Corpi di forza una lettura interculturale, femminista, marzialista della “violenza di genere”

Alessandra Chiricosta*

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Ciò che so sulla forza, parafrasando Bruce Lee, lo ho appreso grazie alle arti marziali. Vuol dire che non l’ho solo letto, pensato, ma prima di tutto l’ho esperito. L’ho appreso partendo da me. È divenuto carne, sangue, muscoli, tendini, segnali elettrici. È una forza che è partita da me, dal mio corpo-mente, che è divenuta cosciente di sé grazie alla pratica del corpo-pensante. È presenza libera, non posso negarla se non negando me stessa. Per questo che, per quanto mi riguarda, i discorsi che creano una donna priva di forza, che la fanno naturalmente debole, risuonano come vuoti costrutti, armature senza corpo. Il mio corpo parla, e mi dice altro. Di questo mi fido.

Che il corpo di una donna sia un corpo “debole” è assunto radicato nel senso comune, in molti tempi e a molte latitudini. Il “gentil sesso” è così detto proprio in virtù di una concezione che vede il corpo della donna come biologicamente, naturalmente caratterizzato da tratti di accoglienza, di morbidezza che lo renderebbero strutturalmente inadatto all’esercizio della forza, soprattutto quando questa viene vista nei termini di un combattimento. La forza del corpo femminile andrebbe dunque ricercata altrove, in una dimensione che non comprende l’esercizio della forza combattente. In genere, questo “altrove” viene posizionato nei contesti della cura e della procreazione, o nella dimensione della sensibilità emotiva ed emozionale. Forza combattente, intesa nel suo portato psico-fisico ed emozionale, e “cura” sono visti, perciò, come termini antitetici e reciprocamente escludentisi: la forza fisica viene così spesso equiparata sbrigativamente alla violenza, o quanto meno ad un potenziale esercizio di questa. Un corpo forte è, quindi, naturalmente portato all’esercizio della violenza, qualora non intervengano limiti esterni ad inibirne questo tipo di espressione. Un corpo debole è naturalmente portato alla pace e alla mitezza. Un corpo forte è grezzo e bruto, un corpo debole è sensibile e fine. Questo tipo di interpretazione dualistica, dicotomica del rapporto tra forza e debolezza, che si traduce in un netto contrasto tra violenza e cura, maschile e femminile, guida, tra le altre cose, anche la lettura della grave questione della “violenza di genere” in molti paesi – tra cui l’Italia – e motiva molte delle scelte – o non-scelte – politiche in materia. Il consenso che viene più o meno implicitamente assegnato a tale paradigma è condiviso da molte e da molti, in modo trasversale a partizioni e posizionamenti. Rappresenta, ad oggi, una base di partenza per riflessioni, analisi e soluzioni, condivisa in virtù della sua naturalità ed oggettività. La differenza tra le posizioni si trova quasi sempre a valle di tale paradigma, aprendo dibattiti e conflitti che riguardano le strategie da utilizzare per la limitazione dell’esercizio della forza-violenza – se questa debba passare per il riconoscimento dello stato di “vittima” di una donna o, al contrario, puntare su un rafforzamento del suo “potere”, ad esempio – o, in contesti differenti, se tale asimmetria biologica vada semplicemente accettata, i singoli e le singole dovendone farsene carico al livello personale.

 

Il mio personale percorso di ricerca, al contempo esperienziale e intellettuale, mi ha portato a mettere duramente in questione questi assunti, smascherandone le caratteristiche di costruzione culturale, di dispositivo biopolitico, di profezia autorealizzantesi. Il percorso qui proposto muove verso una seria e radicale destrutturazione del paradigma corrente sulla forza in relazione al genere, non collocandosi, conseguentemente, in nessuno dei posizionamenti sopra esposti. Attraverso un’indagine svolta in più atti, che attraverserà vari campi e diverse discipline, si intenderà dimostrare come la costruzione “culturale” della forza/violenza del corpo maschile e della debolezza del corpo femminile, lungi dall’essere un dato biologico ed oggettivo, è un dispositivo biopolitico che ha limitato fortemente l’esplorazione di altre dimensioni ed elaborazioni di concetti come “femminilità” e “mascolinità” in relazione all’espressione della forza. È il paradigma, non l’oggettività corporea, ad aver articolato le relazioni tra i generi alla stregua di una lotta tra vittima – reale o potenziale – e carnefice – reale o potenziale. Paradigma che si basa su di una lettura superficiale, parziale, contraddittoria e farraginosa di cosa si intende per “forza”, “forza combattente” relativa ad un corpo sessuato. Paradigma che trova la sua smentita in molteplici luoghi e tempi, diversi da quelli che siamo abituati a considerare. Paradigma che ha tentato di eliminare ciò che lo contraddiceva, ma che non sempre è riuscito nell’intento. E tracce, cicatrici, cesure indicano l’esistenza di possibilità diverse di pensare la relazione tra i generi, il cosa renda un corpo-mente mascolino o femminino, la violenza, la forza. Seguire le tracce, fare luce su di una mistificazione, articolare nuovi percorsi di indagine e di azione è una questione che si mostra oggi di particolare importanza. Restituire al corpo di donna un suo proprio accesso alla forza, ripensare il concetto di forza come plurivoco e multisfaccettato, svelare in che modalità un paradigma culturale sia divenuto una profezia autorealizzantesi sono qui visti come passi necessari per poter realmente puntare ad una relazione tra i generi non segnata da una “violenza originaria”, ma che, invece, si apra nel segno di due soggettività ugualmente compiute, in grado di intessere relazioni nella differenza.

