Il “qi” nella cultura e nella filosofia dell’Occidente – quarta parte

Aldo Stella

11.  La struttura razionale dell’esperienza come struttura relazionale
Se l’esperienza percettivo-sensibile si caratterizza per l’indipendenza dell’oggetto, sia dal soggetto sia da ogni altro oggetto, assunta come l’evidenza più indiscutibile, per contrario il conoscere si fonda sulla coscienza della struttura intrinsecamente relazionale dell’oggetto. Il valore della relazione sta, dunque, a fondamento del passaggio dal livello sensibile al livello concettuale dell’esperienza.
Conoscere, questo è ciò che intendiamo dire, significa cogliere nessi nonché esplicitare i nessi con discorsi o con altre forme espressive. In questo senso è lecito affermare che ratio e relatio tendono a coincidere. A rigore, ratio è da reor, là dove relatio è da referre. Tuttavia, reor indica il “pensare connettendo”, così che l’idea di relatio è presente innegabilmente in esso. Ne consegue che la ragione viene a configurarsi come il processo in forza del quale si colgono i rapporti che sussistono tra le cose.
Quanto abbiamo già evidenziato a proposito della corrispondenza tra dati di esperienza e discorso può venire ripetuto qui, come corrispondenza tra esperienza e ragione. La ragione non introduce nessi nell’esperienza, ma l’esperienza è in sé, strutturalmente, razionale, proprio perché posta in essere dalla relazione.
La scienza coglie la struttura razionale dell’esperienza, insomma, perché ne coglie la struttura relazionale. Gioverà ricordare, giunti a questo punto dell’indagine, che il concetto di “spiegazione scientifica” non è riducibile ad un’unica formula e le risposte che possono essere date alla domanda “Che cos’è una buona spiegazione scientifica”, per quanto risultino brillanti, non riescono ad essere definitive ed esaustive.
Tra le definizioni più significative, ricorderemo che per Hempel[1],  il quale si muove in un contesto neopositivista, una spiegazione scientifica deve esibire rilevanza esplicativa e deve essere controllabile. Popper[2], come abbiamo visto, propone una spiegazione scientifica che si configuri come una teoria falsificabile, ossia come una teoria che esprima una classe di falsificatori potenziali non vuota. Quine[3], che attribuisce particolare rilevanza alla componente linguistica della conoscenza, sostiene la necessità di specificare i termini in cui la spiegazione si articola. Van Frassen[4] intende la spiegazione come una particolare forma di relazione e cioè una relazione che si instaura tra una teoria ed un fatto e Salmon[5] ritiene che non sia sufficiente derivare un fatto da una legge, ma si richiede una connessione causale tra explanans ed explanandum.
Siamo così al punto: il concetto di legge – e il carattere nomotetico della scienza – è intrinsecamente vincolato al concetto di causa (o di fattore o di variabile) e, dunque alla relazione causale, comunque questa relazione venga intesa.
La causalità, infatti, può venire intesa in un duplice senso: o come una connessione razionale o come una connessione empirica. Se la causalità viene intesa come connessione razionale, allora la causa viene pensata come la ragione del suo effetto, in modo tale che il secondo può venire dedotto dalla prima. Se, di contro, la causalità viene intesa come connessione empirica, allora l’effetto, ancorché non sia deducibile dalla causa, è non di meno prevedibile a partire da essa per la costanza e uniformità che caratterizza la loro relazione.
Un punto importante è che non solo nel caso della connessione razionale, ma anche nel caso della connessione empirica, la relazione tra causa ed effetto è intesa, in genere, come una connessione necessaria. La necessità che attiene alla relazione deduttiva è una necessità a priori; la necessità che attiene alla relazione empirica è bensì a posteriori, ma non per questo la previsione dell’effetto a muovere dalla causa risulta meno certa. Comte, ad esempio, parla di relazione invariabile di successione tra i fatti, la quale, quando viene riconosciuta, viene formulata in una legge, che rende possibile prevedere un secondo fenomeno a muovere da un primo, allorché è stato stabilito il loro collegamento.
