Psiconeuroendocrinologia dell’invecchiamento: un modello scientifico-filosofico dell’anti-aging

Francesco Bottaccioli*

 *Presidente on. Società Italiana di Psico-neuro-endocrino-immunologia, Docente di Psiconeuroendocrino-immunologia nella Formazione post-laurea delle Facoltà di Medicina di Siena e di Perugia, della Facoltà di Scienza della formazione dell’Università del Salento e nelle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia, Roma e Napoli.

bottac@iol.it ; www.simaiss.it ; www.sipnei.it

Per capire le fasi finali della vita, mi pare opportuno procedere dall’inizio e dagli aspetti di fondo. Inizierò quindi parlando dell’evoluzione del sistema nervoso.

Evoluzione, cervello e invecchiamento

Gli animali più semplici dotati di sistema nervoso sono i Coralli, gli Anemoni di mare, le Idre.

Con questi animaletti, circa 500 milioni di anni fa, si realizza una svolta evolutiva di grandi proporzioni. Compaiono gli elementi di base per i successivi, imponenti, sviluppi del sistema nervoso e del corpo degli organismi.

Il piano di base della cellula nervosa, il suo funzionamento di fondo, le caratteristiche della comunicazione tra neuroni, infatti, sono identici dall’Idra all’Uomo. Corpo cellulare, dendriti, assoni, ma anche neurotrasmettitori, neuropeptidi e recettori, sono tutti presenti nei Coralli e nelle Idre.

L’Idra possiede tre tipi di neuroni: neuroni bipolari (motosensoriali), motoneuroni e interneuroni.

I motosensoriali sono capaci di registrare input sensoriali ambientali e inviare messaggi (output) alle cellule muscolari (miociti). I motoneuroni, specializzati nel comando del movimento, presentano degli assoni che funzionano sia come assoni sia come dendriti, nel senso che la stessa struttura consente di far viaggiare l’informazione sia in entrata sia in uscita. Questi assoni si sono conservati fino a noi: sono presenti nella retina, nel bulbo olfattivo e nel sistema nervoso enterico.

Gli interneuroni, sono un gruppo di cellule che collegano i neuroni sensoriali ai motoneuroni.

Con gli interneuroni, accanto alla registrazione delle sensazioni e al comando del movimento, si aggiunge un terzo livello, fondamentale, che verrà poi enormemente sviluppato negli animali con grandi cervelli: il livello del controllo dell’attività nervosa.

Che cosa distingue il nostro cervello da quello di una scimmia? Dopo aver visto un telegiornale, verrebbe da dire: niente, non c’è alcuna differenza, pensando così di sfogare l’amarezza per lo spettacolo che la nostra specie sta dando con guerre, massacri, egoismi e ottusità paurose.

Eppure, effettivamente, gli antropologi e i neurobiologi evoluzionisti hanno difficoltà a distinguere il cervello di uno scimpanzé da quello di un umano. Non in senso stretto, ovviamente: il nostro cervello è 3-4 volte più grande di quello del nostro fratello peloso. Ma se andiamo a vedere la struttura interna dei due cervelli, effettivamente sono poche le differenze. Tra le poche individuate, ci sono speciali neuroni, detti a fuso, che nel giro anteriore del cingolo, un’area corticale profonda che integra emozioni e coscienza, sono molto più grossi e abbondanti nel nostro cervello. Ma questi neuroni, pur importanti, sono uno dei tanti tipi che popolano il cervello di un primate.

I geni, però, penserà qualcuno, i geni sono certamente diversi: geni umani da una parte e geni di scimmia dall’altra.

Sfortunatamente, neanche i geni aiutano a separarci dalle scimmie a noi vicine. La differenza tra il genoma umano e quello dello scimpanzé riguarda pochi punti in percentuale delle sequenze di nucleotidi, le lettere con cui è composto il DNA. Il che vuol dire che quasi tutti i geni che sono nostri sono anche della scimmia. Eppure siamo effettivamente diversi.

 

Arrivano i nonni: una svolta nell’evoluzione umana

Per risolvere il dilemma, Todd M. Preuss e Mario Cáceres, dell’Università di Atlanta, studiosi dell’evoluzione del cervello umano, dimostrano che la differenza fondamentale tra i due cervelli non sta tanto nei geni, quanto soprattutto nelle dimensioni della loro espressione (2).

