Funzione e valore del linguaggio nelle scienze mediche

Aldo Stella* 

  • Dipartimento di Culture Comparate, Università per Stranieri di Perugia Dipartimento di Psicologia Università “La Sapienza” di Roma

 

 

Il linguaggio, come è noto, rappresenta lo strumento con cui è possibile stabilire la comunicazione. Se il linguaggio viene assunto sul modello della comunicazione umana, si può affermare che con l’espressione “linguaggio” si intende l’uso di segni intersoggettivi. Vengono definiti “intersoggettivi” quei segni che rendono appunto possibile la comunicazione tra più soggetti. Per “uso”, invece, si intende sia la possibilità di scelta dei segni (istituzione, mutazione, correzione di essi), sia la loro combinazione in modi limitati e ripetibili. Il primo aspetto riguarda il dizionario del linguaggio stesso, ossia il modo in cui le singole parole vengono ordinariamente intese nella singola lingua: il significato che a ciascun segno viene attribuito. Il rapporto tra segno e significato costituisce, dunque, l’ordine semantico del linguaggio. Di contro, il rapporto dei segni tra di loro costituisce l’ordine sintattico e si esprime nelle molteplici forme di combinazione che possono sussistere tra segno e segno.

Nella lingua, infatti, le parole sono gli elementi che si combinano fra loro e, solo perché correttamente combinate, esse configurano una frase (enunciato, proposizione) dotata di senso. La relazione semantica, che sussiste tra segno e significato, e la relazione sintattica, che sussiste tra segno e segno, cercano di riprodurre, nel discorso, la relazione che sussiste tra le cose cosiddette “reali”. Cogliere i nessi che costituiscono la realtà è, propriamente, cogliere la struttura razionale del mondo, quella struttura che il discorso intende riferire.

Gioverà ricordare che ratio, che deriva da reor, significa “ragione”, ma anche “relazione”, “rapporto”, “legame”, così che, anche se relatio è da referre – e non da reor –, pur tuttavia ratio e relatio solo intimamente connesse, proprio per il comune significato del “riferire, connettere, relazionare”: cogliere la ragione equivale a individuare il nesso che vincola i dati e cioè equivale a riferire un dato all’altro, a porre l’uno per il tramite dell’altro.

Del resto, deve venire altresì evidenziato che l’espressione “relazione” mantiene in sé il significato di “discorso”, come si evince, per esempio, dalla formula “svolgere una relazione”. Ebbene, non c’è da meravigliarsi di questo duplice significato della espressione “relazione”, giacché il discorso è in sé una relazione e la relazione è intrinsecamente un “dire”, stante che è un “riferire”. Il discorso è intrinsecamente relazione per la ragione che si costituisce come relazione (logica) tra enunciati, per l’essere ogni enunciato una relazione tra soggetto e predicato (anche se non ogni enunciato è dichiarativo), per l’essere ogni elemento dell’enunciato un segno che si riferisce al significato corrispondente. Per converso, ogni relazione ha valenza “discorsiva” per la ragione che, nel riferire qualcosa a qualcos’altro, il qualcosa non può non assumere il carattere di segno, stante che la natura del segno è proprio quella di “essere in riferimento” a qualcosa di diverso da sé, cioè di “essere sé come rinvio” ad altro.

Non per niente, l’espressione con cui i primi filosofi greci designavano la relazione è precisamente to pros ti, indicante il qualcosa che sta per qualcos’altro (o per qualcun altro). Ebbene, questo “rinviare”, questo “riferire” (riportare), che caratterizza la relazione, è precisamente, e nel senso più rigoroso, un “dire”. Risulta dunque perfettamente comprensibile il fatto che “riferire” e “dire” vengono usati come sinonimi. In questo senso, il mondo dell’esperienza, che viene ordinariamente assunto come reale, può venire considerato come un testo, che domanda di venire letto e interpretato. L’espressione “testo”, infatti, indica propriamente un “tessuto” (textus, appunto), cioè un’orditura di linee, immaginosamente assimilabili ai fili che si intrecciano e si annodano. Proprio per tale carattere, “leggere” acquista la funzione dello sfare il tessuto, ripercorrendo l’orditura con un “filo conduttore”.

Il costrutto relazionale (per sua natura mono-diadico) esprime precisamente la forma più semplice ed essenziale di textus, nonché la forma logica elementare che sostanzia e organizza l’ordine dei fenomeni (dati, fatti). È proprio questa forma logica – la quale viene anche definita “struttura”, per il suo valore costitutivo – che trova esplicitazione mediante il discorso: il discorso si configura quale legittima espressione del mondo proprio per la ragione che entrambi poggiano sulla medesima struttura: la relazione.

La domanda che, non di meno, ci si deve porre è se il mondo costituisca la realtà oggettiva o se, invece, costituisca bensì la realtà, ma solo nel senso dell’oggettuale, nel senso cioè di una realtà che è intrinsecamente vincolata al soggetto che la coglie. Per rispondere a tale domanda, facciamo riferimento ad un passo molto significativo di Giovanni Federspil, che è uno dei più qualificati studiosi italiani di metodologia clinica. Il passo compare in un’importante opera, intitolata I fondamenti del metodo in medicina clinica e sperimentale. In tale opera, l’Autore precisa in forma molto interessante il concetto di oggettività.

La cosa per noi interessante è questa: se, da un lato, Federspil afferma che «l’oggettività delle osservazioni scientifiche è un carattere assolutamente basilare del metodo e fornisce la prima garanzia della scientificità di un discorso»2, subito dopo, da un altro lato, egli precisa: «in realtà, il termine “oggettività”, riferito alla descrizione scientifica, equivale al termine “intersoggettività dei fenomeni osservati”»3. Il senso del discorso, che ci pare confermi quanto siamo andati affermando, è il seguente: ordinariamente, viene assunto come se fosse oggettivo ciò che è e rimane intrinsecamente vincolato al soggetto, per quanto possa venire ampiamente condiviso e, dunque, risultare intersoggettivo.

