Il “qi” nella cultura e nella filosofia dell’Occidente – terza parte

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Aldo Stella*

8. Il passaggio dal livello sensibile a quello concettuale: l’oggetto nel realismo critico e sofisticato

Il discorso che abbiamo introdotto sul concetto di realtà funge da retroterra speculativo di quanto viene oggi affermato da chi si occupa del valore e del significato delle conoscenze scientifiche.

Non si può non riconoscere, infatti, che i con­vincimenti più recenti espressi dalla filosofia della scienza nonché dalla ricerca epistemologica indicano tutti la consapevolezza dell’im­possibilità di una effettiva verificazione della teoria, per l’impossibilità di attingere l’autentica realtà, cioè per l’irriducibilità del reale all’oggettuale.

Ogni osservazione, dunque, è intrisa di teoria, come ha indicato Bacone, che della scienza empirica, insieme a Galilei, è stato l’autentico inventore. Bacone proponeva una expurgatio intellectus, ossia una liberazione della mente da pregiudizi, che consentisse una conoscenza autentica delle cose. Se non che, questa catarsi è un ideale che non può mai venire pienamente realizzato, perché il soggetto non può liberarsi da se stesso e quindi dal sistema di riferimento che condiziona, di volta in volta, il conoscere.

Il “paradosso della categorizzazione”, come oggi viene definito, esprime proprio l’impossibilità, per il soggetto, di cogliere l’oggetto nella sua oggettività richiesta, così che il “problema di Bacone”, come lo chiama Popper, si traduce nella consapevolezza che il ricorso all’esperienza, come banco di prova per verificare una teoria, è improponibile in forma ingenua. Esso si converte sempre in un confronto inter-teorico: due teorie che si contendono il campo.

Il più autorevole critico del giustificazionismo e dell’induttivismo è stato proprio Popper, il quale abbandona ogni pretesa verificazionista, riconoscendo che, per quanti casi si osservino che confermano una teoria, la teoria non può mai venire considerata vera (veramente verificata). Il progetto non è più quello di verificare una teoria, ma di distinguere una teoria scientifica da una teoria pseudoscientifica. Il discrimen è la fallibilità: teoria scientifica è solo quella che può venire falsificata o, come dice Popper in forma più elegante, quella che prevede una classe di falsificatori potenziali non vuota.

Tuttavia, anche nel caso del falsificazionismo, si ripropone il problema del rapporto con la cosiddetta base empirica, rapporto problematico proprio per l’impossibilità di cogliere la realtà nel suo essere in sé, ossia di coglierla senza filtrarla attraverso il sistema di riferimento di chi la coglie. Questa difficoltà ha indotto Kuhn e Lakatos a discutere il progetto popperiano, così che Lakatos non ha potuto non accogliere il suggerimento convenzionalista di Poincaré (e la tesi olistica di Duhem), riconoscendo che il cuore di un programma di ricerca scientifico viene considerato non falsificabile, ma solo “per definizione”, cioè per decisione soggettiva, non già per la sua intrinseca verità.

Lakatos, inoltre, accusa il falsificazionismo ingenuo di non avvedersi che, se una teoria non può venire verificata da fatti, altrettanto non può venire falsificata da essi in senso dogmati­co, giacché il fatto non è mai neutro, ma – si potrebbe dire, per usare una espressione teoretica – è “fatto essere” in una qualche misura da quel siste­ma teorico che lo rileva.

Chi porta alle estreme conseguenze questa consapevolezza è Feyerabend, il quale dichiara che il confronto non è mai tra una teoria e l’esperienza, ma sempre tra teorie rivali e il prevalere dell’una sull’altra è legato soprattutto al caso, cosicché lo sviluppo della scienza risulta “anarchico”. Una teoria prevale sull’altra non perché sia più vera, ma, al contrario, poiché prevale – e prevale per motivi contingenti – viene assunta come se fosse più vera.

Ciò che risulta acclarato, dunque, è quanto segue: i fatti sono intrinsecamente vincolati alle teorie, cosicché usare fatti per smentire teorie equivale, in un certo senso, a porre alcune teorie contro altre teorie. Basare la legittimazione di una teoria sull’osservazione fattuale è fare uso di un concetto debole di legittimazione o, detto altrimenti, è assumere il fatto come realtà oggettiva, ignorando la differenza – essenziale dal punto di vista logico-speculativo – che sussiste tra di essi.