Lo stesso Mach[6], pur sostituendo il concetto di causa con quello di funzione, volto ad indicare la dipendenza tra i fenomeni e la possibilità di calcolarla come una legge di corrispondenza tra variabili, mantiene il carattere necessitante del nesso, nel senso che il vincolo tra eventi rimane un punto fermo ed è proprio a partire da esso che si pone la prevedibilità dei fatti naturali. In effetti, la formulazione matematica della teoria cinetica dei gas, fornita da Maxwell e da Boltzmann, proponendo un’interpretazione statistica del secondo principio della termodinamica, ha comportato il superamento dell’interpretazione rigidamente deterministica del nesso tra eventi, il quale è stato inteso in un senso sempre più probabilistico.
Più precisamente, si potrebbe affermare che, con il principio di indeterminazione di Heisenberg e l’imporsi della fisica dei quanti, l’universo del microcosmo è stato pensato come regolato da relazioni che non sono pensabili in senso forte, nel senso cioè di valere come relazioni necessarie, ma solo in senso debole, cioè in senso probabilistico. Ed è stato proprio un autorevole esponente della scuola neopositivista, Reichenbach[7], che ha affermato il valore del concetto di probabilità e il ruolo fondamentale che esso riveste in tutte le asserzioni concernenti la realtà.
Più specificatamente, il concetto di relazione causale può venire inteso sia in senso ontologico, come se il soggetto facesse esperienza diretta di tale nesso cogliendolo nella realtà stessa, sia in senso epistemico, come se cioè esso avesse attinenza solo con il modo soggettivo di configurare il processo della conoscenza. Se lo si intende in questo secondo modo, allora si fa valere quella che viene definita la causalità humeana e cioè si abbandona il concetto intuitivo di causalità per approdare ad un nesso meno “impegnativo” tra due eventi: non si tratta di affermare che il primo produce il (è causa del) secondo, ma solo che il secondo segue il primo con una certa costanza. Questa costanza può venire espressa mediante una legge e per questa ragione si parla di spiegazione nomologico-deduttiva.
Poiché, però, la scienza non si accontenta di un nesso così “soggettivo” tra due eventi, basato su un rapporto di successione e contiguità, il pensiero contemporaneo ha cercato di rinforzare il concetto humeano di causa mediante l’uso dei controfattuali, che sono proposizioni condizionali (“Se…, allora”) nelle quali l’antecedente prospetta uno stato di cose diverso da quello che di fatto è o è stato. Non soltanto si afferma la successione tra due eventi e la loro contiguità, ma si aggiunge che, se il primo non fosse stato, neppure il secondo sarebbe stato. In questo modo, sembra che si possa catturare l’intuizione, che sta alla base della causalità, prescindendo dalla sua diretta esperienza.
Il punto che a noi interessa mettere in evidenza è  il valore che il concetto di relazione  riveste nella configurazione della trama logica del mondo, anche quando questa trama non attiene al mondo dei concetti, ma al mondo dei fatti.
Nel caso in cui si deduce un fatto particolare da una legge generale siamo di fronte ad un processo deduttivo, che fa discendere un conseguente da un antecedente. Nel caso, invece, in cui si inferisce una causa da un effetto, sia in senso deterministico sia in senso probabilistico, si ha a che fare con un processo di tipo induttivo, che muove dall’osservazione e, rilevando una certa regolarità nel corso dei fenomeni, ipotizza una legge che stia a fondamento del loro svolgersi regolato.
Nell’un caso come nell’altro, si è di fronte ad una relazione che sussiste tra lo explicans e lo explicandum, ossia tra ciò che spiega e ciò che domanda di venire spiegato. Tale nesso è precisamente un’inferenza: un’inferenza di tipo deduttivo, se dalla legge inferisce l’asserto osservativo, che verrà poi messo a confronto con l’esperienza; un’inferenza di tipo induttivo, se dal conseguente o dall’effetto intende inferire l’antecedente, cioè la causa.
