Il “qi” nella cultura e nella filosofia dell’Occidente – sesta ed ultima parte

Aldo Stella*

16. Il pensiero in atto e il recupero di soggettività e coscienza

Poiché il nostro intendimento è indicare la necessità di andare oltre il pensiero procedurale, riteniamo essenziale precisare la differenza che sussiste tra il pensiero inteso come atto e il pensiero inteso come procedura. A nostro giudizio, si tratta di due forme semplicemente distinte di pensiero, ma intrinsecamente vincolate; non si tratta, insomma, di due forme irrimediabilmente contrapposte.

La prima considerazione che ci sentiamo di fare è che stiamo conducendo un’indagine sul pensiero e la stiamo conducendo mediante il pensiero. Il pensiero, dunque, in questo caso assume se stesso come oggetto e, pertanto, si configura come riflessivo. Quale rapporto sussiste, allora, tra il pensiero che pensa un qualunque contenuto e il pensiero che assume se stesso come contenuto?

Il pensiero può pensare qualunque contenuto solo perché può pensare se stesso. La funzione riflessiva, questo è il punto che vorremmo emergesse con chiarezza, costituisce il momento essenziale del pensare, perché solo in virtù di tale funzione il pensiero (noesis) si riconosce come pensiero e, solo perché si riconosce come pensiero, riconosce i dati-pensati (noemata) come “suoi” contenuti.

La seconda considerazione è vincolata al riconoscersi (sapersi) del pensiero: quando il pensiero pensa se stesso, esso, da un certo punto di vista, si differenzia, cioè si distingue in un pensiero pensante et in un pensiero pensato. Tuttavia, da un altro punto di vista, mantiene la sua identità di pensiero. Questa caratteristica del pensiero è veramente peculiare: il pensiero ha un’identità con se medesimo che non va intesa nel senso di un’unità immediata, tale cioè che è se stessa nel suo contrapporsi alla differenza. L’identità del pensiero, invece, è mediata, dal momento che il pensiero accetta la differenza e la ingloba come suo momento, un momento che viene bensì posto, ma anche trasceso.

I contenuti del pensiero, insomma, hanno valenza duplice: valgono come “altri” dal pensiero, ma anche come ciò che viene pensato e, quindi, come essenziali al porsi del pensiero in forma determinata.

Da un certo punto di vista, quindi, se il pensiero non pensasse qualcosa, sarebbe pensiero di nulla: non sarebbe pensiero affatto. Per questo aspetto, il pensiero fa della differenza il momento essenziale del suo costituirsi. Da un altro punto di vista, il pensiero non solo deve potersi differenziare, ma deve anche riconoscersi in questa differenziazione. E può riconoscersi nell’altro solo perché è uno in se stesso, ossia per la ragione che il livello in cui si differenzia non è quello nel quale è uno in quanto atto.

La terza considerazione è direttamente vincolata alla precedente. Poiché il pensiero poggia sulla differenza, ma non vi si riduce, esso è essenzialmente l’atto noetico del suo sapersi emergente sulla procedura dianoetica che lo esprime (dispone) come discorso, cioè come linguaggio. Il linguaggio, pertanto, rappresenta la differenza dal pensiero, che tuttavia non si oppone ad esso, ma che si lascia inverare da esso. Nous e dianoia non vanno visti, quindi, come contrapposti, perché l’atto è il fondamento e la procedura è il fondato.

Più precisamente, con l’espressione “nous” riteniamo si debba intendere l’atto di pensiero che vale come visione del noema (del contenuto di pensiero), ossia come quell’atto pensante che pone le condizioni perché il pensato possa venire determinato e descritto, cioè esposto dianoeticamente. Ciò consente di intendere adeguatamente anche l’esposizione dianoetica. Quest’ultima, per un verso, si fonda sull’atto noetico, ma, per altro verso, costituisce la forma determinata in cui l’atto noetico trova espressione: una forma indiretta, perché l’atto pensante (oggettivante) non può venire direttamente oggettivato (determinato) senza venire negato nel suo essere la condizione incondizionata dell’oggettivazione.

L’ipotesi che formuliamo è dunque questa: il pensiero riflessivo può venire considerato la sintesi di atto noetico e procedura dianoetica, ma una sintesi che domanda di venire adeguatamente pensata. L’atto è l’emergere del pensiero sui suoi contenuti, emergere che consente al pensiero di staccarsi anche da se stesso e di porre le proprie forme oggettivate. Queste ultime, invece, sono le modalità in cui il pensiero si svolge, ossia le forme che consentono al pensiero di esprimersi in un discorso (linguaggio), che può essere più o meno formalizzato.