Ciò che siamo in grado di cogliere della realtà oggettiva, va ribadito, è legato al nostro sistema di riferimento (dirilevamento), il quale assume così il significato di un filtro, di un paio di lenti che consentono di vedere solo ciò che, tautologicamente, consentono di vedere. Più teoreticamente, si potrebbe affermare che riferirsi all’esperienza significa riferire l’esperienza al proprio sistema di riferimento, così che modi e forme del riferimento strutturano l’esperienza stessa e dunque l’oggetto percepito.

Ovviamente, non va mai dimenticato che questo non significa ricadere in un idealismo assoluto, che ritiene il fatto creato dal soggetto. Abbiamo affermato che un fattore oggettivo non può non venire postulato, giacché il fatto viene modellato dal soggetto, non creato da esso.

Precisamente a questo punto si impone una rilevante considerazione: l’intenzione di chi si volge alla realtà (l’intenzione, quindi, che presiede al progetto conoscitivo) è quella di cogliere la realtà così come essa è, senza nulla aggiungere e nulla togliere: senza alterarla. L’intenzione è di vedere, giacché la visione rappresenta l’immagine più pura del coglimento della realtà nel suo autentico essere. Un vedere, dunque, che appartiene all’occhio dello spirito, non all’occhio del corpo; tant’è vero che la parola “idea” trae il suo etimo dal verbo greco orao (infinito aoristo: idein), che significa appunto “vedo”.

Se non che, se questa è l’intenzione, di fatto ciò che si coglie della realtà non è mai il suo essere in sé (kata physin), ma sempre il suo essere per noi (pros emas). Altrimenti detto: di fatto noi siamo costretti – e questa è una imposizione legata alla prassi, inclusa la pratica teorica – ad assumere come se fosse reale ciò che invece è fatto essere dal nostro punto di vista, cosicché si compie sempre uno scambio surrettizio: ciò che vale come oggettuale – e dunque è vincolato strutturalmente alla soggettività – viene assunto come se fosse oggettivo, dunque come se fosse autonomo e indipendente, cioè assoluto: come se valesse quale autentica realtà.

L’intenzione di pervenire a qualcosa che sia oggettivo, perché trascende l’arbitrio legato al punto di vista, si capovol­ge nella pretesa che sia oggettivo ciò che è solo oggettuale e che coincide con l’oggetto della comune esperienza. Solo la considerazione speculativa, evidenziando l’equivoco che sostanzia il modo ordinario di conoscere, evita che si assolutizzi ciò che è e resta solo relativo: legato cioè al sistema di chi “fa” esperienza, dunque sempre ad esso relativo.

Ebbene, proprio questa intenzione di verità costituisce, vogliamo ribadirlo, quel soffio di verità che è presente anche nella ricerca scientifica occidentale. Quella spinta verso la verità che non si esaurisce proprio perché la verità non è mai definitivamente determinabile.

Del resto, una verità che si sottrae alla determinazione svolge una funzione fondamentale: evita che la ricerca possa venire considerata definitivamente conclusa, così che la tiene sempre viva. E questa perenne vita della ricerca costituisce, a nostro giudizio, la vita stessa dello spirito, quel soffio che non smette mai di spirare e che trasporta verso la verità.

In virtù della considerazione speculativa, la realtà assume il significato di ideale immanente alla ricerca. Reale, insomma, è ciò al quale si tende, non ciò che di volta in volta si trova. Ciò che si trova, pertanto, non esaurisce mai ciò che veramente si cerca e per questa ragione la ricerca permane infinita. Tutte le verità, incluse le verità della scienza, sono relative al sistema che le pone in essere, così che la consapevolezza critica, che evidenzia il loro intrinseco limite, costituisce anche la spinta per l’ulteriore ricerca.

In questo senso è lecito affermare che il fondamento del conoscere è teoretico, laddove i presupposti del suo dispiegarsi costituiscono gli assunti propri del sistema della teoria. Teoresi, quindi, è coscienza critica del procedere teorico, capacità di questionare i suoi assunti, i suoi risultati – legati agli assunti – nonché quella relazione di conseguenza logicache costituisce l’essenzializzazione logica del procedimento.

Ciò nondimeno, è altresì da ribadire con forza – come abbiamo fatto poco sopra, contra l’idealismo assoluto – che l’oggetto dell’ordinario esperire, seppure vincolato al soggetto, mantiene una sua relativa autonomia e una sua relativaindipendenza. Proprio in ragione di ciò, nessuna teoria risulta perfetta, neanche per l’oggetto che essa descrive. E non a caso lo stesso Kuhn, che pure è ben consapevole del valore dei paradigmi teorici in ordine alla costituzione dell’oggetto osservato, tuttavia riconosce l’inevitabile comparsa di anomalie, che mettono in crisi il sistema della teoria e che preparano le future rivoluzioni scientifiche.

