Conservare la memoria nelle arti marziali giapponesi

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Paolo Bianchi*

La luce della divinità del sole illumina tutte le cose. Quando la gente segue quella luce, il paese è ordinato; quando la gente si allontana da quella luce, il paese muore”.

(Takayama Kentei 1767 – 1764)

 

Questo periodo per me è un momento di riflessione dopo tanti anni di pratica, di studio, di sacrifici e di dedizione, anni di grandissimi piaceri attraverso la pratica stessa, e più che l’insegnamento, direi attraverso la condivisone di tutto ciò che ho imparato e capito. Rimane di tutto questo un’ombra. Non mi capacito, come d’altronde non si capacitava il mio Maestro di un fatto certo. È inevitabile che durante anni di pratica si crei un legame con gli allievi che vengono da te per imparare. L’Aikido è micidiale in quanto attraverso, ore e ore di spiegazioni, di dimostrazioni e fatiche per fare o farti capire dagli allievi, si crea un legame spesso anche forte. Legame a volte fraterno o anche paterno. Intanto vedi l’allievo crescere, capire attraverso le reciproche fatiche darti la sensazione che questo tempo passato insieme rafforzi il legame umano, l’interesse di un’amicizia nata condividendo un piacere comune, insomma pensi di avere trovato un amico a tutto tondo. Dopo un certo tempo, che può variare da qualche mese a diversi anni, questo tuo allievo smette improvvisamente la pratica. Ci rimani male perché sfuma uno dei motivi per il quale ti stai impegnando così tanto nell’insegnare, ossia vedi allontanarsi quello che potrebbe essere il tuo successore nel comunicare la gioia della pratica quando tu ti dovrai fermare; ma questo non è la parte più triste, ciò che mi rattrista di più è che questo tuo praticante, che per motivi suoi si è allontanato, da questo momento è completamente uscito dalla tua vita. Non lo senti più se non sei tu a cercarlo. Questo succede nel 100% dei casi……… devo dire che non capisco e che questo fatto mi amareggia un po’…….. Probabilmente finora ho sbagliato dando troppo importanza a qualcosa che non ne deve avere… Chissà??? Spero non avervi annoiato troppo con i miei stati d’animo, ma dire quello che si sente, è anche questo pratica di Aikido …..”

 

La citazione è di Roland Hideki Guyonnet, noto maestro di arti marziali della Sardegna sulla sua social network dedicata alle arti marziali, mette in discussione il suo operato e esprime la sua preoccupazione per il futuro.

 

Per un maestro di arti marziali giapponesi la questione di come trasmettere gli insegnamenti ricevuti è sicuramente vitale soprattutto perché non parliamo di una “attività sportiva”, ma di veri e propri “stili di vita” che entrano a fare parte dell’esistenza del praticante fin dai primi giorni.

 

Il termine giapponese con il quale l’allievo designa il maestro durante le lezioni è “Sensei” (先生) che potrebbe essere tradotto come “persona nata prima di un’altra”. Naturalmente l’intento non è quello di squalificare tutti i maestri giovani, e sono molti, ma si intende legata all’esperienza di pratica presso un a scuola (dojo) con sue modalità, ritualità e tradizioni.

 

Sono proprio queste tradizioni che si tramandano da maestro ad allievo a fare la grande  Conviene approfondire analizzando i vari elementi in gioco

 

 

Il dojo: il luogo della memoria

Le arti marziali si distinguono dalle normali attività sportive per la loro finalità: nei luoghi di allenamento anticamente non si forgiavano atleti, ma guerrieri. Per questa ragione ancora oggi chi frequenta una scuola di arti marziali parla di “addestramento” o, ancor più spesso, di “pratica”. Nello stesso modo l’addestramento alle arti marziali è infinito: si sa quando si comincia, ma il buon praticante sa che praticherà per tutta la vita, a volte cambiando scuole, stili, tradizioni, ma lo spirito della conoscenza lo guiderà fino alla morte, proprio come gli antichi samurai; oppure abbandonerà il campo.

