie, anzi, così facendo c’è il rischio di perdere di vista la nostra rotta ideale, disperdendoci compulsivamente in mille attività banali e senza importanza.

Al passo XXXXVIII del Daodejing si legge:

Chi allo studio si vota, di giorno in giorno accumula,

Chi della Via (il Dao) ha sentor, di giorno in giorno sottrae.

Sottrae e ancora sottrae, Fino a cessare d’adoprarsi.

In tal modo non vi sarà cosa che non sarà fatta.

Se conquistar il mondo intendi, sempre evita d’adoprarti.

Finché affaccendato resterai,

Il mondo non potrai certo far tuo

Laozi, Daodejing, cap. XXXXVIII

Alcune precisazioni: “chi allo studio si vota…” è probabilmente un accenno polemico nei confronti dei confuciani che vedevano nello studio rigoroso e perseverante una delle regole fondamentali per realizzarsi nella vita. Secondo la visione daoista, invece, una volta acquisiti gli strumenti didattici adeguati, non è più necessario continuare ad applicarsi costantemente sui libri, ma è preferibile lasciare crescere spontaneamente la conoscenza dentro di noi. Questa raccomandazione vale anche per la medicina. Per imparare ed esercitare la Medicina Occidentale scientifica bisogna continuamente studiare e aggiornarsi; la Medicina Cinese, invece, va studiata approfonditamente nei suoi elementi di base, poi la si può far maturare lentamente. Si dice che la Medicina Occidentale va “studiata”, la Medicina Cinese va “meditata”.

Una definizione a dir poco perfetta di Wu Wei si deve ai già citati professori Andreini e Scarpari: “Wu Wei è l’assenza di un agire, nella piena consapevolezza che un agire esiste già al di là del nostro eventuale non agire.”

Bibliografia essenziale

Andreini A., a cura di, “Laozi-Genesi del “Daodejing”, Biblioteca Einaudi, 2004

J. J. L. Duyvendar, a cura di, “Tao Te Ching, il libro della Via e della Virtù”, Adelphi, 1973

Liou Kia-hway, a cura di, “Zhuang-zi [Chuang-tzu]”, Adelphi,1982

Tomassini F., a cura di, “Lieh-tzu”, Editrice TEA, religioni e miti, 1988

Fung Yu-Lan, “Storia della filosofia cinese”, Arnoldo Mondatori Editore, 1956

Larre C., Berera F., “Filosofia della Medicina Tradizionale Cinese”, Milano: Jaca Book, 1997

Grigg R., “Il Tao della barca”, casa editrice Corbaccio, 1994

Muccioli M., Piastrelloni M, “Gli Shen. Il mondo delle emozioni nella pratica clinica tradizionale cinese”, introduzione del dott. Lucio Sotte, Quaderni di Medicina Naturale XIII-XIV. Supplemento della Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese n°76 (2-1999).

Altri contributi

“Laozi e il Daodejing”, da: “Uomini e profeti”, trasmissione radiofonica di Rai Radio Tre, a cura di Gabriella Caramore, con Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, del 17-24 aprile, 1-8 e 15 maggio 2005. www.uominieprofeti.rai.it

“Branduardi canta Yeats – dieci ballate su liriche di William Butler Yeats”, Angelo Branduardi, EMI Italiana. CD musicale ristampato nel 1992

Angelo Branduardi, “Nel giardino dei salici”, brano tratto da “Le Grand Echiquier”, concerto parigino dedicato alla “Médecine Française”, autunno 1986. Video proposto da CHalsace e visionabile in YouTube

 

 