Come si può spiegare questo status, nel quale coesistono due momenti tra di loro antitetici, e cioè il momento della dipendenza dell’oggetto dal soggetto e il momento dell’indipendenza da esso? Come si può affermare che il sistema di riferimento si oggettiva nei dati empirici, e poi riconoscere che questi ultimi conservano anche una propria identità, la quale si oppone alla loro riduzione a “prodotti” del soggetto? Come evitare, insomma, da un lato l’assolutizzazione dell’oggetto e, dall’altro, l’assolutizzazione del soggetto?

Cercare di rispondere a queste domande impone che  si analizzi proprio il concetto di “relazione”, il quale, assieme al concetto di “realtà”, costituisce il centro speculativo di ogni progetto volto a conoscere, di ogni ricerca, la quale si specifica sempre e comunque come rapporto tra un soggetto conoscente e un oggetto che deve venire conosciuto.

 

9. Il concetto di relazione

Che cosa si intende allorché si usa l’espressione “relazione”? Ordinariamente, si fa riferimento ad un costrutto costituito da due estremi e da un medio. Gli estremi sono i termini relati, il medio è il nesso che li vincola. In tale configurazione, anche il nesso acquista valenza ipostatica, ossia si presenta come un nuovo termine, il termine medio: quid medium.

In questo costrutto i termini estremi si trovano in una situazione particolarissima: essi, per un verso, devono avere una propria identità, perché solo così possono differenziarsi; per altro verso, devono avere un’identità che si apra, per così dire, all’influsso della differenza, poiché altrimenti non si potrebbe parlare di relazione, la quale si dispone necessariamente tra due identità.

Proprio questo status si rivela intrinsecamente problematico. La sua problematicità è stata posta in evidenza già da Platone nel Parmenide[1]  e consiste nel fatto che, se il medio si colloca tra gli estremi, allora esso, per questa sua collocazione,  non può non instaurare  una nuova relazione con ciascuno di essi, riproducendo la nota aporia detta del “terzo uomo all’infinito”. L’aporia, propriamente, consiste in questo: assumere la relazione come un fatto, come un dato – non come il riferirsi in atto di un termine all’altro, ma come il fatto del loro avvenuto riferimento –, moltiplica le relazioni all’infinito.

Il costrutto triadico (mono-diadico) non ha il valore di una tensione, che sia immanente all’identità di ciascun termine e la spinga oltre la sua determinatezza formale, ma riduce la relazione ad un “dato”, che subentra a posteriori e si pone estrinsecamente rispetto all’identità dei termini. Questi ultimi sono descritti dall’ordine formale – ossia dalla forma ordinaria del conoscere – come esistenti a prescindere dalla relazione e come in grado di “entrare” e di “uscire” da essa, proprio in virtù di questa loro “autosufficienza”.

Il discrimen che sussiste tra la concezione speculativa e quella ordinaria si colloca proprio qui: per la concezione ordinaria, la relazione è un modo, una forma di considerare i dati; questi, che pure esistono ciascuno con una propria identità, possono venire anche messi in relazione l’uno con l’altro, e diventano così “termini”. Di contro, la considerazione speculativa riconosce che la relazione costituisce intrinsecamente l’identità, giacché il riferimento alla differenza si impone innegabilmente e non è un semplice modo d’essere del dato, uno dei tanti possibili. I dati, concettualmente, sono dei termini, dunque la loro identità merita di venire attentamente ripensata.

Ciò che ci proponiamo di evidenziare è quanto segue: la considerazione ordinaria – che è formale perché si sforza di mantenere la relazione come “medio” – si trova a negare ciò che essa stessa è costretta, per altro verso, necessariamente a postulare. La considerazione speculativa incalza quella ordinaria proprio su questo punto nodale, e lo fa in virtù della domanda fondamentale, la domanda di verità: la relazione, intesa come costrutto, è effettivamente intelligibile?

La domanda fondamentale si precisa nelle altre: che cosa implica il mantenere una dualità all’interno dell’unità del riferimento? Come si fa a mantenere l’identità dei termini insieme all’essere l’uno il riferimento all’altro? Pervenire alla consapevolezza del limite di intelligibilità della relazione, ridotta a costrutto, significa che di essa ci si può sbarazzare, sostituendola? Oppure il costrutto permane comunque inevitabile, anche se di esso si dimostra la non innegabilità (la non verità), e permane inevitabile per il fatto che solo in forza del costrutto si configura l’architettura dell’esperienza e del conoscere?