E questa iperattività (sopraregolazione, in gergo) sembra specifica del cervello: l’espressione dei geni del fegato o del cuore, infatti, nell’uomo e nello scimpanzé, non presenta differenze sostanziali. I nostri geni cerebrali sono molto più attivi di quelli dello scimpanzé, soprattutto i geni che si riferiscono all’attività dei neuroni e quelli che comandano la produzione e l’utilizzo dell’energia.

Da dove viene questa sopraregolazione genica? Un ultradarwinista direbbe che viene dal caso, dalla selezione casuale di organismi che presentavano queste mutazioni favorevoli che poi, nel corso del tempo, si sono affermati.

Una visione che Darwin non aveva. In tutte le sue opere, il grande scienziato inglese inserisce la selezione naturale in un ambito che potremmo chiamare culturale. La cultura infatti, come afferma il genetista Luigi L. Cavalli Sforza (3) è uno straordinario metodo di adattamento allambiente.

Rachel Caspari, antropologa dell’Università del Michigan, studiando reperti delle ossa del cranio e dei denti, è giunta alla conclusione, pubblicata su Proceedings of National Academy of Sciences, che circa 30.000 anni fa c’è stata una quadruplicazione del numero degli adulti umani abbastanza grandi da diventare nonni.

Questo ha permesso, soprattutto a donne, di occuparsi dei figli dei propri figli. La cura dei piccoli, nella nostra specie, è fondamentale, in quanto il nostro cervello, a differenza di quello dello scimpanzé, prosegue il suo sviluppo strutturale per un altro anno dopo la nascita: è come se la gestazione umana durasse ventuno mesi invece che nove.

Inoltre, c’è da considerare che l’andatura bipede, che nell’uomo è perfetta rispetto allo scimpanzé, ha modificato il bacino e quindi anche il canale del parto, che è diventato meno agevole per il neonato che deve uscire. Il parto umano è diventato quindi più complesso di quello di altri animali, comprese le scimmie antropomorfe.

Con la comparsa delle nonne e dei nonni, il parto diventa un evento sociale e cooperativo, che ne migliora l’esito. Questo ha favorito un’esplosione demografica che consentì ai nostri progenitori di diffondersi in tutto il pianeta, fino alla Patagonia, estremo lembo dell’America del sud, raggiunto circa ventimila anni dopo la comparsa dei nonni.

Quindi possiamo concludere che diventare vecchi è stato fondamentale non solo per i singoli che hanno goduto di una vita più lunga ma anche e soprattutto per la specie umana che ha potuto crescere e moltiplicarsi.

L’invecchiamento è quindi una grande conquista individuale e di specie, ciò non toglie che è intrigante capire perché un organismo invecchia.

 

Spiegare l’invecchiamento: il fallimento delle ipotesi riduzionistiche

Tradizionalmente la scienza ha guardato all’invecchiamento adottando due diversi punti di vista: da un lato chi vedeva l’invecchiameno come un processo continuo che inizia virtualmente con la nascita e chi invece lo datava da un certo momento in avanti. Il terzo punto di vista, che è emerso negli anni ’90 del secolo scorso, invece ha messo l’accento sulla eterogeneicità e sulla progressività del fenomeno. Il corpo che invecchia, secondo questa prospettiva, è un mosaico, con organi e tessuti e perfino organelli cellulari dello stesso organismo che hanno ritmi diversi di invecchiamento. Ma da dove viene questa eterogenità? I responsabili individuati sono stati, volta a volta, i geni, lo stress ossidativo cellulare, alterazioni endocrine. In tempi più recenti, il gruppo di Claudio Franceschi dell’Università di Bologna ha focalizzato l’indagine sul controllo dell’infiammazione, coniando anche un nuovo termine che è diventato corrente nella letteratura internazionale, inflamm-aging, per dire infiammazione legata all’invecchiamento. Da questi studi, tutt’ora in pieno svolgimento mentre scrivo, emerge che le persone che raggiungono una maggiore longevità, non gravata da patologie croniche invalidanti, sono quelle che hanno un maggior equilibrio del sistema immunitario (4).