La questione è importantissima per la scienza in generale, ma lo è altresì per la scienza medica in particolare, proprio nel suo punto sorgivo e cioè nella scelta del linguaggio mediante il quale vengono descritti i fenomeni di cui questa scienza si occupa. La scelta del linguaggio, è questo ciò che va ribadito con forza, non è assolutamente neutra rispetto all’oggetto che viene descritto, ma, anzi, il linguaggio costituisce l’oggetto.

Si prenda, come esempio che possa avere valore paradigmatico, il modo in cui la scienza medica descrive il corpo dell’uomo, inclusi i suoi aspetti anatomici e fisiologici, e la descrizione che ne fornisce la medicina tradizionale cinese. Ebbene, la scienza medica occidentale tende ad analizzare e scomporre, smembrando il corpo in organi, in cellule, in elementi sub-cellulari, in funzioni e microfunzioni, fino alle reazioni biochimiche ultime, che fungono, per così dire, da atomi della complessa struttura di quel corpo, che viene progressivamente frammentato. Di contro, la medicina tradizionale cinese cerca di riferire il corpo alla complessa struttura del cosmo, di cui il corpo stesso dell’uomo fa parte integrante, e ne fa parte a tal punto che anche la sua struttura intrinseca deve venire colta solo in senso analogico, come richiamo simbolico al valore del tutto e come riproposizione del tutto in forma di organizzazione certamente ridotta, ma ugualmente articolata e unitaria.

È evidente che non soltanto le due concezioni descrivono le malattie del corpo in forme diverse, ma che, più radicalmente, malattie, che vengono presunte identiche, acquistano, in effetti, un “essere” diverso in forza delle parole con cui vengono espresse: non si tratta, dunque, della medesima forma morbosa descritta in modi diversi, ma di malattie che finiscono per risultare diverse, dal momento che vengono poste in essere da un diverso ordine teorico di riferimento. Certo, si potranno riscontrare aspetti comuni in malattie analoghe, ma ciò che intendiamo dire è che il sistema culturale, che fornisce l’apparato categoriale, logico e semantico per dire le cose, produce un mondo che solo in parte è sovrapponibile a quello che si basa su un altro orizzonte culturale.

Lo stesso “corpo”, in quanto tale, nel linguaggio cinese può venire descritto in forme diverse, ossia con ideogrammi diversi – se ne contano almeno tre –, ma tutte tendono a coniugare la struttura materiale all’aspetto dinamico-vitale, a quella dimensione dello spirito che, per i cinesi, costituisce il legame profondo con l’Uno. Per questa ragione, non esiste un corpo che possa venire ridotto a cadavere, come è per il corpo degli anatomo-patologi. Il corpo è un equilibrio di Soffi, il medio tra Cielo e Terra, tra yin e yang, che rispecchia e riproduce l’equilibrio cosmico e, solo alla luce di questo equilibrio, può venire interpretato e descritto.

Gli stessi organi vanno colti in quanto dotati di valore simbolico e metaforico, nell’essere cioè ciascuno in equilibrio con tutti gli altri, proteso verso l’armonia del tutto, intrinseco rinvio a quell’Uno, che è condizione della salute e del benessere: «Il cammino ascetico di ritorno all’Uno conosce vari livelli di distacco dalle persone e dalle cose: dalla capacità di “fare il Vuoto”, all’“Arte del cuore”, al non-agire, che è il vero saper-fare taoista. In questo modo si diventa “Santi” e si raggiunge la longevità, che consiste nel portare a termine i giorni donati a ciascuno dal destino con un sano intrattenimento del principio vitale. La medicina e il medico “santo” aiutano l’uomo in questo suo arduo compito»4.

Anche il corpo della scienza medica occidentale mantiene un senso di unitarietà, ma, si potrebbe dire, l’unità risulta subalterna e secondaria alla molteplicità degli organi e delle funzioni, là dove il corpo della medicina tradizionale cinese è invece innanzi tutto un’unità, un’unità che riproduce analogicamente l’Uno, e solo secondariamente si costituisce di una molteplicità.

A muovere da questi principi concettuali, si pone una diversa interpretazione che, potremmo dire, configura due mondi diversi, due realtà diverse, sia in ordine alla concezione della sanità, sia alla concezione della malattia. Quali sono, del resto, gli strumenti che consentono ai principi di esplicitarsi nella forma compiuta del sistema, in questo caso del sistema della scienza medica, sia che si tratti della medicina occidentale sia della medicina tradizionale cinese? Sono proprio le parole. Le parole indicano le cose, ma nell’indicarle le pongono in essere, le sottraggono al nulla. La cosa “è” solo in quanto viene determinata e determinare è, comunque, semantizzare, anche se il segno non viene esplicitamente pronunciato.

La semantizzazione, nel senso della congiunzione di un segno ad un significato, e la categorizzazione, nel senso della individuazione di una classe comprensiva di una molteplicità di esemplari, costituiscono dunque due funzioni fondamentali nella configurazione e nella sistematizzazione della così detta “realtà”. Ciò significa che sia il linguaggio, in generale, sia il linguaggio medico, in particolare, non sorgono, come ordinariamente si pensa, dopo che le cose si sono configurate e determinate, ma, al contrario, essi costituiscono lo strumento in forza del quale le cose si determinano e prendono forma.

Ne consegue che i fenomeni, di cui la scienza si occupa, sono conformati, già al loro sorgere, in forza di quella stessa scienza che pure crede semplicemente di osservarli.