Ebbene, l’essenza del pensiero riflessivo è, a nostro giudizio, quell’intenzione di verità e di unità che anima il conoscere, di qualunque processo conoscitivo si parli, e che, purtroppo, la cultura che oggi si impone in Occidente tende a rimuovere. Precisamente per questa ragione, riteniamo che la cultura tradizionale dell’Oriente possa svolgere un ruolo fondamentale: richiamarci al senso originario del pensare, quello per il quale si pensa per cogliere ciò che di vero c’è nel mondo.

Per pensare il mondo, dunque, lo si deve cogliere in una visione unitaria, collocandosi idealmente oltre di esso, perché solo così lo si può effettivamente oggettivare.

 

17. Pensiero riflessivo e concezione naturalizzata della mente

Il discorso svolto, se esaminato alla luce del dibattito che si svolge in quel particolare ambito della ricerca che viene denominato “filosofia della mente”, va decisamente contro corrente. Esso, infatti, non si colloca nella prospettiva naturalista e riduzionista, che si fonda sul principio di chiusura del mondo fisico. Inoltre, non accetta l’assunto di D.C. Dennett[1], il quale, riprendendo G. Ryle[2], afferma la necessità di superare il “dogma cartesiano dello spettro nella macchina”, ossia l’idea di un soggetto che valga come un “Autore Centrale (Central Meaner)”, in grado di dare un senso unitario alle molteplici funzioni psichiche.

A nostro giudizio, l’intento di smantellare il «capire» a favore di sotto-processi «stupidi e meccanici»[3] è legato alla volontà di eliminare ogni emergenza. Quest’ultima viene rifiutata dalla concezione meccanicista sia perché vìola il principio di chiusura del mondo fisico, essenziale per configurare una scienza naturalizzata della mente, sia perché sembra aprire un regresso all’infinito: se si ammette un’emergenza, se ne possono ammettere infinite altre.

Ebbene, il punto debole della concezione meccanicista e riduzionista ci pare si collochi proprio nel suo momento sorgivo, cioè nell’immagine sprezzante dell’autocoscienza definita lo “spettro nella macchina”. In effetti, il problema non è l’autocoscienza quanto la definizione di “macchina”, che invece sembra ovvia a coloro che propongono la naturalizzazione del mentale. Ci sentiamo di obiettare quanto segue: poiché il definire (determinare) non può non implicare il differenziare, ne consegue che è possibile determinare qualcosa come automatico (una macchina) solo a condizione che vi sia qualcosa che, invece, automatico non è. E postulare il “non automatico” equivale a richiedere un pensiero cosciente.

Del resto, senza un pensiero cosciente e riflessivo viene preclusa la possibilità di “definire”, e questo sembra essere sfuggito a Dennett, il quale, non valorizzando il “sapere”, ammette implicitamente di non sapere la ragione del suo prescindere dal sapere.

A nostro giudizio, insomma, è precisamente il sapere che fonda ogni definizione-determinazione-affermazione, che non può essere automatica senza aprire un regressus in indefinitum. Ciò che è automatico, infatti, assume acriticamente una premessa e la svolge in conformità a regole; ma, poiché la premessa è solo assunta, essa postula il processo automatico dell’assumere, che a sua volta postula una nuova premessa, e così via all’infinito. Non siamo di fronte, quindi, ad una procedura dianoetica, ma ad una procedura solo meccanica e la differenza tra i due tipi di procedure è molto importante.

Per evitare il circolo vizioso, pertanto, non si può non ricorrere ad una fondazione, cioè ad un pensiero noetico, il quale, lungi dall’assumere acriticamente, pone il punto di partenza della procedura dianoetica perché sa riconoscerne la funzione e sa di riconoscerla.

La funzione riflessiva e la funzione critica, questo è il punto da sottolineare con forza, coincidono e sono vincolate alla capacità del pensiero di disporsi ad un livello ulteriore rispetto alle procedure, che possono venire definite “ragionamenti” e che costituiscono le forme oggettivate del pensiero. Emergendo oltre le forme, il pensiero cosciente ne coglie il limite e non si riduce ad esse. Potremmo dire che il pensiero è cosciente proprio perché è consapevole di se stesso, senza ridursi al “sé” di cui ha coscienza, così che il cum-scire si rivela un sapere che, tenendo insieme pensiero oggettivante e pensiero oggettivato, implica necessariamente il sapere di sapere.