La parola chiave sembre proprio equilibrio, ma non semplicemete legato al sistema immunitario, bensì alla grande connessione, al network che lega i grandi sistemi di regolazione fisiologica, il nervoso, l’endocrino e l’immunitario, alla dimensione psichica individuale.

 

L’approccio sistemico della Psiconeuroendocrinoimmunologia

Come è noto la PNEI è la disciplina che studia le relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici (5).

Applicando all’invecchiamento il modello PNEI, per spiegarlo occorre mettere in campo sia la dimensione biologica che quella psichica e vederne le relazioni reciproche. Occorre cioè, per fare solo un esempio, correlare i danni cellulari da stress ossidativo prodotti da un certo tipo di alimentazione con quelli prodotti dall’inquinamento ambientale, da un certo tipo di terapie farmacologiche e, non da ultimo, dallo stress psichico. Con la PNEI viene a profilarsi un modello di ricerca e di interpretazione della salute e della malattia che vede l’organismo umano come una unità strutturata e interconnessa, dove i sistemi psichici e biologici si condizionano reciprocamente. Ciò fornisce la base per prospettare nuovi approcci integrati alla prevenzione e alla terapia delle più comuni malattie, soprattutto di tipo cronico e, al tempo stesso, configura la possibilità di andare oltre la storica contrapposizione filosofica tra mente e corpo nonché quella scientifica, novecentesca, tra medicina e psicologia, superandone i rispettivi riduzionismi, che assegnano il corpo alla prima e la psiche alla seconda.

Lo stress emozionale infatti causa infiammazione e ossidazione al pari di un patogeno, di una tossina o di molecole di colesterolo ossidato (6). E uno dei bersagli privilegiati è proprio il regolatore centrale, il cervello.

 

Invecchiamento cerebrale da stress

Per un paio di decenni, Bruce McEwen e Robert Sapolsky, due leader mondiali della ricerca sugli effetti dello stress nel cervello, hanno dimostrato nei topi la manomissione dell’ippocampo – area cerebrale che governa i processi di memorizzazione e che partceipa alla regolazione dell’asse dello stress – causata dal cortisolo prodotto in eccesso in corso di stress cronico. Verso la fine degli anni ’90, abbiamo avuto prove che questo meccanismo è identico anche nel cervello dei primati, scimmie e umani.

Elisabeth Gould, del dipartimento di psicologia dell’Università di Princeton, nel 1998 con un lavoro pubblicato su Proceedings National Academy of Sciences, dimostra due cose insieme: che l’ippocampo delle scimmie (esattamente il giro dentato) è capace di produrre nuovi neuroni e che lo stress rallenta questo processo essenziale alla normale attività dell’ippocampo (7).

Poco più di un mese dopo la pubblicazione di questo articolo, sul primo numero di Nature Neuroscience, una nuova rivista del gruppo Nature, che in pochi anni è diventata leader del settore, un gruppo di ricercatori della canadese McGill University (primo firmatario Sonia Lupien) diretto da Michael Meaney, in collaborazione con Bruce McEwen, pubblica la prima dimostrazione degli effetti della cortisolemia elevata nel cervello umano (8).

È stato studiato un gruppo di maschi cinquantenni in buona salute, che sono stati sottoposti ad analisi del sangue, a una batteria di test psicologici per la valutazione della performance cognitiva e ad immagini cerebrali di misurazione dell’area ippocampale. Un controllo dopo cinque anni ha dimostrato che le persone con cortisolo più elevato erano anche quelle che rispondevano peggio ai test di memoria. Ma il dato più inquietante è che le persone con cortisolemia più elevata e quindi più stressate avevano anche una riduzione, modesta ma significativa, dell’area ippocampale. Insomma, l’ippocampo stressato cominciava a perdere neuroni!

Perde neuroni sia perché i neuroni presenti muoiono sia perché non se ne formano di nuovi. E questa è la più significativa scoperta degli ultimi anni. Anzi direi che è una scoperta secolare, tanto vecchio è il dogma che non sia possibile la formazione di nuove cellule nervose nel cervello adulto.