Cosa si intende quando si definisce una donna, per natura, più “debole”? Il “corpo della donna” –concepito artificiosamente come singolare, rimuovendo la specificità che ogni singolarità comporta – è così culturalmente costruito per apparire debole, o meglio, più debole del corpo maschile. Il corpo della donna non è visto in sé, nella sua pluralità di incarnazioni e nelle possibilità che da quelle uniche e irripetibili incarnazioni si dispiegano, ma come terminus ad quem, singolare e naturalmente determinato, del corpo maschile. Un corpo, questo, che si vuole dotato di una forza quantitativamente maggiore e di un correlato – anche se ambiguamente argomentato – diritto all’esercizio di questa forza su chi sia costitutivamente più debole. La costruzione di un’ identità maschile “forte”, e quindi in diritto naturale di comandare, necessita di una controparte che inveri questo assunto, di un “lato oscuro” che ne manifesti la chiarezza e la verità. La “debolezza” del corpo della donna legittima l’esercizio della forza da parte dell’uomo sul suo corpo in modi che solo all’apparenza appaiono contraddittori, come la violenza e la protezione. Non a caso sono questi i poli tra cui la narrazione dominante pone la questione della violenza di genere. Convinzione di chi scrive è, invece, che i corpi delle donne siano dotati di propri accessi alla forza, anche alla forza combattente. Questi accessi sono stati in gran parte ostruiti proprio da costruzioni culturali, divenute nel tempo pratica e politica, che hanno sostituito un percorso di cosciente comprensione e sviluppo, a partire da sé, dei potenziali che i corpi delle donne possono esprimere con ideologie identitarie calate dall’alto e funzionali ad una narrazione che vuole “l’uomo” come unica soggettività compiuta e modello normativo. Anche la “soggettività maschile” così costruita appare come limitata e limitante. Se il senso della mascolinità viene ritrovato nell’esercizio dell’assoggettamento di qualcun’altra – o qualcun altro – in un atto, cioè di prevaricazione e misconoscimento, anche la possibilità di uno sviluppo di una mascolinità autonoma e plurisfaccettata viene seriamente compromesso. Nonostante la “soggettività maschile” si pensi, in questa azione prevaricatrice, come “vincitrice”, l’ordine che instaura la renderà prigioniera di una visione di sé parziale, da cui difficilmente potrà sfuggire, proprio perché significherebbe rinunciare alla propria sovranità. Ordine asimmetrico e coloniale per sua stessa natura, ordine piramidale, patriarcale. Per tale ragione si rende necessario un profondo ripensamento delle dinamiche di costruzione della relazione tra i generi che sia radicale, ovvero che ritorni alle radici, che analizzi criticamente i modi e le ragioni attraverso cui la “soggettività femminile” sia stata inferiorizzata e provi a riarticolare percorsi differenti. Si tratta, cioè, di sfidare il “senso comune” nel quale presupposti per nulla “oggettivi” sono stati assunti al livello di verità autoevidenti e articolare nuovi paradigmi. La ricerca sulla forza a partire da un corpo di donna si posiziona lungo questa direttrice.

L’operazione di rimozione della forza dal corpo della donna è una tragedia in molti atti e a plurimi livelli, che si è dipanata, con alterne vicende, attraverso secoli di storia. Molti, moltissimi i dispositivi posti in atto per trasformare l’ideologia in “natura”. Primo fra tutti proprio una definizione assolutamente parziale di ciò che si definisce “naturale” e ciò che viene detto “culturale” e forse, verrebbe da pensare, proprio questa netta cesura tra natura e cultura costituisce un punto nevralgico della questione. L’effetto che poi questa visione ha posto in atto è stata una forma di “proibizione” culturale per le donne di esercitare il proprio corpo in quelle discipline e azioni che ne avrebbero consentito la coscienza e lo sviluppo di una forza combattente. L’assunto che vuole il corpo di donna debole, quindi “poco femminile” qualora debole non si dimostri, è imbarazzante nel suo essere tautologico. Tuttavia proprio questo assunto è divenuto reale, avendo per molto tempo e in molti luoghi decretato l’allontanamento delle donne da quelle forme di coscienza pratica che lo avrebbero smentito nei fatti.