 

L’ambiente destinato a imparare le tradizioni è il dojo (道場 ). Letteralmente potrebbe essere tradotto dal giapponese come “luogo dove si percorre la via”.  Già l’etimologia ci presenta come chi incomincia a imparare un’arte marziale venga introdotto in un cammino di crescita sia tecnica, che personale che spirituale. Questa crescita è spesso paragonata a una via da seguire. Perché? Perché come tutte le strade deve condurre da qualche parte e come tutti i percorsi non è scevro da difficoltà.

All’interno del dojo vi è sempre uno spazio dedicato allo spirito degli antenati, il Kamiza (上座). Questo è un piccolo altare dove si depone un fiore in cui è presente l’immagine (o in tempi più moderni una foto) di un maestro che si è distinto in quella scuola. È buona abitudine per gli allievi del dojo inchinarsi al Kamiza in segno di rispetto, così come fare il saluto rituale d’inizio e fine lezione sotto le direttive dell’attuale maestro, di uno degli insegnanti da lui designati o di un senpai (先輩), un allievo anziano degno di fiducia del maestro stesso che abbia una buona padronanza delle tecniche e degli insegnamenti. In alcuni dojo soprattutto dove si pratica il Kendo (剣道 trad. “Via della Spada”) solitamente il maestro, o chi per esso, invita e guida i praticanti in un momento di meditazione e concentrazione che ha proprio lo scopo di dare sacralità a ogni aspetto della pratica .

La presenza del Kamiza trasforma chiaramente il dojo in un luogo sacro. Il tatami, la pavimentazione tradizionale in bambù (sostituita con altri materiali in Occidente) delimita lo spazio di azione e il posizionamento degli allievi avviene in modo prederminato, ogni esercizio viene generalmente avviato sempre rivolti al Kamiza e sotto lo sguardo attento e autorevole di Maestro e Insegnanti. Nel saluto iniziale e finale gli allievi si dispongono per anzianità e grado di pratica; gli allievi più giovani a sinistra (guardando il Kamiza) e quelli più anziani ed esperti a destra.

Inutile dire che durante la lezione e soprattutto quando il maestro parla, agli allievi è proibito lasciarsi andare a commenti e distrazioni: l’atmosfera deve rimanere, concentrata, attenta e soprattutto orientata all’imparare e al condividere gli insegnamenti con i compagni di corso sempre con spirito di apertura e umiltà.

Sempre in relazione al Kamiza oserei direi che parte proprio da qui il senso della trasmissione della tradizione perché la logica è quella di rivivere quanto già vissuto da chi è precedentemente passato per il dojo. Ogni atto, formale o informale, è lo stesso da secoli, da quando il primo maestro, che spesso si staccava da un’altra scuola per mandato specifico di un’autorità o del suo stesso maestro, ha cominciato a impartire quanto da lui appreso negli anni di pratica.

 

L’inchinarsi all’effige del maestro è il  primo passo proprio che riconosce l’importanza di tradizioni antiche che, spesso, a noi occidentali possono sembrare fuori tempo e luogo. Una di queste, diversamente dall’immaginario collettivo che dipinge i samurai come spietati e violenti, è il senso della “calma”.

 

È sempre bene avvicinarsi al dojo con calma, lasciando fuori i pensieri, soprattutto negativi, e facendo mushin  (無心 trad: no mente – non usare la mente). Questa modalità non allontana i pensieri, ma li lascia scorrere liberi come le nubi in modo da non focalizzare l’attenzione su nessuno di essi permettendo agli insegnamenti teorici e pratici del maestro di “entrare” e “dimorare”.

Già dallo spogliatoio dove si indossano keikogi, hakama o altri abiti legati alle singole pratiche si deve mantenere un atteggiamento concentrato. Gli abiti vanno indossati con decoro e cura, le armi impugnate con sicurezza, determinazione e serietà, mai abbandonate a se stesse, ma sempre portate con sé.

Il clima, anche se si tratta di una lezione, è simile all’addestramento che i samurai ricevevano per prepararsi alla battaglia. Anche gli scherzi tra compagni di corso non devono mai scadere nel volgare o peggio nello schiamazzo: hanno lo scopo di allentare la tensione soprattutto tra i più giovani che incominciano a comprendere la serietà di ciò che vanno a imparare e per il quale molti sono morti sui campi di battaglia. Per alcuni questo potrà sembrare anacronistico; per chi pratica è il rispetto per gli antenati.