In effetti, si potrebbe parlare di una fase induttiva e di una fase deduttiva del processo della spiegazione. La fase induttiva, che costituisce il momento fondamentale di quello che Reichenbach definisce il contesto della scoperta scientifica, muove da fatti, per loro natura particolari, e perviene a leggi generali; la fase deduttiva, che costituisce il momento fondamentale dell’ambito della giustificazione, muove dalla legge e perviene deduttivamente ad asserti osservativi, che verranno confrontati con l’esperienza per verificare o falsificare l’ipotesi di legge. La struttura del processo esplicativo, pertanto, è la relazione tra explicans ed explicandum, la quale può venire percorsa nei due sensi di marcia indicati.
Varrà la pena ricordare, per chiarire ulteriormente questo punto, che spiegare, almeno nel suo significato più ampio, equivale a compiere un processo che dal dato, ciò che Aristotele definisce l’oti, conduce al “per che”, cioè al dioti, che costituisce ciò mediante cui (dia) viene spiegato qualcosa. Ciò che deve venire spiegato è il fenomeno, che costituisce il punto di partenza della ricerca per la ragione che è ciò che inizialmente compare nel campo percettivo.
Del resto, spiegare indica etimologicamente il “togliere le pieghe”, ossia il far uscire dalle pieghe del fenomeno (l’oti, appunto) ciò che consente di spiegarlo, così che spiegare significa “rendere piano”, cioè “rendere evidente”. Precisamente per questa ragione l’explicandum è tutt’uno con l’explanandum e l’explicans con l’explanans.
Se ne ricava che il processo della spiegazione coincide con il rendere esplicito il nesso che vincola l’explicandum all’explicans, nesso che non è immediatamente evidente (ad essere evidente è solo il percetto) e, pertanto, permane inizialmente implicito. Non per niente, implicito significa sia nascosto, non esplicito, sia relativo all’implicazione, implicato.
Cosa indica questo? Che la spiegazione si fonda su un’implicazione, la quale vincola ciò che deve venire spiegato a ciò che lo spiega, e che tale implicazione sussiste anche se inizialmente permane tacita o implicita. Il processo della spiegazione si compie precisamente nel renderla evidente, cioè nel passaggio che consiste nel rendere esplicito l’implicito. La struttura logica del processo esplicativo, insomma, è una relazione di implicazione, la quale può venire percorsa o in senso deduttivo, dall’explicans all’explicandum o, viceversa, in senso induttivo.
Il processo della spiegazione poggia su una relazione e la relazione si impone per la ragione, più volte evidenziata, che ogni identità determinata, cioè ogni fatto, ogni fenomeno, si pone solo in forza della relazione alla differenza. Con questa conseguenza: la struttura relazionale del dato impone che l’esperienza venga intesa come una trama di relazioni, un textus, cioè un’orditura di linee che variamente si intrecciano e si annodano. I nodi della trama sono i fenomeni; le relazioni tra di essi costituiscono i fili della trama. Spiegare un fenomeno, pertanto, significa leggere il testo dell’esperienza a muovere da un filo conduttore o, in altre parole, rilevare i nessi che vincolano quel fenomeno ad altri fenomeni.
La relazione, che costituisce la trama dell’esperienza, può venire pensata sia per l’aspetto disgiuntivo, che valorizza l’identità dei termini relati per la loro relativa indipendenza; sia per l’aspetto congiuntivo, che valorizza i relati per il loro riferimento reciproco e, dunque, per la loro relativa dipendenza.    Se la relativa indipendenza costituisce quello che abbiamo definito il momento sensibile della relazione, per la ragione che ogni identità si presenta come se fosse autonoma e autosufficiente secondo quanto l’esperienza percettivo-sensibile sembra attestare, di contro la relativa dipendenza costituisce il momento concettuale della relazione, perché emerge oltre l’esperienza sensibile e coglie il nesso che non soltanto vincola le cose, ma più radicalmente le costituisce.