La forma di coscienza che la forza richiede è soprattutto pratica. Modalità di conoscenza in gran parte svilita nei nostri contesti culturali, essendo l’attività fisica sovente considerata qualcosa di meno degno di quella intellettuale – e comunque in rapporto dicotomico con questa – o trasformata in industria del benessere dall’evidente carattere prestazionale. Se questa dinamica colpisce la concezione dei corpi indistintamente, le modalità in cui si attua vanno ad aggravare le esistenti visione stereotipate del corpo femminile e di quello maschile. Le separazioni tra natura e cultura, tra intelletto e corpo sono produzioni culturali che hanno fondato modi di percepire e agire nella realtà, non verità assolute. Dimostrazione ne è che non sono presenti nella totalità delle culture. E forse non è casuale che sia proprio nei contesti culturali che non le comprendevano che si sono sviluppate forme filosofico-pratiche che nutrono e coltivano la forza combattente che un corpo di donna può sprigionare. Perché la forza combattente non è una sola, non ha solo i modi che una certa visione, che definirei “militarizzata” usando un felice concetto elaborato da Angela Putino, ci propone come assoluti. Come si avrà modo di mostrare, l’analisi che parte dalla forza che un corpo di donna può sprigionare condurrà a riformulare presupposti e categorizzazioni che eccederanno di gran lunga dal terreno, reale o figurato, del combattimento, andando ad investire le modalità dei rapporti tra i generi, le concezioni su cui si fondano i generi stessi, il rapporto degli esseri umani con i contesti in cui abitano, siano essi “naturali” o “antropici”, con l’organico e l’inorganico. Mostrerà che l’esercizio della violenza non è insito nella forza, ma in quella particolare concezione della forza combattente che si pensa come “forza-sopra”, soggiogante. E che è anche all’origine di una certa definizione asimmetrica e soggiogante del maschile e del femminile nell’ambito dell’ideologia patriarchista. Ciò che qui si propone non è, dunque, un triste ed inutile scimmiottamento da parte delle donne di ciò che rende “forte” il corpo di un uomo, un’ulteriore forma di militarizzazione. Al contrario, viene qui suggerito un percorso che, ripartendo da basi, radici, corpi diversi, diversamente concepiti e simbolizzati, sia in grado di dischiudere e articolare una differente concezione della forza combattente, come sviluppo di sé, non forza coercitiva.

L’accesso alla forza passa, dunque, per una donna, attraverso una destrutturazione critica di un intero mondo che si è creato a partire dalle ideologie che questo accesso l’hanno voluto occludere. E, nel contempo, attraverso la ripresa di un diverso rapporto con la propria corporeità che non sia solamente teorico, ma pratico/teorico. Che punti, ciò, a superare quella dicotomia, quel baratro in cui si perde la forza di un corpo di donna. Un rapporto differente che non parla più di dialettiche, ma di relazioni, in cui “esterno” e “interno” sono non opposizioni statiche, principi di separazione, ma momenti dinamici, fluidi.

 

Le Forze combattenti nel taijiquan

Per comprendere se sia possibile un’analisi differente dei concetti di forza e violenza, occorrerà uscire dal solco del pensiero europeo ed aprirsi ad un dialogo interculturale che possa mettere in luce ciò che qui da noi non si sia pensato. Nel far questo, si renderanno anche più chiare le motivazioni che portano a diverse “scelte culturali”, spesso adombrate dal nostro stesso essere immersi e informati dalla cultura in cui viviamo. Uno dei contesti in cui la teorizzazione sulla e la pratica della forza combattente ha conseguito punte di rara intensità è quello delle arti di combattimento dell’Asia Orientale e del Sudest Asiatico. Nell’ambito marzialistico cinese, ad esempio, diversi termini vengono utilizzati in riferimento alla forza combattente, per tradurre un concetto che noi abbiamo pensato come unico. Ciascuna di queste parole indica una diversa fonte, un differente sviluppo e diverse dinamiche in cui la forza si manifesta. Il primo, più semplice termine che viene utilizzato nell’ambito delle arti di combattimento per esprimere “forza” è 力lì. Il carattere indica un aratro di metallo. Il senso che così viene espresso è quello di un qualcosa che penetra nella terra, vincendone la sua resistenza con una sempre maggiore forza muscolare. 力 esprime, dunque, un’accezione meramente quantitativa e basica della forza, quella che in italiano si esprime con “forza bruta”. Nel significato datane nelle arti di combattimento cinesi, 力 è considerata “cieca e ottusa”, nel senso che costituisce solamente la forma più grezza e muscolare della forza. A differenza di quanto saremmo portati a pensare a partire dalle trattazioni che della forza si sono fatte nelle nostre tradizioni, questo livello della forza è il meno significativo in termini di efficacia combattente. È utile a svolgere lavori pesanti come, per l’appunto, dissodare un campo. In questa accezione, il carattere力 si ritrova in posizione radicale anche nell’ideogramma男nán, (uomo, maschile) che rappresenta la forza muscolare che sorregge un campo coltivato. Il senso che se ne deriva è che ciò che definisce il “maschile” 男nán sia sì la forza力, ma considerata nel suo primario utilizzo: quello per dissodare, vincere una resistenza senza comprendere le ragioni e le forme in cui questa resistenza si dia, preparare la terra per la coltivazione, cioè modificarla, organizzarla per renderla disponibile al suo utilizzo da parte del contadino.