Per rispondere a queste domande, riprendiamo l’analisi dal punto in cui l’avevamo interrotta. La determinatezza dei termini – essenziale al configurarsi formale della relazione – dice che ciascuno dei due ha una sua identità e l’identità impone che il primo termine si ponga con una sua consistenza, autonoma e indipendente da quella del secondo (e viceversa). Se non che, se l’autonomia e l’autosufficienza fossero totali (assolute), allora i termini non potrebbero venire considerati in relazione l’uno con l’altro. Se il primo termine, che indichiamo con la lettera “A”, si ponesse a prescindere dal secondo, “B”, allora non si potrebbe affermare che essi sono relati.

La conseguenza è questa: né ad “A” né a “B” possono venire attribuite delle identità che valgano per la loro assoluta indipendenza; piuttosto si deve parlare di indipendenza relativa.

Per converso, allorché si parla di relazione, si intende bensì una dipendenza tra i termini, ma questa stessa dipendenza, che pure non può non sussistere, non può valere come assoluta: se la dipendenza fosse assoluta, allora l’un termine si capovolgerebbe immediatamente nell’altro, si con-fonderebbe con l’altro, così che entrambi verrebbero meno, venendo meno la determinatezza di ognuno (che poggia sulla loro identità e che consente di distinguerli), e verrebbe meno,a fortiori, anche la relazione. Con questa conseguenza: anche la dipendenza va intesa in senso relativo.

Si dovrà pertanto affermare che la relazione si costituisce come tale solo conciliando due momenti, che sono però tra di loro inconciliabili, almeno secondo il principio di non contraddizione: il momento della relativa indipendenza dei termini e il momento della loro relativa dipendenza. Eppure è su tale conciliazione che poggia tutta l’impalcatura della teoria e della prassi, che alla teoria è vincolata e subordinata.

Vogliamo qui ribadire che, poiché ogni identità determinata (ogni “A”)  si pone per il fatto che si riferisce alla differenza (a “non-A”), il discorso che viene fatto ora per la relazione non può non estendersi ad ogni determinazione empirica, ad ogni “fatto”: il dato, ogni dato, viene assunto come una autentica identità, ossia come se si potesse prescindere dal suo rapporto con ogni altro dato – e solo così è possibile assumere –, ma in effetti, dal punto di vista logico-concettuale, è la sua stessa determinatezza che impone la relazione e, dunque, impone di considerare l’identità solo in senso relativo: relativamente ad ogni altra identità, relativamente all’esigenza di assumere, relativamente all’esigenza di procedere, relativamente al punto di vista di chi assume, relativamente al contesto, relativamente alle premesse, ecc.

Per procedere non si può non assumere e per assumere non si può non astrarre. Questo è il limite di intelligibilità dell’ordine formale.

La relazione postula dunque la relativa indipendenza dei termini, ma la postula  conciliabile con la loro relativa dipendenza. L’indipendenza è postulata perché i termini possano permanere due; la dipendenza è richiesta per il fatto che, se l’un termine non “agisce” sull’altro (non lo influenza), allora la relazione non si pone. Che è quanto dire: i termini devono differenziarsi, ma la condizione del loro differenziarsi è precisamente il nesso che li vincola, stante che la differenza è essa stessa una relazione; i termini, inoltre, devono relazionarsi, ma la condizione del loro connettersi è precisamente il loro mantenersi distinti, il loro essere irriducibili l’uno all’altro, stante che, solo se permangono due, la relazione può configurarsi come costrutto.

In sintesi e per quanto possa apparire paradossale: la relazione vincola perché distingue e distingue perché vincola. Questa è la problematicità intrinseca del suo status.

La dialettica di relativa indipendenza e relativa dipendenza dei termini costituisce la dinamicità propria della relazione, quella che le consente di valere come la spinta che genera ogni procedimento, teorico o pratico che sia. Non per niente, tanto l’esperienza quanto il conoscere si costituiscono come relazione di soggetto e oggetto, così che questi, ancorché intrinsecamente vincolati, non possono non mantenere una certa autonomia l’uno dall’altro.

V’è un punto che merita, però, di venire ulteriormente precisato: poiché il soggetto e l’oggetto sono irriducibili, essi devono configurare due forme diverse della medesima struttura. Essi, cioè, strutturalmente sono ciascuno il riferimento all’altro, ma la forma che esprime questo riferimento comune è diversa, e solo questa diversità formale evita che la loro reciprocità strutturale comporti la loro dissoluzione.