La struttura relazionale dell’esperienza ne rappresenta, quindi, la stessa struttura razionale. Spiegare un fenomeno, pertanto, significa coglierlo nella struttura razionale che lo vincola ad altri fenomeni e tale relazione o vincolo è un’implicazione, che può venire anche espressa mediante una proposizione condizionale: “Se A, allora B”.
La prima forma in cui l’implicazione è stata configurata è la relazione di causalità; successivamente si è parlato di funzione, per indicare la corrispondenza che sussiste tra le variazioni del valore di alcune variabili, dette variabili indipendenti o argomenti della funzione (assimilabili alle cause), e la variazione del valore della variabile indipendente, detta valore della funzione (assimilabile all’effetto).
Ciò consente di comprendere la ragione per la quale la legge può venire formulata mediante equazioni tra simboli: la legge esprime la costanza di un rapporto e il rapporto trova nel linguaggio della matematica la sua espressione più naturale e compiuta, secondo quanto intuito dallo stesso Galilei.
Già con Hobbes viene messo in evidenza il vincolo che sussiste tra la concezione meccanica della natura e la relazione causale, la quale risulta la sola spiegazione razionale del mondo. Sia in Hobbes che in Spinoza e in Cartesio la causa è ciò che dà ragione dell’effetto, nel senso che ne giustifica l’esistenza. Spiegare, da questo punto di vista, significa far vedere come gli effetti dipendano dalle cause e, pertanto, la causalità è qui intesa come una deduzione.
Precisamente in senso deduttivo la intende lo stesso Hegel, che la assume come l’intrinseca articolazione della sostanza che è anche Soggetto, in virtù del suo necessario svolgersi implicante l’autocoscienza.
Di contro, Ockham prima e Hume poi sottolineano che la connessione tra causa ed effetto non è necessaria, dunque a priori, ma solo legata all’esperienza: il rapporto causale non si fonda sulla deduzione, ma sull’induzione. Quando Kant afferma che il rapporto di causalità configura una categoria, cioè un concetto a priori, egli non dice che dalla causa è deducibile l’effetto, ma dice che la natura, per essere pensata come natura, deve essere ordinata mediante relazioni causali, giacché la causalità è una condizione della sua pensabilità o conoscibilità.
Stuart Mill, infine, si incarica di precisare che la costanza che si rileva nella connessione causale non è di natura deduttiva, ma di natura induttiva, così che la necessità logica viene chiaramente distinta dalla necessità empirica. E tuttavia, nell’un caso come nell’altro si ha a che fare con un tessuto di relazioni, che strutturano l’esperienza e ne consentono la conoscenza.
Con Mach, dunque, il concetto di causa viene sostituito dal concetto di funzione e con Cassirer[8] la funzione simbolica viene ad avere un valore fondamentale nel processo conoscitivo: essa costituisce l’attività stessa del conoscere, giacché la relazione è il modo d’essere delle cose intese come simboli o rappresentazioni.
Il punto è di estrema rilevanza, perché concerne la realtà delle relazioni. La domanda è: le relazioni hanno la stessa realtà degli oggetti dell’esperienza sensibile, oppure si collocano ad un diverso livello? Come si vede il discorso che era stato fatto per la relazione causale può venire fatto per la relazione in quanto tale: le relazioni hanno valore ontologico o valore epistemico?