Di ben diversa forma di coltivazione parla, invece, l’altro termine utilizzato per esprimere la forza: jìn 勁. La maggiore complessità di questo secondo carattere si mostra anche graficamente, presentandosi come composto da due elementi, jing巠 e . Già da una prima e rapida osservazione, possiamo cogliere che jìn 勁 includa , ma che in qualche modo la arricchisca, la trasformi. La presenza del carattere 力 all’interno di jìn 勁 evidenzia che quello di cui si parla nel caso di jìn 勁 non sia qualcosa di radicalmente separato dalla “forza muscolare bruta”, ma che la includa, che parta da essa. Non si può, cioè, rimandare alla contrapposizione a noi più familiare tra “forza muscolare” e “forza spirituale”, ad esempio, in cui le due forze si posizionano su piani separati, addirittura antitetici. Jìn 勁, invece, parla di una trasformazione, un raffinamento di . Il rapporto tra i sotto-caratteri non si limita ad una semplice giustapposizione, ma esprime un processo, indica relazioni che trasformano vicendevolmente. Il carattere che si unisce a è Jīng 巠, a sua volta composto da tre sotto caratteri: yī 一, ovvero “uno”, “intero”, “tutto”; chuān 巛, “fiume” e 工 gōng, “lavoro”, “pratica costante” (incidentalmente, è lo stesso Gōng che si trova anche nel termine Gōng fu 功夫). Il carattere jīng 巠, quindi, parla di un “qualcosa che lavora-fluendo al di sotto del tutto” – se la posizione di yī 一 al di sopra degli altri caratteri viene vista in maniera “letterale” – e viene ad indicare, ad esempio, i fiumi carsici. Ma parla anche di un “tutto”, un’unità complessiva, che “fluisce” grazie ad un “lavoro costante”: in questo senso viene tradotto anche come “passare attraverso” e quindi “oltrepassare” facendo esperienza.

Il senso che si ritrova in jìn 勁 è dunque quello di una forza che passa attraverso, fluendo, come un fiume sotterraneo, modificando ciò che incontra grazie ad un lavoro costante, una pratica, che ha permesso alla forza stessa di trasformarsi, divenendo ciò che è. La forza bruta, muscolare viene trasformata, raffinata grazie ad una pratica, un lavoro costante, che ha come caratteristica la fluidità dell’acqua, lo stesso potere dirompente di passare attraverso, di penetrare che un fiume carsico ha nello scavarsi il suo percorso nella dura roccia. L’acqua è senza forma, non è mai rigida: proprio questo le permette di vincere contro ciò che è duro. Questa è la forza che si esercita, studia e pratica nelle arti marziali, in particolare in quelle definite “nei”, interne, quali il taijiquan.

La trasformazione di in jìn 勁 determina anche un cambiamento profondo nelle caratteristiche della forza e nei modi per percepirla, accrescerla ed esercitarla. si potenzia tramite accrescimento muscolare: in ciò corrisponde più o meno precisamente alla nostra idea di “forza fisica, forza bruta”. Non abbiamo termini, invece, per tradurre jìn 勁. La tradizione delle arti di combattimento cinesi ha dischiuso e articolato un senso che a noi resta oscuro, non avendo la nostra concettualizzazione e simbolizzazione del corpo permesso un accesso a questa esperienza. In ciò non temo di affermare che la visione del corpo e della sua forza presentata nella cosiddetta “cultura occidentale”, prigioniera di una concezione meccanicistica e dicotomizzante, appare, sotto questo aspetto, come assai più limitata e semplicistica. Il corpo che si invita a liberare nel taijiquan è un organismo assai più complesso e multisfaccettato del meccanismo elettrico-idraulico-pulsionale a cui si è arreso il nostro corpo “occidentale”. Ciò di cui parla la medicina tradizionale cinese, ad esempio, non sono singoli organi connessi in un meccanismo, bensì relazioni tra elementi in rapporto funzionale tra di loro e con l’ambiente in cui sono immersi, che li attraversa. Ciò ha permesso alla fisiologia energetica cinese, in particolare nel suo declinarsi nelle arti di combattimento, di osservare in altro modo, e secondo altre direttrici, il concetto, le pratiche e le manifestazioni della forza combattente. Proprio a causa di questa “mancanza” terminologico-concettuale nella lingua italiana, risulta molto complesso fornire una descrizione della jìn 勁 che non cada nelle nostre opposizioni dialettizzanti che separano mente e corpo, natura e cultura, forza e debolezza, solo per citarne alcune. Perché, sostengo, per uscire dalla dimensione cristallizzata del senso della forza con la quale ci troviamo a confrontarci “qui e ora”, è necessario uscire dal gioco mortifero della paura, dell’orrore del vuoto, su cui molto del senso della “nostra cultura” (se di cultura al singolare si potesse parlare) si è costruito. L’analisi della forza che si compie nelle nostre latitudini si inserisce in una concezione dei corpi, del loro simbolizzarsi, della mente, della natura, della cultura, del “maschile” e del “femminile” situato e determinato. Da questa posizione, con Weil, la forza dei corpi può essere solo forza aggredente, maschile, dominante. Violenza. Ma non ovunque è così. Al variare del paradigma, cambia lo scenario. Il taijiquan si origina in Cina, nell’intreccio tra filosofia yin/yang, scuola dei wu xing, daoismo, buddhismo. A cui si aggiunge un po’ di confucianesimo. Il corpo di cui si parla, che viene pensato qui differisce molto da quello che ci hanno insegnato ad esperire. Non si tratta, infatti, di una mera “concezione diversa” del corpo, ma di un senso del corpo che si dà nell’esperienza, nel movimento. Un corpo che è energia e pensiero, in cui nulla è separato – tantomeno il pensiero o i sentimenti – ma tutto è in relazione fluida. Questo insieme di corpo-mente-spirito è lo stesso che viene presentato nelle arti mediche cinesi, come nell’agopuntura, nel tui na. E significativamente, è proprio in culture come quelle originatesi in Cina, Giappone, Corea, Vietnam che l’arte medica e quella marziale procedono insieme, sconfinando l’una nell’altra. Caso emblematico è proprio il taijiquan, l’arte del “pugno del culmine supremo”, al contempo arte terapeutica, ginnastica di lunga vita e arte marziale. Non un’arte marziale tra le altre, ma proprio arte del culmine, punto di volta. Questi elementi non sono solo giustapposti. Il taijiquan riesce a potenziare la vita proprio nel riconoscerla, corporealmente ed esperienzialmente, come coappartenente alla morte. La “cura” risiede proprio nell’esercizio consapevole e costante della forza, quella forza che può anche essere distruttrice, se sceglie di esserlo. La libertà della forza e che la forza è in grado di dischiudere è connessa alla consapevolezza, all’autocoscienza.