In che cosa consiste la differente forma del riferimento? Nel fatto che il soggetto ne costituisce il momento attivo e l’oggetto il momento passivo: il soggetto si riferisce, l’oggetto viene riferito. Quanto detto non può non comportare l’emergenza del soggetto sull’oggetto, per lo meno dal punto di vista del modo del riferimento.

Ebbene, a noi pare che proprio tale emergenza consenta di dire che il soggetto (o il sistema di riferimento che opera in lui) modella l’oggetto (il dato, il fatto), lo plasma, lo configura secondo le forme con cui ad esso si riferisce; fermo restando che non può non permanere un residuo irriducibile a parte obiecti, che impedisca il dissolversi di entrambi e della loro relazione.

L’indipendenza dell’oggetto, insomma, deve mantenersi, ma inscrivendosi nel suo dipendere dal soggetto, laddove la dipendenza del soggetto si configura come il suo scontrarsi con la “resistenza dell’oggetto” ad ogni coglimento esaustivo e conclusivo.

In effetti, non tutti accetterebbero questa formulazione. E tuttavia è innegabile che le principali concezioni filosofiche, che hanno inteso descrivere il processo del conoscere, si sono caratterizzate per avere valorizzato in modi diversificati la dipendenza e l’indipendenza di soggetto e di oggetto.

Il realismo ingenuo valorizza a tal punto l’indipendenza dell’oggetto da considerarla assoluta, così che si caratterizza come il punto di vista che afferma la massima indipendenza dell’oggetto e la massima dipendenza del soggetto. Già la concezione empirista tende a considerare l’importanza della relazione, così che l’indipendenza dell’oggetto risulta sempre più relativa. Ci pare interessante sottolineare ancora come, a muovere dalla considerazione della relazione propria della concezione empirista, si sia pervenuti alla progressiva valorizzazione del soggetto, fino a che, con Berkeley, si sia approdati ad una posizione che non può non venire definita “idealista”.

Se il realismo ingenuo valorizza dunque l’indipendenza dell’oggetto, di contro l’idealismo tende ad evidenziare la dipendenza dell’oggetto e l’indipendenza del soggetto, fino ad un punto di massima dipendenza del primo e massima indipendenza del secondo: l’idealismo assoluto, nelle sue forme meno sofisticate, appare come l’assolutizzazione della soggettività, così che il soggetto sembra avere valore tetico, ponente l’oggetto. Diciamo “sembra” per la ragione che né Fichte né Schelling né Hegel hanno inteso parlare del soggetto empirico, ma questa è questione che ora non può venire approfondita.

Chi ha inteso evidenziare la relativa indipendenza dell’oggetto è stato Kant. Il concetto di noumeno, lo abbiamo già rilevato, non fa che di indicare, da un lato, l’impossibilità di considerare l’oggetto ordinario come in sé; dall’altro, l’impossibilità di dissolvere l’oggetto nel soggetto. Il concetto di noumeno dice che l’esperienza, e dunque la conoscenza – per Kant non a caso le due cose coincidono –, si conserva a condizione che permanga la relazione, dunque l’irriducibilità dei termini.

I termini sono irriducibili, nonostante siano intrinsecamente vincolati: questo è il punto di vista kantiano, che per un verso valorizza il ruolo della soggettività nella costituzione dell’esperienza (conoscenza), per altro verso evidenzia l’impossibilità di risolvere l’oggetto nel soggetto, poiché ciò equivarrebbe a negare proprio quella relazione che consente la posizione di entrambi.

La conoscenza, per Kant, è effettiva perché la realtà che viene conosciuta coincide con quell’oggetto che viene posto in essere dalle forme a priori del soggetto. Non si pone più, pertanto, il problema dell’attingimento di un’oggettività “altra”, e irrimediabilmente “altra”, dal soggetto: l’oggetto dell’esperienza è ormai un “fenomeno”, ossia un oggetto che il soggetto costituisce in forza delle proprie forme.

Ciò che ci preme rilevare è che la condizione che funge da a priori fondante è proprio la relazione, che vale quale condizione di possibilità dell’esperienza e, quindi, della stessa conoscenza dell’oggetto. Va ribadito che quest’ultimo, per quanto risulti vincolato, mantiene comunque una qualche identità distinta dal soggetto, così che non lo si può considerare una sua “creazione”. Per questa ragione, del resto, anche se il sistema di riferimento del soggetto ha valore costitutivo dell’oggetto, non si darà una teoria totalmente in grado di inglobarlo, in modo tale che il momento della relativa indipendenza di soggetto e oggetto costituisce, al tempo stesso, la ragione dello scarto che permane tra la teoria e l’oggetto da essa descritto nonché dell’impossibilità di assumere come oggettivo (reale) ciò che, in quanto solo relativamente indipendente, è un mero fenomeno.