Esula dalla presente ricerca il compito di analizzare questo tema, ancorché esso sia fondamentale. Basterà qui ricordare che per Russell, almeno all’inizio della sua ricerca, la trama delle connessioni logiche costituisce il rispecchiamento fedele o la copia della struttura formale della realtà, così che non esisterebbero solo cose e qualità, ma anche relazioni. Sullo stesso problema riflette Wittgenstein, il quale nega che la logica aggiunga qualcosa alla struttura della realtà, così che egli la considera solo analitica e la conoscenza si rivela soprattutto empirica. Strumento essenziale diventa il linguaggio, che vale come l’espressione stessa della realtà, in modo tale che le relazioni linguistiche vengono fatte coincidere con le relazioni che sussistono tra gli elementi della realtà e l’analisi del linguaggio viene progressivamente fatta coincidere con l’analisi della realtà.
Particolarmente significativa risulta la posizione di Carnap, il quale ne La costruzione logica del mondo[9] mette in evidenza in forma paradigmatica il ruolo costitutivo che ha la relazione nella configurazione di quel sistema dei concetti della conoscenza (Konstitutionssystem), che deve valere come una ricostruzione razionale dell’intera impalcatura della realtà. Il “dato vissuto” e non ancora elaborato si regge su una struttura fatta di relazioni fondamentali (Grundrelationen), le quali fungono da “postulazioni d’ordinamento” del sistema.
L’impostazione di Carnap può venire considerata classica, per la ragione che le relazioni fondamentali assumono il carattere di categorie generali del processo conoscitivo, senza tuttavia che ad esse venga attribuito quel valore ontologico che caratterizzava l’impostazione russelliana. Per Carnap la relazione costituisce la struttura logica del linguaggio, svincolata da ogni riferimento ontologico e considerata non di meno nella sua strumentalità costruttiva.
Da un lato, quindi, Carnap tende a risolvere l’oggetto nel campo che lo determina, in modo tale che la “descrizione qualitativa” (Eigenschaftsbeschreibung)  viene sostituita dalla “descrizione relazionale” (Beziehungsbeschreibung); dall’altro, non può eliminare il riferimento al dato inteso nella sua immediatezza, cioè a quei “dati vissuti” (Erlebnismässigen) che fungono da fondamenti oggettivi del sistema.
Il punto cruciale, al di là della differenti impostazioni, è il seguente: il concetto di relazione risulta il fondamento della concezione scientifica del mondo. E tuttavia, di questo concetto noi abbiamo cercato di mettere in evidenza il limite di validità, affinché potesse mergere con forza la necessità di un ulteriore livello. La struttura razionale del mondo mette capo all’esigenza di una ragione non più solo formale, ma trascendentale. Di una ragione, cioè, che esprima fino in fondo l’esigenza metafisica di un fondamento autentico, dell’intero inteso come assoluto, quell’intero del quale il “qi” incessantemente spinge alla ricerca.
La necessità di questo livello, che sia ulteriore rispetto a quello nel quale opera il concetto inteso ancora in senso formale, cioè come sintesi, deve risultare in tutta la sua evidenza. Con questo intendimento, approfondiamo dunque l’indagine.

12.     Qualità e quantità
Per svolgere il compito, muoviamo da questa considerazione: ogni cosa si distingue da un’altra in quanto è in sé una qualità, e tuttavia la qualità può venire determinata solo in relazione ad un’altra, cioè solo mediante la comparazione e la distinzione.
Lo status è complesso: se non venisse postulata la qualità in sé, allora la cosa non esisterebbe (l’identità non si porrebbe) e non potrebbe esistere la differenza con le altre cose. Da questo punto di vista la differenza poggia sull’identità, perché la cosa si differenzia solo in virtù della sua identità intrinseca. Da un altro punto di vista, però, senza la relazione, ossia senza la differenza, l’identità non può venire determinata, giacché de-terminare significa lasciar operare un limite, una relazione.
Si potrebbe così sintetizzare: se la cosa non è, non si differenzia; ma se non si differenzia, non si determina. Con che, il determinarsi della cosa non risolve in sé il suo “essere cosa”, ma anzi lo richiede come fondamento, come condizione di intelligibilità.