Come “forza fluida”, jìn 勁 oltrepassa la dimensione meramente muscolare, pur non rimuovendola completamente. Yang Jwing-Ming ricorda che ciò che differenzia principalmente e jìn 勁 sia l’impiego di qi 氣. Energia vitale, che fluisce nei corpi e tra i corpi, non solo antropici od organici, qi 氣 è uno dei principi su cui si basano moltissime scienze e discipline dell’Asia Orientale. La sua circolazione è studiata per fini terapeutici (agopuntura, massaggi, ginnastiche curative), artistici (calligrafia, pittura, cerimonia del the, arti coreutiche), marziali, ecc. In pratica, il concetto di circolazione del qi 氣 pervade quasi ogni campo delle culture dell’Asia orientale, marcando una delle più profonde differenze rispetto ai criteri interpretativi nostrani. Pensando i corpi non come “sostanze separate” più o meno animate, ma come snodi di energie che acquisiscono forme differenti, il concetto di qi 氣 supera necessariamente le divisioni radicali mente-corpo, materia-spirito, interno-esterno, natura-cultura, esseri umani-resto del cosmo. Fuori dal solco cartesiano, che riduce i corpi a mere “materie”, interpretabili solo con logiche quantitative, permette di pensare a sviluppi differenti della propria corporeità, della propria organicità psico-fisico-emotiva. Per ciò che concerne l’accesso alla forza, è proprio la capacità di convogliare il qi 氣 lungo le linee corporee interessate che segna il passaggio da a jìn 勁. Tanto più si riesce a convogliare il qi 氣 nell’azione, grazie a yi 意, l’intenzione, tanto più la forza muscolare cederà il passo a jìn 勁. Anche la può essere sostenuta dal qi 氣, ma in questo caso si parla di “jìn dura”. Il passaggio tra i due tipi di forza, come si diceva, si compie in maniera graduale, senza salti. Nel momento in cui un praticante indirizza il qi 氣 all’interno dei propri movimenti, la forza muscolare inizia il suo processo trasformativo, “autocoscienziale”, passando da azione meccanica ad attività cosciente. Per questa ragione, benchè ancora rozza, la forza muscolare unita al qi 氣 è già considerabile una prima forma di jìn 勁. Ad essere ancora più precisi, jìn 勁 è considerata come la manifestazione percepibile del qi 氣. In quanto energia, qi 氣 non può essere esperita direttamente, ma solo nel momento in cui attiva una qualche forma di dinamica. Per portare un esempio più comprensibile nella nostra esperienza quotidiana, basti pensare al rapporto tra energia elettrica e una lampadina. Non si è in grado di esperire l’energia elettrica in sé, ma solo nel momento in cui “attiva” una lampadina, diffondendo luce. Jìn 勁, dunque, è una forma di manifestazione del qi 氣. Per questa ragione non appena si chiama in causa la circolazione cosciente del qi 氣 si inizia già a parlare di jìn 勁. Ciò risulterà, al livello pratico, in un progressivo rilassamento dei muscoli coinvolti nell’azione che, a differenza di ciò si potrebbe pensare, non comporta una diminuzione, bensì aumento del potenziale offensivo e dell’efficacia combattente. Le arti marziali cinesi, soprattutto quelle interne, si basano proprio sul superamento della mera forza , considerata troppo grezza e limitata, puntando ad uno sviluppo sempre maggiore e ad un raffinamento della forza jìn 勁. Yang Jwing-Ming fornisce una chiara spiegazione di cosa significhino, in termini teorici e pratici, le differenze tra le due forze. In primis, “la proviene dalle ossa e dai muscoli, mentre la jìn 勁 dai tendini, ed è sostenuta dal qi 氣”. Ponendo l’accento sui tendini, le fibre muscolari possono rilassarsi, permettendo al qi 氣 di circolare più fluidamente. Concentrandosi sui muscoli e sulle ossa, che sono rigidi, si otterrà un tipo di forza dura che, come nell’immagine del fiume carsico, soccombe alla fluidità. Come l’acqua, infatti, jìn 勁 “non possiede né forma né struttura”. Al contrario, ha una forma chiara, evidente e misurabile. Ciò comporta un’ interessante conseguenza: la 力 di un corpo può essere, in un certo senso, quantificabile a priori, mentre jìn 勁 può essere solo percepita e autopercepita. Per questo motivo le dimensioni corporee di un marzialista, la quantità dei suoi muscoli o la dimensione e il peso della sua ossatura risultano insignificanti nei termini di efficacia combattente. Si potrebbe anche arrivare a sostenere che un corpo meno muscolato, ma con tendini più elastici, sia in grado di sprigionare una forza più incisiva. Per questo, un corpo di donna, in linea generale, dotato di più elasticità tendinea e di maggiore coordinazione psico-motoria, è più facilitato nella percezione e nello sviluppo della forza jìn 勁. Se osserviamo i corpi delle marzialiste e dei marzialisti asiatici, li vediamo asciutti e scattanti, piccoli e leggeri, assai distanti dall’immagine muscolata di un ideale combattente “occidentale”. Non solo. Il passaggio dalla quantificabilità della alla percepibilità della jìn 勁 segna il discrimine tra una prestazione fisica e un processo autocoscienziale, tra uno sport e un’arte, tra un condizionamento e una pratica di liberazione. Per questo è definita anche “quadrata”, forma che in Cina indica ottusità, goffagine, rigidità ed ovvietà; “stagnante”, ovvero incapace di rinnovarsi; “lenta”, in quanto la contrazione muscolare rallenta i movimenti, irrigidendoli; “diffusa” in quanto non indirizzata da un’intenzione cosciente. Al contrario, la jìn 勁 è “rotonda”, figura che indica la ciclicità, la rinnovabilità continua di un movimento senza che si esauriscano le energie che lo determinano; “fluida”, perché in grado di scorrere nei corpi e tra i corpi, restituendo coscienza di essi e dei rapporti che li connettono; “veloce”, in quanto l’elasticità dei tendini, non bloccati dalla contrazione muscolare, determina un movimento a frusta assai più veloce di qualsiasi pugno “duro”; “concentrata”, in quanto sa indirizzarsi con precisione, senza disperdersi. Caratteristica di jìn 勁, difatti, è di esprimersi in consonanza con l’intenzione yi 意: ciò la rende cosciente delle forme e dei modi, delle ragioni e degli obiettivi in cui si manifesta. Si sostiene, infine, che la sia smussata, cioè un arma che colpisce solo in superficie mentre la jìn 勁 è affilata, ovvero capace di penetrare in profondità, come il suo stesso nome ricorda.