 

Nuove cellule nel cervello adulto. Il crollo di un dogma centenario

Poco più di cento anni fa, nel 1906, uno spagnolo e un italiano ricevettero il premio Nobel per la medicina a causa delle loro ricerche innovative sul tessuto nervoso. Santiago Ramón y Cajal e Camillo Golgi però non lavoravano insieme, anzi erano in aperta polemica tra loro. Lo spagnolo sosteneva che il tessuto nervoso era composto da singole unità, i neuroni, mentre l’italiano, pur non contestando che i neuroni fossero unità cellulari, negava che si potesse parlare di identità del singolo neurone e quindi di autonomia funzionale. “I neuroni svolgono un’azione d’insieme, a gruppi più o meno estesi”, scriveva ancora una decina d’anni dopo il ritiro del Nobel, quando ormai la tesi avversaria, che passerà alla storia come la “dottrina del neurone”, aveva stravinto nel mondo scientifico.

L’altro pilastro della dottrina del neurone, eretto in quegli anni, fu “nessun nuovo neurone” e cioè il tessuto nervoso non si rinnova. Dogma coriaceo se, ancor oggi, è possibile leggere, in Manuali di Istologia in uso nelle nostre facoltà mediche, che “i neuroni sono cellule perenni, che, esaurita la fase di sviluppo embrionale, non si rinnovano e durano tutta la vita dell’organismo”.

Eppure le prime segnalazioni scientifiche sull’esistenza di cellule indifferenziate nel cervello del mammifero adulto risalgono ai primi anni ’60; poi però negli anni ’80 alcune prese di posizione molto autorevoli ribadirono il dogma. La questione sembrò definitivamente chiusa con uno storico articolo su Science del 1985. Finché sul finire del secolo scorso, anche a causa del miglioramento delle tecniche di marcatura delle cellule neoformate, si infittirono le prove dell’esistenza di cellule neoformate nel cervello adulto del topo, della scimmia e poi dell’uomo. Il passaggio successivo fu quello di stabilire l’entità del fenomeno e se si trattasse proprio di staminali e cioè di cellule che vengono continuamente prodotte e da cui emergono cellule mature come i neuroni e le cellule gliali. È stato accertato che le dimensioni sono rilevanti (alcune decine di migliaia di nuove cellule prodotte ogni giorno) e che dei quattri tipi di cellule proliferanti individuate solo un tipo avrebbe le caratteristiche delle staminali. Infine, oggi la ricerca è concentrata sul destino di queste cellule. A che servono e dove vanno a finire? Servono proprio a rinnovare i circuiti della memoria e dell’attenzione. Insomma sono la fonte della giovinezza del cervello, da trattare con cura.

 

Bibliografia

1 Questo testo si basa sul capitolo 4 che l’Autore ha scritto per il volume Anti-aging a cura di Sponzilli, Fratto e Polimeni, Mediterranee, Roma 2012

2 Preuss TM, Cáceres M, Oldham MC, Geschwind DH  Human brain evolution: insights from microarrays, Nat Rev Genet. 2004 Nov;5(11):850-60

3 Cavalli Sforza L., Geni e cultura in F. Bottaccioli (a cura di) Geni e comportamenti. Scienza e arte della vita, RED, Milano 2009

4 Cevenini E., Ostan R, Bucci L, Monti D. e Franceschi C., Stress, invecchiamento immunitario e infiammazione, in F. Bottaccioli ( a cura di) Stress e Vita, Tecniche Nuove, Milano, in stampa

5 Bottaccioli F., Psico-neuro-endocrino-immunologia2, RED, Milano 2005. Ai fini del discorso che sviluppo qui, si veda in particolare il capitolo sull’invecchiamento.

6 Schmidt D. et al., Chronic psychosocial stress promotes systemic immune activation and the development of inflammatory Th cell responses, Brain, Behavior, and Immunity 2010; 24: 1097–1104 .

7 Gould, E., e al., Proliferation of granule cell precursors in the dentate gyrus of adult monkeys is diminished by stress, Proceedings National Academy of Sciences 1998; 95: 3168-3171

8 Lupien, S.J, e al., Cortisol levels during human aging predict hippocampal atrophy and memory deficits, Nature Neuroscience 1998; 1: 69 – 73

Il testo completo dell’articolo è inserito nella rubrica P.N.E.I. del sito di Olos e Logos

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