Questo sapere di sapere non è equiparabile ad una procedura cognitiva, dunque non è esprimibile in forma di algoritmo né la funzione riflessiva è assimilabile alla funzione ricorsiva. Il sapere di sapere costituisce, piuttosto, la presenza a sé del sapere (coscienza), che consente al sapere di rendere presente ogni altro da sé. Se la coscienza non fosse presente a se stessa, insomma, nulla sarebbe presente alla coscienza. Se il sapere non fosse sapere di sapere, non sarebbe sapere affatto.

In questo senso, il pensiero non può non essere esplicito e cosciente. Di contro, le forme procedurali non necessariamente sono esplicite. Molto spesso, anzi, esse sono implicite, perché coincidono con i processi di elaborazione delle informazioni che avvengono automaticamente.

Le forme implicite, non di meno, possono venire esplicitate e la funzione esplicitante può venire svolta solo dal pensiero riflessivo e cosciente. Senza tale funzione, quelle procedure, permanendo tacite, non diventerebbero mai oggetto di riflessione, così che di esse si ignorerebbe l’esistenza.

Inoltre, senza la funzione cosciente esse non potrebbero mai venire considerate procedure di pensiero, giacché è solo mediante tale funzione che il pensiero si riconosce come pensiero e può così individuare i molteplici processi in cui si esprime.

Il pensiero riflessivo e critico, questo è il punto fondamentale, intende discutere ogni assunto, perché non accetta di vincolarsi a presupposti indimostrati. Se, infatti, tali presupposti fossero falsi, anche la conclusione risulterebbe necessariamente falsa, se la procedura fosse corretta.

Quando il pensiero si interroga intorno alla verità degli assunti, esso emerge oltre la dimensione meccanica e procedurale, perché pone la procedura come oggetto di riflessione. Si potrebbe dire che, a fronte del procedere acritico dei ragionamenti, il pensiero riflessivo retrocede problematicamente su di essi. La riflessione sul ragionamento, pertanto, non è volta a produrre risultati esatti, che siano cioè in conformità con le premesse e con le regole del calcolo logico o operazionale, ma è volta a determinare il limite di validità di tale esattezza.

L’importanza della funzione riflessiva e critica, dunque, è enorme, perché essa evita che le procedure possano venire assolutizzate e così lascia sempre aperta la possibilità di una forma ulteriore di pensiero, cioè di una procedura diversa e alternativa rispetto a quelle ordinarie e acquisite.

E tuttavia, se pure il pensiero riflessivo evidenzia il limite che immane intrinsecamente ad ogni procedura, anche esso non può evitare di consegnarsi alle forme procedurali, se intende svolgersi secondo una qualche forma determinata. Anche per esercitare una critica, in sintesi, si devono assumere un punto di partenza nonché delle regole, che garantiscano una forma logica mediante cui la critica possa svolgersi.   Proprio per questa ragione abbiamo affermato che il pensiero critico non può non essere innanzi tutto autocritico, cioè deve riconoscere che l’istanza critica, che è innegabile perché indica l’intenzione di verità che anima ogni pensiero, deve comunque trovare una conciliazione con l’istanza procedurale, che è inevitabile, perché senza la procedura la critica permarrebbe indeterminata e, dunque, informe.

Quanto detto getta le basi per poter svolgere un confronto tra le forme tacite di pensiero e le forme esplicite, che sono espressione di un pensiero riflessivo e cosciente. Dalle considerazioni svolte si evince come primo aspetto che la procedura del pensiero cosciente mantiene il rigore logico delle procedure automatiche, ma in più le orienta verso un obiettivo, che è saputo e riconosciuto come tale.

Il pensiero riflessivo e cosciente, dunque, si esprime certamente mediante procedure, dal momento che solo esse presentano forma determinata. Tuttavia, le procedure coscienti sono consapevolmente orientate ed inoltre l’obiettivo può venire continuamente rimesso in discussione, così che la procedura può subire nuovi orientamenti.

Il secondo aspetto da evidenziare è che le procedure coscienti non si svolgono in conformità a regole, bensì seguendo regole. Allorché si seguono regole, si decide e si sceglie di farlo, così che la coscienza, implicando una qualche forma di libertà, pone di nuovo al centro il ruolo di un soggetto, qualunque significato si voglia dare a questa espressione.