 

Riconoscersi nella jìn

Lo studio teorico-pratico della jìn 勁, di come essa si sviluppi nel proprio corpo, si indirizzi e si applichi nei contesti del combattimento si mostra come arte volta ad una progressiva acquisizione di coscienza della forza che il proprio corpo-mente, preso nella sua unicità e nell’insieme delle caratteristiche che lo costituiscono, possa sprigionare. Percorso, questo, che si esplica innanzi tutto nella rimozione di quei blocchi, di ordine fisico, mentale, emozionale, culturale, che impediscono di rilassarsi, di entrare in contatto con la propria forza, con se stessi. In questo senso, le pratiche di sviluppo della jìn 勁 si considerano a buon diritto come filosofie pratiche volte all’autopercezione, alla percezione dei corpi con cui si entra in relazione, alla comprensione degli equilibri in cui ci si muove. La jìn 勁, come si è detto, è forza che si esprime nella rilassatezza, nella morbidezza e nella fluidità che solo una pratica psicofisica autocoscienziale costante e attenta può riconsegnare. Si può ben comprendere come gli scenari dischiusi da questa visione della forza siano ben differenti da quelli osservati quando per forza combattente si intenda solo la . Se la è per definizione “forza sopra”, soggiogante, separata, agita da un soggetto sopra un oggetto (come l’uomo con l’aratro), il suo impiego non porterà altro che assoggettamento, negazione dell’altrui soggettività, dominazione. Il tutto in maniera “ottusa”, ovvero non garantendo alcun tipo di coscientizzazione, ma solo confermando quella legge di sopraffazione reciproca in cui, come ricorda Weil, “nessuno è vincitore”. Forza che diviene violenza. I caratteri cinese impiegati per esprimere questo ultimo concetto, bào lì, mostrano chiaramente che la violenza includa . Bào indica qualcosa di coercitivo, distruttivo (anche di fenomeno naturale). La connotazione sempre negativa del termine bào , ricorda Campbell, declina il senso della “ottusa” lì in una direzione distruttiva. Sia nelle definizioni datene nel  Xiandai Hanyu cidian, dizionario della PRC di ispirazione maoista, che nel Taiwanese Guoyu huoyong cidian, più informato dal confucianesimo, bào lì si connette ad una sopraffazione armata, militarizzata. Nella tradizione folkorica e letteraria che gravita attorno al mondo delle arti di combattimento in Asia Orientale, la “via del guerriero” e quella del “militare” sono viste come strade opposte, come termini antitetici. Le brillanti riflessioni condotte da Angela Putino sulla radicale differenza tra “funzione guerriera” e “militarizzazione” trovano conferma nell’articolatissimo e vastissimo patrimonio culturale sulla “via del guerriero” – e della guerriera – che si è prodotto in Cina, Giappone, Corea, Vietnam lungo vari secoli. Se il militare si muove nell’ambito della , che è cieca e ottusa, la sua strada non potrà che esplicarsi nell’assoggettamento: sia della cosa/persona che viene assoggettata, sia di chi praticamente opera questo “atto di forza”, a sua volta assoggettato ad un ordine superiore. Ma il guerriero e la guerriera sono ben diversi. Inscritte nell’ordine della jìn 勁, sono figure libere, o che percorrono un sentiero di liberazione, non solo individuale. Spesso connessi ad ambiti religiosi buddhisti e daoisti (le famose figure dei monaci combattenti) e terapeutici (Hua Tuo inventa sia la medicina cinese che gli stili di imitazione degli animali che originano il Gong fu), i guerrieri e le guerriere oltrepassano le logiche diadiche delle opposizioni binarie, non accettano la logica “ottusa” della , soprattutto quando si trasforma in bào lì. E lo fanno, come si è detto, trasmutando la in jìn 勁, ovvero “trasformando il problema in soluzione”. Pensare di sopprimere la violenza astenendosi dalla forza è, nel quadro fin o qui tratteggiato, un’operazione insensata e altamente pericolosa. Trattandosi di una rimozione, più che di una “sublimazione” – per usare fuori contesto terminologie che descrivono processi a noi più familiari – l’astensione acritica dall’esplorazione della forza comporta gravi rischi di misconoscimento delle modalità delle forze stesse, delle loro differenze, quindi della possibilità di farne analisi complete che portino a percorsi di superamento delle dinamiche di violenza. Si rischia, cioè, di