Il favoloso mondo di Lao Zi

parte prima: Laozi ed il “Laozi Daodejing”
Roberto Favalli*

Quando ci si avvicina all’Agopuntura e alla Medicina Cinese è inevitabile venire a contatto con una delle correnti di pensiero più importanti della cultura tradizionale cinese, vale a dire la filosofia Daoista. Non deve stupire se viene utilizzata la dizione “Daoista” anziché quella più comunemente conosciuta come “Taoista”. Nella lingua cinese la nostra lettera “D” (Dao) ha una pronuncia molto simile alla lettera “T” (Tao). Da qui l’errore di trascrizione in “filosofia Taoista” della pronuncia fonetica di “filosofia Daoista”.
La filosofia Daoista rappresenta il terreno fertile entro il quale si radica solidamente l’albero della conoscenza della Medicina Tradizionale Cinese; riuscire a riassumere in poche pagine più di duemila anni di storia di una delle correnti di pensiero più importanti della Cina e del mondo intero è un’impresa certamente molto ardua. In questa sede verranno trattati solo alcuni dei suoi aspetti più significativi.
Quando si parla di Buddhismo, il pensiero va spontaneamente al suo padre spirituale, vale a dire al Buddha. Lo stesso vale per Confucio e il Confucianesimo, così come per Mao Zedong e il Maoismo. Per il Daoismo, vi è un fondatore, un maestro? Sì. Il padre spirituale della filosofia Daoista è il grande, il mitico, il leggendario, l’immortale Laozi, il Vecchio Maestro.

Laozi 老子, il “Vecchio Maestro”
Personaggio leggendario, mitico, di cui non si hanno prove certe della reale esistenza, trattandosi, probabilmente, di una stratificazione di più figure di grandi saggi dell’antichità. Sarebbe vissuto nel VI secolo a. C., contemporaneo di Confucio (551-479 a. C.), di Platone e di Buddha in quella che viene definita “età assiale” in quanto nello stesso periodo sono vissuti i primi grandi pensatori delle tre grandi civiltà in Europa, India e Cina.
Dal II secolo a. C. gli venne attribuito il titolo di “supremo saggio dell’umanità”, “maestro dei maestri”, oscurando la fama del maestro cinese per eccellenza, Confucio. Dal I secolo a. C. fu considerato un “Immortale” e venerato al pari di una divinità
In epoca più tarda egli venne identificato con Buddha, i cui insegnamenti furono introdotti in Cina tra il I e il II secolo della nostra era.
Nativo dello stato di Chu, avrebbe svolto l’attività di archivista presso la corte reale Zhou al tempo in cui visse Confucio. Quest’ultimo si sarebbe recato in gioventù a Zhou proprio per incontrarlo e ricevere da lui preziosi insegnamenti su protocolli e cerimoniali, materia nella quale poi Confucio sarebbe divenuto massimo esperto.

L’incontro tra Confucio e Laozi

Tale sarebbe stata l’impressione che Laozi avrebbe destato in Confucio, che questi avrebbe paragonato il Vecchio Maestro ad un drago capace di ascendere al cielo a cavallo di una nube o del vento (e così l’iconografia funeraria di epoca imperiale amò raffigurarlo).
Ad un certo punto della sua lunga vita, disilluso e amareggiato per i segni evidenti dell’imminente decadenza cui andava incontro la dinastia regnante, Laozi avrebbe abbandonato Zhou, dirigendosi verso Occidente. Giunto nei pressi di un passo montano, sarebbe stato fermato dal comandante di una guarnigione posta a presidio del luogo, il quale, intuendo che il maestro non sarebbe più tornato, lo avrebbe esortato a mettere per iscritto i suoi precetti affinché non venissero dimenticati. Laozi avrebbe allora sintetizzato la sua dottrina in un libro di circa cinquemila parole, il Daodejing o Classico della Via e della Virtù, concepito in due sezioni che trattavano del Dao, la Via, e della sua forza possente e virtuosa, il De. Dopo di che sarebbe sparito e nulla più si sarebbe saputo di lui.
Questo viaggio ispirò intere generazioni di pittori cinesi, che lo raffigurarono in innumerevoli dipinti, e anche artisti del nostro mondo, come Bertolt Brecht che, nel 1937, scrisse la “Leggenda della nascita del libro Daodejing di Laozi sulla strada dell’emigrazione”.
Laozi venne considerato un ideale di saggezza e di virtù. Si riteneva che, in quanto immortale potesse lasciare il mondo terreno e farvi ritorno a proprio piacimento. In ogni epoca, dinastia dopo dinastia, sarebbe disceso dalla sua dimora celeste per aiutare l’umanità sofferente, reincarnandosi in forma umana per assistere i governanti e guidarli nel difficile compito di favorire e mantenere la pace e l’armonia nel mondo, assumendo di volta in volta aspetto e nomi diversi. (A giudicare da come si stanno comportando molti uomini di governo, si direbbe che Laozi ultimamente o si è un po’ distratto oppure ha cambiato galassia per la disperazione!).