 

Adachi Masahiro (1780 – 1800) scienziato militare e praticante di arti marziali insegnava ai suoi allievi:

L’addestramento militare è yang, molto attivo. Il momento che precede la battaglia è l’apice dello yin, calmo e tranquillo. Se sei veramente calmo alla vigilia della battaglia, anche l’espressione del tuo viso non cambia. Non fissare l’avversario, non guardare negli occhi il nemico. Non avanzare come se attraversassi un ponte stretto, ma come se camminassi in una strada ampia. Chi mantiene uno stato mentale normale è un avversario yin. Questa è una tecnica superiore alla quale è difficile opporsi”.

 

Il maestro: essere la memoria

I cuori delle persone non sono tutti uguali, come del resto i loro volti. Così come sono diversi i pensieri, lo sono anche le inclinazioni”. (Takayama Kentei 1761 – 1764: consigliere di un signore feudale).

L’approccio del maestro agli allievi è particolare. inclinazioni, le capacità, la voglia di imparare, la sopportazione fisica e mentale. Spesso all’uscita di un film di successo sui samurai corrisponde un aumento degli allievi, ma la via è lunga, il maestro lo sa bene e deve fin dall’inizio riuscire a dare a tutti i giusti insegnamenti per poter progredire. La prima lezione che il maestro impartisce è una lezione di umiltà.

Tutti nel dojo sono uguali partendo dal semplice principio che tutti devono continuare a imparare.

Anche a una persona intelligente può capitare un pensiero errato su mille, all’ignorante invece capita di averne spontaneamente uno giusto su mille (…) per conquistare le persone bisogna conoscere i loro punti di forza. Per conoscere i loro punti di forza bisogna essere umili con gli altri”. (Takayama Kentei). Così il maestro parla e si pone con autorità e saggezza dispensando gli insegnamenti ricevuti come qualcosa di prezioso, ma soprattutto agendo con l’esempio e con uno stile di vita che sia consono agli insegnamenti. Per ottenere questo è indispensabile che il maestro sappia temprare il cuore di ogni suo allievo, tracciando la sua personale via all’interno dello spirito della scuola.

Naganuma Muneyoshi (1635 – 1690) era uno studioso di guerra e, nonostante le perentorie e continue richieste era restio ad insegnare. Spesso, nelle sue rare lezioni, anticipava la pratica con degli insegnamenti confuciani ammettendo la necessità delle armi, ma ripudiando l’aggressione senza senso. Muneyoshi diceva: “Il compito del samurai è quello di onorare le virtù civiche e adempiere ai doveri militari, consacrando se stesso con piena lealtà a difesa della nazione. Questo perché le questioni civiche e militari sono come l’esterno e l’interno: se uno dei due aspetti viene trascurato non puoi seguire la vera via. Un uccello può volare perché batte entrambe le ali, un cocchio può avanzare perché entrambe le ruote girano (…) per questo si dice che le armi sono i germogli del guerriero, la cultura è il seme. Se non hai il seme, come puoi coltivare i germogli?”.

Il metodo di insegnamento a cui molti maestri fanno fede deriva dalla filosofia Zen. Questo è basato sul senso dell’intuizione. Il maestro ha insomma il compito di creare nell’allievo una sorta di percezione intuitiva che, in molti testi di arti marziali viene definita la “palestra dell’anima”. Non si tratta di “copiare” le singole azioni, ma attraverso un lungo processo mentale “renderle proprie”. Nelle scuole samurai vigeva la ferma convinzione che la spada fosse “l’anima” stessa del samurai. Per questa ragione non poteva essere utilizzata casualmente, ma diveniva oltre che simbolo esteriore del potere del samurai, un vero e proprio “prolungamento” di quest’ultimo. Per ottenere questo serviva intuito. Il maestro Daisetz Teitaro Suzuki (1870 – 1966) descriveva ai suoi allievi il concetto dell’intuito in questo modo:

Per esprimere se stesso, l’intuizionismo richiede indicazioni più che idee, e tali indicazioni sono enigmatiche e non-razionali. Esse sono timorose delle interpretazioni intellettuali. Esse hanno un’avversione risoluta nei confronti delle perifrasi. Sono come lampi di luce. In un batter d’occhio sono già svanite”.