buttare il bambino con l’acqua sporca, ostruendo per sempre l’accesso a quel particolare percorso autocoscienziale che permette di accedere alla propria forza, trasformarla e, facendo ciò, trasformare anche i modi e i sensi delle relazioni interne ed esterne. L’acquisizione di coscienza della jìn 勁 è un percorso autocoscienza non dialettico, che si presenta come possibilità di soggettivazione non soggiogante, bensì che parte da sé e si esprima nella coscienza che il sé è sempre relazionale. L’affinità di questo percorso con i sentieri di lotta delle donne di nuovo risuona nelle parole di Angela Putino che, anche con una limitata conoscenza delle tematizzazioni dell’Asia Orientali sulle figure guerriere, aveva ben colto le possibili convergenze della “funzione guerriera” con i femminismi.

L’accesso alla jìn 勁 si attua, come si è detto, attraverso un percorso esperienziale che coinvolge la totalità della praticante, la sua dimensione corporea, intellettiva, intenzionale, sensibile, emozionale. La pratica del taijiquan insegna come armonizzare le diverse sfere dell’esistenza in un unico momento consapevole, che si ripete al ritmo di inspirazione ed espirazione. Insegna ad ascoltare il proprio corpo, non considerandolo una macchina guidata da una mente, ma come dotato di un suo proprio linguaggio e modalità di “pensiero” sensibile e sensiente. I classici del taijiquan ricordano che “la mente segue il corpo”, intendendo con ciò che l’azione non-agente, wu wei, accade solo quando l’ossessione di controllo di una parte (in questo caso la mente) sul tutto viene sciolta, dissipata. Solo acquietando la mente, i suoi progetti, le sue griglie rigide e ponendola all’ascolto e al servizio del corpo energetico, quest’ultimo può esprimersi nel suo linguaggio e articolare movimenti zi ran, “naturali, spontanei”. Solo rilassando i muscoli e tutte le tensioni che ne provocano la contrazione o l’irrigidimento più o meno volontario si può sprigionare la forza che oltrepassa come l’acqua. La rigidità muscolare è cifra, nel linguaggio del corpo, di dinamiche che possono originarsi anche in altri stati psicofisici, come quelli emozionali. Se cerchiamo di comprendere cosa significa la paura, ad esempio, dal punto di vista corporeo, sentiamo che significa battito cardiaco accelerato, diaframma che si alza e rende il respiro più corto e affannoso. La maggiore pressione sanguigna e il minor apporto di ossigeno rendono più difficili le operazioni del pensiero, anche le più banali. Significa piedi che perdono radicamento a terra, a causa dell’innalzamento del diaframma. I piedi divengono meno sicuri del loro appoggio, quindi le gambe tremano. I muscoli si irrigidiscono, impedendo il movimento. La mancata coscienza della propria forza porta a risposte “mimetiche”, in cui il corpo si irrigidisce come un cadavere e la paura, letteralmente, paralizza. Si va, cioè, nella direzione di impedirsi a priori ogni azione difensiva. Questa mancanza di risposta combattiva caratterizza l’esperienza di moltissime donne e viene sovente letta, nel contesto della “violenza di genere” come una conferma della differenza sostanziale tra un corpo maschile ed uno femminile nei confronti di un dell’utilizzo della forza combattiva. Non solo. Viene visto in ciò anche l’estraneità del corpo-mente femminile alle logiche della forza, della violenza, essendo, al contrario, il corpo femminile caratterizzato dalla predisposizione ad una “cura” che, di sua natura, contrasta con la forza. La mia esperienza, invece, mi riconsegna altro. L’osservazione da me condotta in anni di pratica e d’insegnamento mi restituisce l’immagine di un rimosso, più che di un destino. L’aver separato la dimensione riproduttiva da quella combattiva, l’averle poste come alternative l’una all’altra, ha contribuito sopra ogni cosa a rendere il paradigma una profezia autorealizzantesi. Una banale riflessione mi fa constatare che la specie umana costituirebbe quasi un unicum tra i mammiferi se ciò fosse vero. Nella gran parte delle specie, soprattutto nei predatori, sono proprio le femmine-madri ad essere più pericolose, forti e astute nel combattimento, proprio perché la loro esigenza di essere combattive si fa più impellente e vitale proprio in virtù dell’esperienza della “cura” che stanno vivendo.