Il viaggio di Laozi verso occidente

In seguito venne attribuita sempre maggior importanza al suo viaggio verso occidente, dove Laozi si sarebbe recato per convertire le popolazioni “barbare” dell’India e dell’Asia centrale, manifestandosi loro come Buddha. Un0 dei tanti miti relativi alla sua nascita lo vorrebbe nato come Buddha da una regina dell’India, il che conferma la visione sinocentrica del popolo cinese, come si può evincere dal nome stesso che i cinesi danno alla propria terra, vale a dire Zhong guo, che, tradotto come “Cina”, significa letteralmente “Terra del centro”.
Il libro attribuito a Laozi, il Laozi Daodejing, è sicuramente una delle opere più importanti mai prodotte dall’umanità ed è secondo solo alla Bibbia per numero di traduzioni, oltre 250 compilate nelle più svariate lingue (yiddish ed esperanto incluse) in un arco temporale di circa quattordici secoli. La prima traduzione, realizzata in sanscrito, parrebbe risalire al VII secolo della nostra era. La prima traduzione in una lingua occidentale, il latino, risale al XVIII secolo. C’è chi guarda a quest’opera con autentica venerazione, considerandola “più che un libro, un angelo vivente” in grado di fornire ai suoi lettori “una risposta ad ogni problema della vita, una soluzione ad ogni situazione, un balsamo per ogni ferita” (Walker B. B., 1998). Cosa si potrebbe pretendere di più da un’opera di appena cinquemila parole? Il Daodejing, Libro della Via e della Virtù
Leggere un libro di cinquemila parole non è certo un problema. 5-6 pagine di questa rivista contengono all’incirca lo stesso numero di vocaboli. La difficoltà sta nel cogliere ciò che si cela nelle parole del Daodejing, compilato in cinese antico, con un linguaggio criptico, simbolico, arcano e spesso oscuro. È indispensabile avvicinarsi a questo grande libro avvalendosi di traduzioni adeguate e competenti, che mantengano l’aderenza al testo originale con rigore filologico senza, però, perdere la bellezza e la poesia dello scritto originale. Attualmente è disponibile in Italia il libro “Laozi, Genesi del Daodejing” curato dal professor Attilio Andreini per la casa editrice Einaudi di Torino, pubblicato nel 2004, con saggio introduttivo del professor Maurizio Scarpari (entrambi docenti di Sinologia presso il Dipartimento di Studi sull’Asia Orientale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia). È una versione del Daodejing veramente eccelsa, dove l’estrema correttezza filologica si coniuga con la traduzione in un italiano dolcissimo, aulico e poetico. È ricco di note rivolte ai cultori della lingua cinese, dove si spiega con grande precisione il perché di scelte linguistiche che potrebbero suscitare perplessità tra gli addetti ai lavori. Non abbondano, invece, le note esplicative e interpretative ai vari passi che compongono il testo originale, per cui questa traduzione purtroppo lascia un po’ solo il neofita che, ignorando la lingua cinese, si avvicina alla lettura del testo per tentare di coglierne gli innumerevoli significati reconditi.
Un’altra traduzione, questa volta curata da J. J. L. Duyvendar “Tao Te Ching, il libro della Via e della Virtù”, edizioni Adelphi, anno 1973, viene maggiormente in aiuto con interessanti note esplicative a piè pagina e suggerimenti interpretativi preziosi per il lettore non specialista, mentre la traduzione è meno rispettosa del testo originale e presentata in un italiano meno suadente rispetto al volume citato in precedenza.