Eravamo già pervenuti a questa conclusione, ma è necessario ribadirla per la sua importanza e per il ruolo che essa riveste nel passaggio dall’ordine del conoscere formale, che coincide con il conoscere scientifico,  all’ordine del fondamento: è necessario pensare l’identità in un senso che consenta il suo emergere oltre la modalità ordinaria, che la assume in forma determinata.
L’identità, intesa in senso non ordinario, cioè non formale, costituisce una necessità teoretica, un prerequisito innegabile, senza del quale non risulta intelligibile la stessa identità formale (l’identità determinata descritta dall’esperienza sensibile e dal conoscere concettuale che ancora poggia sul primato della forma) e non risulta intelligibile neanche la differenza, né la relazione che le costituisce entrambe.
Comprendiamo bene che vi possano essere resistenze ad accettare l’idea di una qualità (identità) che non sia determinata e che, pertanto, debba avere un valore “metafisico” più che “fisico”. Ciò nonostante non vediamo come si possa evitare di richiedere un tale fondamento, senza cadere in un circolo vizioso, per il quale l’identità formale (o determinata) rinvia alla differenza e la differenza all’identità, senza che l’una possa fondare l’altra, non essendo in grado di fondare se stessa.
Le perplessità nascono dal fatto che, allorché si parla di una qualità che emerge oltre l’ordine dei determinati, non si può non intenderla nel senso che compete all’assoluto, poiché solo l’assoluto è effettivamente oltre la relazione, oltre la differenza, oltre il limite. E tuttavia, la necessità di richiedere un’emergenza del qualitativo, che venga intesa in questo senso, a noi pare un punto irrinunciabile per ogni ragione che intenda valere come speculativa, e non come meramente strumentale o pragmatica.
Per cercare di superare le resistenze, per loro natura solo psicologiche, e le perplessità, legate ad un universo culturale che vive con sempre maggiore insofferenza ogni ricerca di tipo speculativo, rileviamo che  le proprietà, che vengono attribuite a (predicate di) una cosa, non possono non richiedere l’essere della cosa come condizione di intelligibilità della stessa attribuzione, così che, se la cosa non fosse a prescindere dalle sue proprietà, queste non potrebbero più venire definite “sue”, venendo meno ciò a cui vengono riferite.
La qualità fondante – questo è il nodo, tanto decisivo, quanto “irritante” – non può non porsi come assoluta, dunque come irrelata, dunque come indeterminabile. Il definirla tale, ossia l’averla determinata come indeterminabile, non configura una contraddizione, poiché l’intenzione è solo quella di dire che essa emerge oltre ogni dire: ciò che viene detto non è ciò che essa è in sé, ma la sua necessità, il suo non poter non essere, il suo non poter non venire richiesta da quello stesso ordine formale che poi finisce per  contraddirla perché pretende di inglobarla (riducendola a determinazione), ancorché l’abbia richiesta proprio per il suo valore incondizionato, che le consente di valere come autentico fondamento.
Definirla “identità metafisica” equivale, quindi, ad indicare non altro che la sua esigenza, che è appunto esigenza metafisica di fondazione. Cosa esprime il “qi”, se non questa esigenza metafisica? Se non lo slancio dello spirito verso l’assoluto? Se non l’esigenza di infinito che si manifesta nel finito?
Allorché la qualità metafisica viene determinata, essa viene inscritta nella relazione ed è ridotta a qualità determinata, a qualità formale: essa diventa un qualunque “A”. Il presente discorso, pertanto, non nega di certo che le cose, che si presentano nell’esperienza, siano determinazioni; ciò che mediante esso si contesta è la pretesa di negare la necessità di una Cosa che ad esse sia irriducibile e che valga come loro condizione.