Se la relazione funge da condizione fondamentale che, nel vincolare il soggetto e l’oggetto, costituisce la stessa struttura dell’esperienza e del conoscere, allora si dovrà sempre tenere a mente che ogni forma del conoscere non può non poggiare su questa medesima struttura. Che equivale a dire: la relazione, fungendo da struttura fondamentale, si ripropone in ogni forma particolare del conoscere, anche se immediatamente non appare.

Quali conseguenze comporta questa consapevolezza? La prima conseguenza è che l’oggetto del conoscere risulta esso stesso una relazione, e ciò in un duplice senso. Da un lato ogni oggetto si costituisce come tale in forza del riferimento alla differenza che è esterna ad esso; dall’altro, ogni oggetto è in sé relazione, ossia si costituisce come insieme di elementi, così che la differenza è intrinseca alla sua stessa identità. Si potrebbe così affermare che la primitiva relazione di soggetto e oggetto tende a reduplicarsi, nell’oggetto, come relazione inter-oggettiva (intercorrente tra oggetti) e come relazione intra-oggettiva (appartenente alla intrinseca costituzione di ciascuno).

Per quale ragione non può non porsi la relazione inter-oggettiva? La ragione è già stata indicata: senza il riferimento agli altri oggetti, nessun oggetto potrebbe porsi in forma determinata. Il limite, cioè la relazione, è ciò che consente la posizione determinata di ciascun oggetto, perché solo in forza del limite l’oggetto si configura come una identità.

A sua volta, ogni oggetto determinato (ogni “A”) si costituisce in forza di una relazione intrinseca, una relazione intra-oggettiva, che consente di assumerlo come una totalità di parti, come un insieme di elementi, i quali possono venire ottenuti mediante l’operazione dello sciogliere la relazione intra-oggettiva, secondo le modalità proprie dell’analisi.

 

3. Relazione sensibile e relazione concettuale

Il discorso svolto sul concetto di relazione ci consente di ricapitolare quanto fin qui affermato. La prima forma di relazione, mediante la quale si struttura il mondo degli oggetti, è quella che potremmo definire, secondo l’insegnamento kantiano, “sensibile”. Kant parlava di a priori della sensibilità e li individuava nelle forme di spazio e tempo. Tali forme, in effetti, possono venire essenzializzate nella relazione di coesistenza e nella relazione di successione: la relazione di coesistenza indica la relazione spaziale, cioè la compresenza di oggetti che, nel medesimo tempo, occupano spazi diversi; la relazione di successione indica che oggetti, in tempi successivi, occupano il medesimo spazio.

L’una relazione si pone riferendosi all’altra, come è proprio di ogni relazione, in modo tale che è possibile connotare entrambe con l’espressione “relazione sensibile”, intendendo, appunto, la relazione spazio-temporale. Diciamo “sensibile” poiché essa costituisce la condizione che consente all’oggetto di configurarsi come oggetto sensibile, ossia come il corrispettivo del sistema percettivo-sensibile del soggetto. Senza la collocazione nello spazio e nel tempo, infatti, l’oggetto non potrebbe venire percepito, anche se la percezione non si costituisce solo in forza di queste due forme.

Accanto alle forme della sensibilità, devono operare anche le forme dell’intelletto, come le definisce Kant, o “forme concettuali”, come potrebbero anche venire definite. La dualità di sensibilità e intelletto è essa stessa, del resto, espressione della struttura relazionale del conoscere, struttura che impone il continuo sdoppiarsi di ciò che, vincolandosi, tende a restituire una unità. E non è un caso, infatti, che le forme concettuali fondamentali siano proprio quelle di unità e dualità, là dove quest’ultima rappresenta la molteplicità in nuce.

L’esperienza si costituisce come un’unità molteplice, nella quale ciascun dato è una unità che si relaziona ad una molteplicità di altre unità, le quali sono, ciascuna in sé, una unità di molteplicità. Da questo punto di vista, le categorie di unità e di molteplicità sono sovrapponibili a quelle di identità e differenza, proprio in ragione del fatto che l’identità vale come unità con sé dell’identico e la differenza è, per sua natura, una dualità.