Struttura del Laozi Daodejing
Tra le versioni tramandate, le più accreditate dagli storici sono quelle reperite negli arredi funerari dei siti archeologici di Mawangdui, nel 1972, e di Guodian nel 1993. Il textus receptus dell’opera si presenta diviso in due sezioni principali, il Daojing o Classico della Via, e il Dejing o Classico della Virtù, suddivise a loro volta in “stanze o capitoli”, 81 in tutto (1-37 il Daojing, 38-81 il Dejing), laddove Dao, il principio eterno e insondabile che regola l’intero cosmo e da cui traggono origine il mondo e le creature tutte, viene reso con “Via”, mentre De, l’aspetto del Dao con il quale abbiamo costantemente a che fare, con “Virtù” o “Potenza [del Dao]”. Gli studiosi della letteratura cinese classica definiscono il Daodejing come appartenente ad un genere letterario specifico, denominato “poesia sapienzale daoista”: gli argomenti vengono sviluppati in una prosa poetica priva di digressioni narrative, massime e principi sono enunciati in versi per lo più a base tetrasillabica, sia rimati che sciolti.
La lettura del Daodejing è un’esperienza particolare: la dolcezza delle parole, la loro cadenza suadente e la bellezza delle immagini evocate spesso si accompagnano alla delusione e all’amarezza per il significato sfuggente, misterioso e arcano.
Alcuni concetti, però, risaltano con forza e si possono cogliere facilmente. È importante soffermarsi su almeno due di questi enunciati, Wu xing “Vuoto, senza forma”, e Wu wei “Non agire” o “Agire senza agire”.
Nella seconda parte di questo elaborato si cercherà di illustrare brevemente questi aspetti peculiari della filosofia Daoista.

Bibliografia essenziale
1. Andreini A., a cura di, “Laozi-Genesi del “Daodejing”, Biblioteca Einaudi, 2004
2. J. J. L. Duyvendar, a cura di, “Tao Te Ching, il libro della Via e della Virtù”, Adelphi, 1973
3. Larre C., Berera F., “Filosofia della Medicina Tradizionale Cinese”, Milano: Jaca Book, 1997
4. Belotti L., Favalli R., Ferrari P., Losio A., Marino A., Nasta P., Perini S., “Agopuntura e tecniche complementari in medicina dello sport”, Milano: CEA – Casa Editrice Ambrosiana, 2001

Altri contributi
“Laozi e il Daodejing”, da: “Uomini e profeti”, trasmissione radiofonica di Rai Radio Tre, a cura di Gabriella Caramore, con Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, del 17-24 aprile, 1-8 e 15 maggio 2005. www.uominieprofeti.rai.it

Prima parte: la seconda parte verrà edita nel prossimo numero di Olos e Logos




La visione unitaria ed il nesso “morte-nascita” come fattori di “senso” alle parole ultime

Riccardo Bosi *

* pediatra di famiglia. Affascinato dalla varietà delle culture e impegnato in situazioni di disagio dell’infanzia, crede in un approccio antropologico e inter-culturale alle sfide della sua professione – Roma

In molte culture “primitive” (termine peraltro di gran lunga superato dall’antropologia attuale:  Claude Lèvi-Strauss per primo dimostrò e sostenne che il “pensiero selvaggio” non è una forma di pensiero primitivo e semplificato, piuttosto una forma di pensiero diversa, ma non per questo meno sofisticata e utilizzabile) quando si arriva al momento della morte, la si trova profondamente legata al momento della nascita.

Forse perché il nascere è gravato – lo era ancora di più in passato – di un grande rischio, la mortalità infantile è alta, di fronte alla nascita è normale interrogarsi sul “mistero” del ciclo della vita.