Ma tutti gli sforzi del maestro sono vani se non riesce ad avviare un processo educativo di seinshin tanren (精神 鍛錬) ovvero di “formazione spirituale”. Il vero nemico del maestro che parla e insegna è l’io dell’allievo e spetta a lui spezzarlo sul nascere creando in lui una mente attiva e proattiva e una reale sincerità di cuore. Ogni desiderio egoistico che nasce nell’allievo va allontanato con la pratica divenendo una vera e propria “autoattività continua” che cioè non termina nello spazio del dojo, ma prosegue nella vita di tutti i giorni.

Quando il maestro parla questo concetto di “autoattività” è quello che crea la base per la quale l’allievo debba trovare la personale motivazione ad essere addestrato. Cosa significa? Significa che il maestro deve saper indurre nell’allievo lo stato di addestramento non come una pratica sportiva, ma qualcosa di essenziale per la propria vita.

La comunicazione silenziosa in questo caso vale più di milioni di esempi o meglio, l’esempio entra nell’allievo senza parlare: è il momento dell’allenamento diretto con lui perché l’allievo è cresciuto e si accorge che il vero combattimento è stato con se stesso.

 

L’allievo: imparare la memoria

Chi si propone di praticare un’arte marziale deve subito fare i conti con la fatica: e nel dojo tutto è faticoso. Stare seduti in seiza (tipica posizione inginocchiata che ha lo scopo di creare nell’allievo il senso della sicurezza ottimale con se stesso e con gli altri, insegnare il senso dell’economia degli spazi, e favorire il rafforzamento fisico) è faticoso, come stare ritti in piedi e respirare in modo coordinato, lo sforzo fisico è proporzionale all’esercizio, ma comunque sempre fatto per irrobustire il corpo e prima di esso la mente e lo spirito. In molti dojo, soprattutto anticamente, l’allievo doveva prima di tutto essere accettato e questo richiedeva prove che al giorno d’oggi riterremmo disumane. Qui l’aspirante allievo doveva essere in grado di convincere il maestro di saper possedere forza e carattere.

Nel dojo, ora come allora, il primo livello di apprendimento e addestramento era il tirocinio tecnicamente definito gyo ovvero “luogo per lo studio della via”. In questa fase l’allievo si predispone a imparare ad appropriarsi di un giusto stato d’animo. Molti maestri sono convinti che questo avvenga sottomettendosi al Kamiza. Il primo scoglio è la formalità del maestro che non deve essere visto come un amico o un semplice insegnante: il maestro incarna in tutto e per tutto gli insegnamenti e l’arte marziale della scuola. Secondo scoglio è l’etichetta della scuola: convenzioni, regole, atteggiamenti. Spesso l’allievo impara questo più che dal maestro dagli allievi più anziani e nella maggioranza dei casi questo processo avviene per imitazione. Soprattutto per i più inesperti il dojo durante il tirocinio non è altro che un luogo di esercizio fisico. Le tecniche da imparare per muoversi secondo i vari kata (型: trad. “forme”. Sono movimenti codificati che rappresentano il combattimento nelle varie fasi) sono molte, diversificate, a volte non hanno una difficoltà progressiva e impegnano soprattutto la memoria rivelandosi a volte noiose per la ripetitività necessaria per acquisire scioltezza nell’eseguirli.

La dose di umiltà e di resistenza richiesta all’allievo è immensa perché subito ci si sente goffi, impacciati, poco coordinati nei movimenti e nella respirazione e, se non fosse per l’ambiente marziale, si verrebbe facilmente derisi. L’allievo deve essere umile, accettare le critiche “Il legno viene squadrato con la riga e il compasso; le persone conservano il loro posto accettando le critiche. Se si ascoltano le questioni del mondo attraverso le orecchie di un solo individuo, non c’è niente di meglio delle critiche. (…) se vuoi aprirti alle critiche, è sufficiente accogliere un’ampia gamma di opinioni, svuotando te stesso per ascoltarle”. (Takayama Kentei).