In ragione del fatto che la coscienza orienta e ri-orienta la procedura, individuando obiettivi che possono essere liberamente scelti e liberamente sostituiti, e del fatto che si seguono consapevolmente regole si parla di intenzionalità. Quest’ultima indica che l’attività del pensare si pone con una direzione (un senso), così che l’intenzione può venire descritta come un vettore. Il pensiero cosciente, pertanto, è vettoriale, perché si dirige verso una meta, che è saputa come tale.

Se volessimo fare un confronto con le procedure automatiche, per esempio con gli algoritmi genetici, potremmo dire che la congruenza degli AG con l’obiettivo (fitness) può venire stabilita soltanto da un valutatore (un soggetto) esterno alla procedura, il quale, oggettivando la procedura, confronta la popolazione degli individui, selezionata durante il processo, con l’obiettivo proposto. Di contro, il pensiero cosciente si caratterizza per il fatto che questo confronto è posto in essere dal pensiero stesso, giacché, essendo cosciente, esso è espressione di un soggetto, che decide come procedere e perché procedere.

Da questo punto di vista è possibile affermare che è precisamente la funzione riflessiva del pensiero che consente di compiere tale operazione. Quest’ultima, nella misura in cui continua ad essere una procedura regolata e logica, mantiene carattere meccanico; di contro, per quel tanto che è frutto di riflessione critica, strumentalizza l’aspetto meccanico e lo rende funzionale al progetto di ricerca, ossia al progetto di un soggetto.

18. Il valore ideale del sapere

La coscienza è la figura che, meglio di ogni altra, indica l’esigenza ideale di trascendere il fattuale, ossia l’esigenza di oltrepassare l’ordine all’interno del quale, tuttavia, si continua a permanere. Ci si colloca, inevitabilmente, nell’ordine dell’esperienza, nell’ordine delle determinazioni, delle conoscenze, dei discorsi, ma si intende, innegabilmente, emergere oltre tale ordine, onde pervenire alla sua verità, al suo fondamento, al principio, alla condizione incondizionata della serie dei condizionati, all’incontraddittorio, che emerga sulla contraddizione.

La coscienza che si orienta alla verità non si acquieta di fronte a ciò che si presenta e che, presentandosi, assume l’aspetto della verità. Essa interroga le presenze empiriche, vuole saggiarne la consistenza e, quando scopre che la singola presenza, lo “A” più volte indicato, rinvia ad altra presenza, cioè a “B”, per legittimare se stessa, e altrettanto fa “B” con “C”, essa riconosce il limite immanente a ciascuna presenza nonché all’ordine che tutte le contiene.

Riconosce così la contraddittorietà che sussiste tra l’intenzione e la pretesa. L’intenzione di tutto ciò che si presenta è di essere e di essere veramente; la pretesa è di ridurre ciò a cui si tende, il vero essere, a ciò che di fatto è: assumere cioè il fatto, tale quale esso si presenta, come verità, eliminando quella domanda che invece lo costituisce come fatto. Se l’intenzione è volta ad ottenere un fondamento, la pretesa è di averlo già ottenuto.

L’intenzione impedisce che ci si plachi, perché riconosce come vero solo l’ideale, cioè la condizione che evoca la ricerca, la orienta, e la compie, ma solo idealmente. La pretesa, invece, conosce un unico compimento: quello fattuale; per essa ogni esigenza, qualunque sia, può venire soddisfatta, è soltanto questione di tempo. Proprio in questo senso va interpretato il fatto che, nella lingua latina, espressione del pragmatismo della cultura romana, il participio passato di exigere (esigere) è exactus (esatto), a dimostrazione che i conti devono tornare, comunque. E tale pragmatismo è arrivato fino a noi: anzi, oggi si è assolutizzato.

Di contro non può darsi un “esattore” della verità. L’esigenza di verità non può venire soddisfatta di fatto; essa è un’esigenza che permane insoddisfatta, così che il vero si configura come l’esigito, mai come l’esatto. Tuttavia, è proprio questa esigenza che tiene perennemente in vita la ricerca, che spinge sempre oltre ciò che si trova, oltre il già noto, l’acquisito.