 

Malinowski, ad esempio, autore di una delle più belle monografie etnografico- antropologiche (Gli argonauti del Pacifico occidentale, 1922) ci racconta che nelle isole Trobriand (Melanesia) i Trobriandesi di quell’epoca non dessero gran peso alla funzione riproduttiva e all’accoppiamento perché potesse avvenire una nascita (ricordo che i questo caso siamo negli anni ’20, e la ricerca di Malinowski si era rivolta ad una civiltà che ancora non aveva subito, o almeno non in grande stile, la “strage antropologica” che l’occidente ha poi continuato a compiere dopo).

La verità sostanziale per questa cultura era un’altra: che “ogni nascita, ogni nuova vita inizia con la morte di un altro individuo”. Il defunto si recherà a Tuma, un’isola dove condurrà una esistenza analoga a quella da vivo, ma assai più bella. Quando si sarà stancato il defunto tornerà bambino, si lascerà trasportare dalle onde del mare fino a che lo “spirito” di una futura madre lo vedrà, e lo deporrà nel grembo di quella donna. Per farlo rinascere.

 

L’etnia Tamil (minoranza dello Sri Lanka, in prevalenza induisti) una volta l’anno, il 27 novembre, celebra il giorno dei maaverar, e cioè “i grandi eroi”, caduti lottano per la libertà (ndr: nella guerra civile con la maggioranza cingalese, le tigri tamil).

Ciò che colpisce è che i corpi di tali eroi non vengono bruciati come accade di solito nell’induismo, ma sepolti. Ed esiste un luogo di sepoltura chiamato tuillam illam, “le case del sonno”: a differenza degli altri luoghi di sepoltura (brutti da vedere), questi sono giardini curatissimi, si può recarvi a qualsiasi ora, non ci si deve “purificare” dopo essere entrati, ma al contrario ci si deve lavare prima.

Alla base di questa eccezione alle regole c’è una metafora ufficialmente condivisa, molto forte: i maaverar non sono morti, ma dormono. E non si parla per loro di “sepoltura”, ma di “semina”. Dalla semina dei maaverar nasceranno altri eroi.

 

L’Africa è stata oggetto di numerose ricerche sul campo, ed è uno scrigno senza fine di spunti di riflessione in questo senso.

 

In Benin – ad esempio – nella tribù tangba il legame tra chi nasce e chi muore diventando antenato è molto forte. La morte è metaforicamente spiegata con esempio legato alla natura.

“Come il frutto che quando cade a terra lascia nuovi semi, e da vita a nuovi alberi” .

 

In altre culture africane si dice che “gli antenati producono bambini” o “li spingono a nascere”.

 

Anche in molti riti di passaggio, o riti “di iniziazione” è presente l’idea della morte.

Perché?

La vita è spesso esplicitamente considerata come un viaggio, ad esempio tra i Nande del Nord Kivu (ex-Zaire, oggi repubblica democratica del Congo) o tra i Bakonjo dell’Uganda, ed esistono delle soglie e dei passaggi.

Uno dei passaggi è quello appunto dei “riti di iniziazione” (cosiddetti antropoietici, definiti così  dall’antropologo Francesco Remotti, (e cioè capaci di “formare uomini”): passaggio con prove che prevedono scarificazioni, circoncisione, prove di coraggio di ogni tipo, allontanamento dalla famiglia per lunghi periodi.

Si tratta di passare da una forma di umanità ad un’altra. Si sperimenta una morte (lo stadio dell’infanzia) e una rinascita (l’essere diventati adulti: la maturità) che rende più uomini, che permette una forma di umanità riconosciuta più matura, più alta. Il risultato esperienziale è il prendere confidenza con la morte come un futuro rito di passaggio, naturale ed insito anch’esso nella realtà delle cose.

 

Non è dissimile da ciò che Tiziano Terzani racconta nel suo “Un altro giro di giostra”.

Si era recato negli Stati Uniti per curarsi del suo tumore. Più volte i medici gli avevano spiegato le ragioni di quel suo tumore, le possibilità in percentuale di guarigione, il perché e il per come si poteva combattere e superare il rischio del decesso. Ma – racconta Terzani, in buona sostanza – nessuno mi ha mai detto che si muore perché siamo nati! E perciò, perché averne paura? Morire è la cosa che hanno fatto tutti!