Lo studio pratico-teorico della forza jìn 勁 mette in crisi il paradigma che assegna maggior forza combattente ad un corpo con ossatura e muscolatura più massiccia, caratteristiche queste associate (anche qui con grosse generalizzazioni) ad un corpo maschile. Nel contempo, falsifica la teoria che vede la forza combattente esprimersi solo nei termini di “forza soggiogante”, quindi in linea di continuità con la violenza. Questo è uno dei percorsi della forza , non della forza combattente tout court. Il processo di soggettivazione sessuata che avviene sotto il segno della forza parla necessariamente di un “soggetto” che agisce la forza sopra un oggetto che la subisce. Nell’ottica diadica in cui la forza sembra iscriversi, se il soggetto dotato di 力 è più tendenzialmente di sesso maschile, esso esprimerà la sua soggettività nella sottomissione fisica di un “oggetto –donna”. O, per meglio dire, è proprio l’atto di violenza che soggettivizza un “maschile” pensato come “forte” tramite la desoggettivizzazione di un corpo vivente, relegandolo nell’impersonalità di una funzione comune, quella di “vittima” di un’azione soggettivante maschile. Quindi, nella constatazione – in realtà teoreticamente anticipata dal senso comune – dell’incapacità di questo corpo di affermarsi contro la forza soggiogante, viene letta la conferma della verità dell’assunto stesso che priva il corpo di donna della possibilità di essere forte e combattente. La violenza, dunque, riattualizza l’ordine in maniera performativa e tautologica. La necessità della reiterazione delle violenze di genere, nelle loro varie forme, mi invita a pensare che, in un certo qual modo, questa visione parziale della forza è in parte conscia della sua limitatezza. È come se lo spettro, la possibilità di un’altra forza, venisse agitato per poter essere negato. In un’epoca in cui le donne hanno dimostrato la loro capacità di stare, allo stesso livello e differentemente, nei vari ambiti creati e colonizzati dal neutro maschile, la questione della forza combattente rimane un punto oscuro e scivoloso, perturbante direi. E non è un caso che proprio quando i movimenti e le teorizzazioni femministe hanno messo in discussione l’intero impianto delle dinamiche biopotere e della thanatopolitica, le questioni legate alla violenza di genere acutizzano la propria visibilità e infiammano i discorsi. Ravviso qui una particolare modalità della crisi negli ordini di rapporti tra donne e uomini così come si sono dati nella “tradizione culturale”: la paura “patriarcale” della messa in discussione di un qualcosa di più radicale, di un processo di soggettivizzazione psicofisica che informa le nostre culture e i nostri vissuti più di quanto immaginiamo. Processo che si invera come atto di forza soggiogante, reale o immaginario, in cui un corpo-mente pone se stesso in quanto “più forte”, ergo legittimato a distruggere, se vuole, o a proteggere, sempre se vuole. Nell’ambito della 力, non c’è posto per due soggettività, come il modello del “duello a mezzoggiorno” dei film western ci insegna.

Altre storie, invece, altri miti vengono narrati e riattualizzati ritualmente a partire dalla forza jìn 勁. Il modello che troviamo nelle storie di duelli tra marzialisti o marzialiste in Asia Orientale presenta sovente due figure che, riconoscendo reciprocamente il livello di raffinazione della forza che l’altro/a ha conseguito, si astengono dal combattere e si inchinano vicendevolmente alla maestria raggiunta.