Con il presente discorso, insomma, si intende affermare che anche la qualità formale, posta in essere dalla relazione e per questo determinata, richiede una qualità che la trascenda, e sulla quale essa deve poggiare: solo così la qualità formale può aspirare a mantenere una sua identità che valga in forza di una qualche autonomia e di una qualche autosufficienza.
Se l’autonomia e l’autosufficienza della qualità (identità) metafisica sono assolute – o, per usare un’altra espressione, ideali –, di contro nel caso della qualità fisica si può parlare solo di autonomia e di autosufficienza relative, fermo restando che esse devono venire, almeno in una qualche misura, conservate, se si vuol continuare a parlare di identità.
Il problema è che, quando si parla di identità determinata, si viene risucchiati nel solito circolo vizioso, che la ragione autentica non può certo accettare, anche se la pratica lo impone come insuperabile. Tra la qualità (identità) determinata e la relazione si instaura, infatti, una reciprocità per la quale, se la qualità determinata si pone in forza della relazione, quest’ultima, reciprocamente e scambievolmente, si pone solo in forza dell’identità (qualità) determinata.
Non solo. V’è da aggiungere un altro elemento, che sarà essenziale per procedere nell’analisi: l’identità determinata, proprio in quanto tale, non può non capovolgersi immediatamente nella quantità, poiché essa si trova a postulare la relazione tra due qualità differenti.
I punti che meritano, quindi, di venire opportunamente precisati sono due: da una parte si impone una precisazione in ordine a quanto abbiamo scritto a proposito del principio di identità; dall’altra dovrà venire specificato il capovolgimento della qualità in quantità.
Parlando del principio di identità, per il quale “A” è “A”, non si può non rilevare che esso tende a risolversi nel principio di non contraddizione, che afferma che “A” è “A” solo perché “non è non A”. Ciò che qui vogliamo porre in evidenza è che, se questa risoluzione è inevitabile quando si parla di una identità determinata, l’esigenza di una identità che emerga oltre la relazione permane innegabile.
L’inevitabile è, insomma, inintelligibile, e lo è per questa ragione fondamentale: se l’identità abbisogna della differenza per porsi – anche se di una differenza negata (“A” è negazione di “non A”) –, allora l’identità è in sé differenza, è in sé negazione, è il suo stesso contraddirsi.
Il secondo punto, sul quale merita riflettere, è il seguente: la relazione si instaura tra due identità distinte, in modo tale che, per quel tanto che sono distinte, esse configurano due qualità. La distinzione risulta dunque non solo la relazione tra i termini che la compongono, ma anche l’elemento che qualifica ciascuno di essi per il suo non essere l’altro.
E tuttavia la distinzione è la medesima per entrambi, cosicché non si comprende come possa qualificarli. Ci si trova ancora in un circolo, quello per il quale la qualità presuppone la distinzione e la distinzione presuppone la qualità, nonostante che, in effetti, l’una tenda a capovolgersi immediatamente nell’altra.
Si potrebbe anche dire: l’uno presuppone il due e il due presuppone l’uno, all’infinito. Od anche: la qualità (l’uno), che ormai è una qualità determinata perché inscritta nella relazione, presuppone la quantità (il due) e, viceversa, la quantità presuppone la qualità.

Note
[1] C.G. Hempel, Filosofia delle scienze naturali, il Mulino, Bologna 1968.
[2] K.R. Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972,
[3] W.V.O Quine, Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966.
[4] B.C. van Frassen, L’immagine scientifica, Clueb, Bologna 1985.
[5] W.C. Salmon, 40 anni di spiegazione scientifica. Scienza e filosofia 1948-1987, Muzzio Editore, Padova 1992.
[6] E. Mach, Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, Einaudi, Torino 1982.
[7] H. Reichenbach, Causdalità e probabilità, in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, Utet, Torino 1969.
[8] E. Cassirer, Sostanza e funzione, La Nuova Italia, Firenze 1973.
[9] R. Carnap, La costruzione logica dl mondo, Fabbri, Milano 1966.