 

Per il popolo Bangwa  – è Martin Nkafu che spiega alcuni concetti di antropologia africana nel suo libro Il pensare africano come vitalogia – è molto forte l’idea di immortalità. Niente può distruggere la vita umana, e tutta la vita è un circolo eterno. Come il ritmo delle stagioni. Come l’alternanza tra pioggia e siccità.

La vita comincia dalla nascita, poi c’è la pubertà, l’iniziazione, il matrimonio, la procreazione, la vecchiaia ed infine la morte, da considerare come l’entrata del defunto nella comunità degli antenati. Comunità percepita come espressione di una reale vita:  “altra” ma reale, vera.

In sintesi – anche se sarebbero affascinanti anche i dettagli – si ritiene che la nascita e la morte non siano due eventi slegati e posti nel tempo come definiti, ma è un processo molto più graduale.

E soprattutto il confine tra la vita e la morte è più tenue.

 

La morte biologica non è considerata “la fine” della vita umana. La visione profondamente antropocentrica delle culture africane lega il concetto di immortalità al fatto che il defunto “vive” perché viene ricordato costantemente da parte dei parenti e degli amici con i quali ha condiviso una vita. Il suo nome è nei loro cuori per sempre! E finchè lo si ricorda esso “non è morto”, ma è un morto-vivente.

L’arco della vita dell’uomo, dal suo nascere alla morte, segue un passaggio dal sasa al zamani. Nella lingua Swahili – è lo storico Jonh S. Mbiti che lo spiega – il termine sasa da l’idea della immediatezza, della vicinanza e del futuro prossimo, mentre zamani è un futuro incerto, o anche un passato incerto. Se sasa è il micro-tempo, zamani  è il macro-tempo, dove si entra nel collettivo che collega tutte le cose.

È solo alla morte dell’ultima persona che lo conosceva che il defunto esaurisce il suo periodo sasa e il processo della morte giunge a completezza. I defunti però non scompaiono dall’orizzonte ottico di quella tribù, ma entrano nella memoria, e diventano appunto membri della comunità degli antenati, in una sorta di immortalità collettiva.

 

Tutto è un po’ più comprensibile se si pensa che per “tempo e spazio” si usa a volte la stessa parola, e ciò fa comprendere perché l’africano non ama allontanarsi dalla sua terra. Dalla terra dove riposano i suoi defunti. È la terra che da senso al suo vivere nella sua vita “personale” e del tenersi collegato al tutto spazio-temporale (zamani) in cui i suoi antenati sono già.

Una paura degli africani è quella di essere dimenticati, e d’altronde la condizione per rimanere nella memoria dei viventi è condurre una vita buona, virtuosa. Ci possono essere dei funerali dove si viene invitati a “dimenticare”, e così il defunto diventa  subito “mortale”. Al contrario il funerale di una persona buona e gradita sarà una festa, con danze e musiche le più belle che quella tribù possa esprimere. Anche in questo caso c’è una verità sostanziale condivisa che funziona come legante sociale.

È utile per comprendere la cultura (le culture) africana sapere che bantu è il plurale di muntu che significa uomo (essere umano). I Bantu sono una delle razze più numerose in Africa, lo Swahili è una delle lingue bantu, ad esempio).

Mentre il prefisso mu indica il singolare, ba indica il plurale. Uniti alla radice –untu si formano perciò due concetti distinti.

Per esprimere l’idea di “umanità” si usa sempre il plurale, ba-ntu, tanto che si parla di etnia, cultura bantu, ecc. Anche se (con l’accento finale sulla ù) tale parola  è stata  usata a sproposito grazie alla nostra folle ignoranza etnocentrica, il termine invece è profondissimo, e evoca e culmina nella concezione della comunità, del “noi” come centrale nella vita della persona, come cuore di questa cultura. Perciò non meraviglia il nesso tra la vita e la morte così come descritto, denso di significato e certamente utile per recuperare nella nostra società il senso del pensarci “umanità”.