In effetti, sia la categoria di unità-identità sia la categoria di dualità-differenza meritano di venire questionate, poiché ad esse si dà, di fatto, un significato che nega il valore logico-concettuale che esse hanno di diritto. Su questa questione si dovrà opportunamente meditare.

Prima, però, intendiamo riflettere su un altro aspetto, e cioè quello per il quale ogni cosa può venire espressa mediante il linguaggio. Com’è noto, il linguaggio si configura come un insieme di segni che si riferiscono ad un insieme di significati. Anche il linguaggio, dunque, si costituisce in forza della relazione: la relazione sintattica, che vincola tra loro i segni; la relazione semantica, che vincola tra loro segno e significato; la relazione “reale”, che si dispone – o si presume che si disponga – tra i significati. Abbiamo già evidenziato che quella relazione, che si dispone tra gli oggetti dell’esperienza, è una relazione tra fenomeni, così che solo impropriamente può venire considerata reale, oggettiva.

Tuttavia, il senso comune tende ad assumere i fenomeni, che nel loro insieme costituiscono l’oggettuale, come l’autentica realtà, come l’oggettivo. È da rilevare, a questo proposito, che il senso comune si trova di fronte a questa situazione: da un lato deve assumere il significato come il referente oggettivo (reale) del segno; dall’altro, però, esso deve considerare il significato come distinto dalla cosa reale, perché, in quanto viene “significato”, esso è ancora un momento del sistema semantico, laddove l’ente reale dovrebbe oltrepassare tale sistema, proprio per valere come reale.

Anche seguendo questa linea di ricerca, pertanto, ci si avvede che ciò che ordinariamente viene considerato un ente reale altro non è che un fenomeno, cioè un significato. L’intenzione è quella di far riferimento all’oggettivo, al reale, a ciò che è autonomo e autosufficiente, ma in conseguenza del fatto che questo “reale” viene determinato, esso cessa di valere come in sé ed entra a far parte del sistema posto in essere dalla relazione, quel sistema nel quale l’identità è tale soltanto per il suo differenziarsi dalla differenza.

A livello della realtà autentica, l’identità non può non costituire il fondamento, giacché essa vale come la condizione di pensabilità della stessa differenza. Affinché l’identità valga come condizione incondizionata, cioè come autentico fondamento, essa non può dunque porsi in forma determinata. Se, infatti, l’identità si pone in forma determinata, allora non può non vincolarsi alla differenza e, pertanto, subordinarsi ad essa. Con questa conseguenza: solo se assoluta l’identità è autentica o, detto con altre parole, solo l’assoluto costituisce un’autentica identità, dunque il fondamento.

Di contro, al livello della esperienza e del conoscere ordinari, l’identità si pone solo perché viene determinata, così che essa perde il suo valore di fondamento e decade a momento di quel circolo che dall’identità rinvia immediatamente alla differenza, e viceversa.

L’autentica realtà, cioè la realtà che valga quale autentico fondamento, non può venire espressa mediante le forme semantiche, dunque non può venire ridotta ai modi con cui la relazione la “dice”, dopo averla inglobata in sé. La relazione, ossia il discorso – non per niente l’espressione “relazione” ha anche il significato di “discorso” –, intende riferirsi al reale per poterlo riferire, ossia per poterlo esprimere nella sua verità; se non che, poiché riferirsi a qualcosa significa riportare (riferire) il qualcosa al proprio modo di riferirsi ad esso, il discorso (la relazione) non può riferirsi al reale se non riferendo il reale a se stesso, ossia se non riducendolo a forma semantica: le cose dell’esperienza comune si rivelano così dei meri “significati”.

Riconoscere che l’esperienza si configura come un “universo semantico” implica molte conseguenze. La prima è che la molteplicità degli universi semantici – cioè degli universi teorici di riferimento – fa essere una molteplicità di mondi, così che non è più possibile considerare uno di essi più reale degli altri. Anche se non esiste un mondo o un universo empirico che sia più reale, di fatto però ciascun soggetto considera reale il mondo che il suo sistema di riferimento teorico pone in essere e che egli tende a condividere con gli altri soggetti, così che ciò che normalmente viene assunto comeoggettivo risulta, in effetti, intersoggettivo. Mantiene, cioè, valenza soggettiva, anche se viene condiviso da un certo numero di soggetti, che, quando diventano “maggioranza”, impongono il loro mondo come l’unico possibile.