Solo in una fase avanzata l’allievo passa di livello. Come sempre è il maestro a capire quando l’allievo è pronto a cominciare l’addestramento vero e proprio: il tema principale da affrontare è la capacità di misurarsi con la prontezza. Maestro e allievo non si risparmiano dando e ricevendo, alternando le fasi tecniche a quelle teoriche e spirituali. Solo la serenità e lo spirito di perseveranza dell’allievo possono evitare l’abbandono della scuola. È il momento del “fare”, della ripetitività continua ed esasperante, del misurarsi in rapidità, destrezza, e sicurezza coi compagni più avanzati. Non c’è tempo né per domande né per capire: il corpo deve reagire alle stoccate in modo automatico, meccanico e la mente non deve pensare, ma essere presente nel momento con parate e colpi. Nel kenjutsu (trad. “arte della spada” inteso come arte nell’utilizzo della katana, la spada samurai) ogni volta che l’avversario colpisce fa male, ma non è dolore fisico, è un dolore profondo che colpisce il cuore portando dentro l’anima una ferita che può essere sanata solo con l’imparare. È la “pratica per la pratica” in cui l’umiltà dell’allievo sta nello sfidarsi a migliorare senza chiedere troppo a se stesso. In questa fase la fretta demolisce: l’insegnamento è che se vuoi combattere devi prima imparare a vivere. La grande differenza è come lo spirito sa reagire, sul tatami del dojo così come nella vita. L’allievo impara in fretta che dentro o fuori le mura della sua scuola non esiste più differenza e che lui stesso sta diventando la spada che brandisce o le mani che utilizza nelle leve.

Ogni singolo kata è un mare infinito di elementi tecnici e l’allievo impara il senso della scelta: velocità o eleganza, continuità o precisione tecnica, calma e controllo o scatto fulmineo? Il kata diventa l’allievo, l’allievo diviene kata in un giorno in cui forma e sostanza non si distinguono più amalgama comune di un’unica necessità: la ricerca della perfezione. Allora l’allievo è pronto all’ultima fase: coltivare lo spirito della via per percorrerla tutta l’esistenza.

 

 

La memoria tra insegnanti e maestri.

Ho parlato di maestri e di allievi, ma spesso confondiamo i maestri con gli insegnanti. Sempre Adachi Masahiro insegnava “Un adepto molto abile è colui che ha raggiunto la calma. Un maestro realizzato è colui che ha raggiunto la maestria. Un tecnico della calma mentale, che padroneggia perfettamente tecniche e principi è chiamato adepto. Ci sono persone anche tra gli aggressivi e gli scaltri, ma a causa della loro ignoranza delle tecniche e dei principi non possono essere chiamati adepti. I tecnici giunti allo stadio in cui la mente è imperturbabile, totalmente istruiti in tecniche e principi, sono chiamati maestri. I cosiddetti esperti sono maestri. La sagacia è una qualità presente nei maestri. Oltrepassando qualsiasi razionalizzazione, non può essere scritta o espressa a parole”.

Lo spirito del dojo quanto è vivo? Quanto dei giovani di oggi sono in grado a prepararsi a ricevere un’eredità così antica e importante? Ce lo chiediamo spesso, magari davanti a una pizza, io ed altri amici impegnati nella diffusione della cultura del budo, la via del guerriero samurai. La conclusione è che i tempi sono cambiati, gli ultimi veri maestri, soprattutto giapponesi, sono ormai morti così come molta parte dello spirito delle arti marziali. Durante un’esibizione pubblica un un gruppo di studenti di una scuola di arti marziali tiene la spada d’allenamento come fosse una mazza da golf. Chiamato in causa faccio presente cosa rappresenta; mi rispondono che anche il loro insegnante glielo rammenta spesso…

Eppure credo che il mondo là fuori dal dojo sia sempre lo stesso: non si lotta per la sopravvivenza fisica, ma per avere un valore nella società, per trovare un lavoro o per difenderlo.

Anche nel Giappone stesso la tradizione in sé del dojo è morta: ricordo, durante uno dei miei corsi Samurai Lab di essere stato preso totalmente d’assalto da uno stuolo di giapponesi ospiti dello stesso albergo dove svolgevo le sessioni. Dopo le foto di rito con me in abito da samurai ho potuto costatare la loro sorpresa nel sapermi praticante. Eppure lo spirito dei samurai è ancora vivo inconsapevolmente in tutta la cultura giapponese, nei loro gesti, nel loro modo di porsi nei confronti del lavoro e dei risultati da perseguire. Ogni giapponese è inconsapevolmente figlio di un samurai che gli impone di onorare la famiglia cui appartiene attraverso ogni suo comportamento.