 

Anche se sembra di essere in presenza del processo della reincarnazione contemplato nella cultura induista, buddhista (e non solo), negli esempi qui riportati il punto è un altro.

Non siamo in presenza dell’anima che, svincolata dal proprio corpo, trasmigra in un altro.

È piuttosto una sorta di legame di continuità tra ante-nati e neo-nati ad essere sottolineato.

In fondo mi piace sottolineare che il suffisso nati  è identico. “Ante” e “neo” dicono semplicemente la soggettiva variabile temporale rispetto a quel dato momento.

Il fatto è che nelle culture africane è diversa la percezione del tempo stesso. Più “circolare” e collettivo. Inoltre è fortissima la percezione di sé come “parte del tutto”.

 

Molta della cultura africana è nascosta, ma è sotto traccia nei proverbi.

Non dimentichiamo che la smania tutta occidentale (e non solo) di scrivere e descrivere ogni cosa può far perdere il gusto e il senso dell’oralità e della memoria, ancora forte nel continente africano.

I popoli africani hanno elaborato i proverbi a partire dall’osservazione e dall’esperienza e contengono un certo numero di affermazioni di fondo costituenti una sorta di “filosofia di base” su cui si basa la loro interpretazione del mondo e dell’uomo.

A questi si ricorre spesso specialmente con i bambini, oltre all’uso delle narrazioni. Nel caso della anzianità e della morte di una persona cara i proverbi sono di grande aiuto, e sono densi di humor e di poesia.

Io ti ho aiutato a farti spuntare i denti, tu aiutami a perdere i miei” si sentirà dire un ragazzo, e subito capirà senza troppe perifrasi il valore dell’assistenza agli anziani. E non solo perché l’anziano è possessore della sapienza per cui è prezioso ed importante, ma per il precedente concetto di circolarità della vita che lega il suo flusso in un unicum.

Di fronte alla morte leggete come è bella questa altra narrazione composta da detti proverbiali:

 

“La morte è un ventaglio che rinfresca tutti

La morte è un guado che tutti devono passare

La morte è la stuoia sulla quale tutti riposano

La morte è un vestito tradizionale nel quale tutti si avvolgono, prima o poi

La morte è un cibo che tutti mangiano”.

 

Una poesia del Senegal esprime un altro concetto, legato sempre alla visione “una” del cosmo e della vita.

 

I morti esistono, non sono mai partiti

sono nell’ombra che si illumina

e nell’ombra che scende nella profonda oscurità.

 

Sono nell’albero minaccioso

e nel bosco che geme.

Sono nell’acqua che scorre

sono nelle capanne,

sono nelle piroghe

 

I morti non sono morti.

 

( Birago Dipo, poeta senegalese)

 

Potemmo provare a concludere riprendendo un concetto detto prima, affermando cioè che forse solo “ripensandoci come bantu” potremmo dare significato profondo al periodo fine-vita nel nostro occidente.

Questo il contributo prezioso e fecondo che può venirci dalle culture “primitive” – dall’Africa in particolare – che avendo un sapere ancora vitale (vitalogico, come direbbe Nkafu per la cultura bangwa) e non frammentato, sanno spiegare e dare significato al passaggio ultimo ricorrendo alla nascita e agli altri passaggi-chiave della vita,

E una visione della vita come un Viaggio. E non si tratta – ripetiamo – di un processo mentale o  intellettuale, ma vitale.

Il problema resta in caso tutto nostro, visto che pur in presenza di una oggettiva crisi della nostra cultura – perciò un passaggio che richiamerebbe soluzioni collettive – ci ostiniamo invece a viverlo con la modalità mon-tu,  (“al singolare”) anzi esasperando l’individualità.

 

Per questo è suggestivo il nesso “nascita–morte”.

Ossimoro evidente e invece provocazione feconda! A patto di ritrovare senso e “pratiche” di passaggio di consegne tra generazioni. Rivisitare il rapporto nonni-nipoti, o “anziani-giovani” con ben altra attenzione. Ripensarci cioè “umanità una” anche sotto l’aspetto “tempo”.