Il discorso, pertanto, non è un discorso sul mondo, ma è già in sé mondo o, che è lo stesso, il mondo è in sé undiscorso, e proprio per questa ragione può venire esplicitato mediante un discorso proferito, cioè mediante una serie di enunciati. L’enunciato, a sua volta, si struttura in forza della relazione, e ciò non solo perché si compone di segni che si riferiscono a significati, ma altresì perché si configura, almeno quando è un enunciato dichiarativo, nella forma di un giudizio.

La forma generale dell’enunciato dichiarativo è “S è p”, dove “S” indica un qualunque soggetto, “p” un qualunque predicato ed “è” indica la copula, ossia la congiunzione operata dal verbo “essere”. La copula, dunque, congiunge il soggetto al suo predicato, ossia vincola la cosa, presunta reale, alle proprietà che sono “sue” perché le appartengono. Come si vede, v’è perfetta corrispondenza – e la corrispondenza è ancora una relazione – tra cosa e giudizio. Il giudizio non fa che rendere palese la relazione che sussiste tra la cosa e le sue proprietà, in modo tale che l’ordine sintattico riproduce l’ordine che sussiste tra i significati.

La cosa, questo è il senso del nostro discorso, dovrebbe valere come cosa reale, cioè come fondamento. Che lo si sappia o meno, orientarsi nell’esperienza significa comunque cercare un fondamento. Un fondamento su cui erigere l’edificio dell’esistenza e del conoscere. Inizialmente, la realtà viene identificata con la cosa percepita: perché dubitare dei sensi, se quando vedo un oggetto poi posso anche afferrarlo e disporne nei modi e nelle forme che più mi aggradano? L’oggetto percepito diventa così la realtà oggettiva, quella di cui non ha senso dubitare.

Se non che, abbiamo a lungo insistito sull’impossibilità di pensare l’oggetto come indipendente dal soggetto e ciò impone la necessità di andare in cerca di un fondamento che si disponga ad un diverso livello di profondità. Poiché soggetto e oggetto sono realtà correlative, la relazione si impone, a questo livello di analisi, come il vero fondamento.

Tuttavia, anche la relazione esibisce un suo intrinseco limite di intelligibilità: essa è la contraddittoria conciliazione di unità e dualità, di identità e differenza, di indipendenza e di dipendenza dei termini.

Ciò impone di ricercare il fondamento ancora più in alto e per questa ragione abbiamo affermato che solo l’identità dell’assoluto è autentica identità, così che solo l’assoluto è autentico fondamento.

Ebbene, il “qi” altro non è che questa spinta alla ricerca del vero fondamento che anima la vita degli uomini e il processo del loro conoscere. La conoscenza, se è effettiva, non si accontenta di pervenire alla spiegazione dei fatti, ma cerca la ragione ultima del loro essere.

Non di meno, il passaggio dal livello della semplice percezione sensibile a quello della conoscenza concettuale è fondamentale. La conoscenza scientifica fa uso di un concetto ancora formale, perché lo intende come sintesi, dunque come relazione. Il “qi”, però, non si accontenta di un intero che sia ridotto ad un insieme, ad un composto di parti: il composto non può essere originario, perché presuppone un’analisi che abbia prodotto le parti, che la sintesi poi riunifica.

Ad avere valore originario, dunque a valere come fondamento, può essere solo l’intero, cioè l’assoluto. Ma dell’assoluto non si dà conoscenza. Se si desse conoscenza, esso verrebbe negato nella sua assolutezza e, da condizione incondizionata, passerebbe ad oggetto condizionato dal sistema con cui lo si conosce. Questo non significa rinunciare al processo del conoscere. Significa, al contrario, mantenerlo sempre vivo e riconoscerlo nel suo valore, che non è mai assolutizzabile.

Ebbene, a noi sembra che, quando il conoscere scientifico afferma la valenza statistico-probabilistica delle sue leggi e delle sue “verità”, riconosca il carattere relativo della conoscenza. Il processo del conoscere è sempre relativo alle premesse da cui prende avvio, ancorché il suo ideale immanente, il suo “qi”, sia quello di pervenire alla conoscenza vera e definitiva: alla conoscenza della verità assoluta.

Per precisare ulteriormente la dialettica che anima il processo conoscitivo, ci proponiamo ora di specificare in una forma più chiara il senso per il quale, a nostro giudizio, la struttura relazionale dell’esperienza si identifica nella sua struttura razionale, così che il livello della concettualizzazione formale si traduce nella conoscenza scientifica del mondo.

 

Note

[1] Platone, Parmenide, 130 e – 134 a.

 

3 – continua nel prossimo numero

 

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