Del resto la paternità di molte scuole è passata da maestri giapponesi a insegnanti italiani che nell’arco degli anni si sono distinti per abilità soprattutto tecnica e stilistica i quali purtroppo, con tutta la buona volontà possibile non potranno avere tutto quel bagaglio culturale che solo pochi sono riusciti a raggiungere soprattutto vivendo in Giappone per molto tempo.

L’occidentalizzazione delle scuole marziali impone metri di misura differenti dalla tradizione. Agli allievi non basta sentirsi sempre più coinvolti nelle scelte e programmazioni pedagogiche di un maestro. Gli allievi occidentali devono misurarsi con cinture, dan, esami e commissioni che valutino il loro grado di preparazione. Questo fa morire lo spirito della pratica per la pratica imponendo agli allievi rivalità e concorsi come in una qualsiasi scuola e anteponendo le conoscenze e la prestanza tecnica a quella spirituale, spesso accantonata e ridotta alla sola ricerca personale.

La differenza tra maestri e insegnanti è proprio questa: il fermarsi esclusivamente alla tecnica, all’aspetto esteriore di un esercizio o di un kata ben fatto e non di un percorso educativo (nel rispetto della vera e propria etimologia del termine ex-ducere, portare fuori) dove prima è avvenuta una forte maturazione interiore.

Trovare un vero maestro è veramente difficile, raro e soprattutto richiede una ricerca molto profonda, una chiarezza di intenti con il proprio insegnante che deve saper scegliere e aiutare il praticante a farlo nella marea di proposte che ormai ogni città possiede.

La deresponsabilizzazione dei ruoli, tipica del nostro momento storico, colpisce anche questo settore: chi dirige un dojo deve fare i conti con le iscrizioni, con il numero degli allievi e quindi si sofferma più sulla richiesta comune (capacità tecnica ecc.) che a quella storica (aspetti tecnici e aspetti spirituali) demandando questi ultimi ad altri insegnanti di altre discipline spesso lontane da quelle giapponesi.

Molti insegnanti si rendono conto della delicatezza di questo passaggio e quindi, consapevoli del fatto che un’arte marziale è composta da tutti i parametri di cui ho parlato prima, si auto definiscono maestri solo sulla base del proprio percorso tecnico conseguito.

Esiste poi un’altra categoria pericolosissima: quella dei “finti maestri” di coloro che anche a fronte di una buona capacità tecnica si inventano maestri di discipline mirabolanti che non hanno nulla a che vedere con lo spirito del dojo.

In questi casi la trasmissione della tradizione viene sviata e travisata spesso a scapito degli allievi che intravedono in questi personaggi eroi mitologici che, alla riprova dei fatti, non sono. Ma questo accade in ogni campo, soprattutto quando si è lontani dal luogo in cui certe tradizioni sono nate e sono state tramandate con cura, dedizione e devozione. Dobbiamo sempre stare attenti a quel fascino dell’esotico attrae molti occidentali: il rispetto della tradizione, soprattutto nelle arti marziali è tutto. Se non altro perché, come mi hanno insegnato i maestri, molti sono morti per farla pervenire fino a noi e non hanno avuto quel grande privilegio che noi oggi possediamo: la libertà di scegliere invece dell’obbligo tacito di obbedire.

 

Concludo con un pensiero del grande maestro Miyamoto Musashi (1584 – 1645) che credo non solo racchiuda lo spirito e la tradizione dei samurai, ma sia l’eredità più bella che ognuno di noi possa avere da questi leggendari guerrieri.

“Non coltivare pensieri cattivi.

Praticare con costanza la via.

Interessarsi a tutte le arti.

Conoscere tutte le professioni.

Saper discernere i vantaggi e gli svantaggi in ogni cosa.

Sviluppare l’intuito e la comprensione.

Intuire quello che non si vede.

Essere attento anche alle inezie.

Non compiere azioni inutili”.

 

Paolo G. Bianchi, counselor, esperto in processi formativi esperienziali, e discipline bionaturali (praticante di kenjutsu – katori shinto ryu e iaido – hoki ryu presso lo Zanshin Dojo di Milano).

www.formazionezero.blogspot.com

 

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