Il compimento, dunque, è da intendersi in senso ideale, come consapevolezza che, se la ricerca sorge come “sapere di non sapere”, e cioè a causa della mancanza della verità, pur tuttavia questa mancanza è saputa, cosicché essa sorge proprio in virtù del sapere. Un sapere che non è riducibile ad un qualche “saputo”, ma che emerge incoercibilmente oltre il non sapere, oltre la pretesa di sapere. Un sapere sempre in atto e che, per questa ragione, costituisce l’origine di ogni ricerca.

Se questa emergenza viene ridotta ad una espressione, ad un enunciato, ad un discorso, per quanto corretti questi possono essere dal punto di vista formale, l’emergenza viene negata; se, invece, la si lascia essere nella sua dimensione ideale, irriducibile a forme, ad oggettivazioni, a dati, a conoscenze, ma configurabile solo come tensione, atto, idea, allora ci si può aprire ad una dimensione che eleva il soggetto oltre il suo rapporto con l’oggetto, che lo restituisce a quella soggettività qualitativa che non è più contrapponibile all’oggettività, costituendo idealmente quell’unità in virtù della quale si supera ogni contrapposizione: la contrapposizione di soggettivo e oggettivo, di identico e diverso, di mente e corpo, di coscienza e inconscio, di io e tu, di io e mondo.

Non si può mai dimenticare, infatti, che, così come l’oggetto ridotto a termine della relazione è oggettuale e non può venire considerato oggettivo, altrettanto il soggetto, inglobato nella relazione all’oggetto e ridotto a termine, è un soggetto oggettivato, reificato: esso cessa di valere come l’autentica soggettività.

Con questa conseguenza: se ciò che viene conosciuto dell’uomo è ciò che può venire espresso mediante enunciati, ossia è la sua forma oggettivata, ciò nondimeno nessuna conoscenza coglie l’uomo nella sua verità, nel suo autentico essere in sé, nella sua autentica qualità. Proprio qui emerge il valore dell’ideale, e nel lasciar emergere il valore dell’ideale la speculazione non è solo critica, nel senso che discute le conoscenze di fatto comparenti, ma è anche propositiva.

La domanda fondamentale è, dunque, la seguente: il valore ideale del fondamento come può trasformare il conoscere, che consapevolmente ad esso si volge?

La risposta che abbiamo cercato di dare può venire così riassunta: se l’ordine delle conoscenze “positive” non accetta il valore ideale del fondamento, ma pretende di inglobarlo, riducendolo ad una delle tante conoscenze, allora il sistema del conoscere non fa che contraddire la sua stessa esigenza, cioè che il  fondamento emerga oltre la serie dei condizionati (oltre il sistema e le conoscenze che lo costituiscono), i quali sono condizionati proprio perché sono insufficienti ciascuno a se stesso.

Ma, se il fondamento è tale solo perché è inoggettivabile, perché parlare di esso? Perché porlo al centro della ricerca, se di esso nulla si può determinare “positivamente”? Per quale ragione la scienza, che deve occuparsi di tante cose importanti nella vita degli uomini, dovrebbe perdere il tempo dietro a queste sottigliezze fumose proprie di una stantia metafisica?

A noi pare che la ragione possa venire essenzializzata in questo modo: riconoscere la necessità del fondamento, cioè della legittimazione autentica, dell’innegabile, nel suo emergere oltre l’inevitabile, costituisce un vero spartiacque nel pensiero e nella cultura. Se non si riconosce l’emergenza del vero sul falso, dell’essere sul non essere, del positivo sul negativo, del bene sul male, comunque tale emergenza venga definita, allora ci si colloca inesorabilmente in una prospettiva nichilista, così che la ricerca, di qualunque ricerca si tratti, ne risulterà irrimediabilmente segnata.

Di contro, riconoscere tale emergenza significa disporsi ad intendere la scienza, ogni scienza, in senso speculativo, fornendole così un’autentica fondazione.

Precisamente la necessità di riferirsi al fondamento, e di intenderlo come quell’intero che non è riducibile a nessun insieme determinato, ci pare costituisca proprio l’essenza del “qi” che l’Oriente ha mantenuto al centro del proprio sapere e della propria cultura. Poiché la cultura occidentale va smarrendo il senso di questo fondamento, guardare al “qi” può rappresentare un invito di straordinaria importanza: l’invito a recuperare quel valore che la nostra cultura rischia definitivamente di perdere.

 

Note

[1] D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è?, Roma-Bari, Laterza, 2009².

[2] G. Ryle, Lo spirito come comportamento, Torino, Einaudi, 1955.

[3] D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è?, cit., p. 107.