Esistenza e rilevamento

Aldo Stella*

*Dipartimento di Culture Comparate, Università per Stranieri di Perugia Dipartimento

di Psicologia Università “La Sapienza” di Roma

 

Ciò che esiste si caratterizza per il fatto che manifesta una presenza e tale presenza viene in una qualche misura rilevata. Prendiamo un caso che possa valere come esemplificazione. Sono in una stanza e rilevo che nella stanza ci sono molteplici cose. Ciò mi induce ad affermare che quelle cose esistono. La mia convinzione è che quelle cose esistano indipendentemente da me, ma questa convinzione prescinde da un fatto molto importante e cioè dal fatto che, se io non fossi stato, la presenza di quelle cose non sarebbe stata rilevata.

Certo, quanto abbiamo appena detto potrebbe apparire ben strano. Intendiamo forse dire che quelle cose ci sono perché ci sono io? Cerchiamo, quindi, di precisare meglio. Per farlo, poniamo due domande. Se non ci fosse un qualunque io, non necessariamente il mio io, come potrebbe venire rilevata la presenza di quelle cose? E se la presenza di quelle cose non venisse rilevata, come si potrebbe dire che esse esistono? Queste sono  due domande fondamentali, che non erano state formulate in precedenza. Alla prima domanda è possibile rispondere così: senza un dispositivo di rilevamento non è possibile affermare la presenza di qualcosa. E, di conseguenza, si precisa anche la risposta alla seconda domanda: senza la presenza, che venga rilevata, non è possibile affermare l’esistenza di qualcosa. L’esistenza delle cose, dunque, si vincola alla loro presenza e la presenza si vincola ad una qualche forma di rilevamento.

La forma più comune di rilevamento è quella che si ha quando esso è compiuto da un soggetto, cioè da un essere umano. Anche questa affermazione non deve meravigliare troppo. Essa, infatti, si fonda sul fatto che soltanto un essere umano rileva effettivamente la presenza delle cose, perché attribuisce sia alla presenza che al rilevamento il loro giusto significato. Solo un soggetto pensante, è questo ciò che intendiamo dire, sa cosa significa “rilevare” e cosa significa “presenza”.

Il concetto di rilevamento risulta, dunque, un concetto centrale. Indubbiamente, si potrebbero rivolgere varie obiezioni all’affermazione che il rilevamento è compiuto solo da un essere umano. Per esempio, si potrebbe dire che, anche se non esistesse un uomo, dunque anche se non esistesse un io, non di meno l’esistenza di molte cose potrebbe venire rilevata dagli animali. Se si facesse valere questo punto di vista, però, il tema del rilevamento continuerebbe comunque ad imporsi. Anche nel caso prospettato, infatti, il rilevamento delle cose, ancorché non compiuto da uomini ma da animali, sarebbe la condizione della presenza delle cose stesse, né il discorso cambierebbe se si dicesse che il rilevamento è frutto di dispositivi automatici: in tutti i casi, senza il rilevamento non si configurerebbe presenza alcuna.

In secondo luogo, si dovrebbe notare che quelle che noi uomini chiamiamo “cose”, ossia quelle presenze che vanno a costituire il mondo della nostra esperienza, sono le “nostre” cose, con questa rilevantissima conseguenza: per dire che sono le stesse cose percepite/rilevate dagli animali (dispositivi automatici o quant’altro), dovremmo poter fare un confronto. Dovremmo, cioè, essere uomini, e percepire nel modo umano le cose, e insieme anche animali (automi), e percepire le stesse cose così come le percepiscono gli animali (ammesso che gli animali le percepiscano tutti allo stesso modo e ammesso che i dispositivi automatici non abbiano poi bisogno di un ulteriore rilevamento da parte dell’uomo, che consenta di rilevare – in un rilevamento ulteriore – ciò che i dispositivi automatici hanno rilevato mediante la modalità di rilevamento che compete loro).

Le “nostre” cose, questo intendiamo dire, non possono essere le stesse cose percepite dagli animali, per la ragione che gli animali sono dei “rilevatori di presenze” con una struttura percettiva diversa dalla nostra. E il medesimo discorso vale per i dispositivi automatici, che sono tarati per rilevare solo determinate presenze. Quando noi parliamo di cose che esistono, dunque, non possiamo non riferirci alle cose che noi uomini rileviamo e che rileviamo in virtù del nostro sistema specifico di rilevamento, che implica non soltanto uno specifico sistema di ricezione delle informazioni, ma altresì un altrettanto specifico sistema di elaborazione delle informazioni ricevute. Dalla sintesi del processo ricettivo e del processo elaborativo emergerà la presenza rilevata, la quale sarà pertanto intrinsecamente vincolata ai due sistemi indicati.

Una seconda obiezione potrebbe essere questa: non ha senso dire che le cose esistono perché le rilevo, ma invece si deve dire che rilevo le cose perché esistono. Questa obiezione sembrerebbe del tutto sensata. Se non che, non possiamo dimenticare qual è il punto di partenza. Il punto da cui prende avvio tutto il discorso sull’esistenza delle cose, e in particolare sull’esistenza delle cose in questa stanza (per tornare alla esemplificazione iniziale), è che io ne rilevo la presenza. Se non rilevassi tale presenza, non si porrebbe alcuna domanda. Ricapitolando: rilevo la presenza di “cose” nella stanza. Dopo questo rilevamento mi domando se le cose esistevano anche prima che io le rilevassi. Ma, se non le avessi rilevate, la domanda sulla loro esistenza non sarebbe mai sorta. Il fatto di averle rilevate è dunque il fatto fondamentale, quello da cui origina la domanda e ogni possibile risposta, inclusa quella volta ad affermare che quelle cose esistevano anche prima che io entrassi nella stanza. Non posso non tenere in grande considerazione questo fatto, così che risulta possibile riassumere così quanto detto: l’esistenza si vincola comunque ad un rilevamento. D’altra parte, a sua volta il rilevamento si fonda sull’esistenza stessa della cosa rilevata, per la ragione che, se nulla ci fosse da rilevare, il rilevamento nulla rileverebbe. Questo vincolo inscindibile, non di meno, è stato spesso non riconosciuto.

Nella storia del pensiero filosofico, infatti, si sono da sempre confrontate e contrapposte due posizioni radicalmente antitetiche: la posizione realista e quella idealista. Per il realista, le cose esistono indipendentemente dal soggetto che le rileva. Per l’idealista, il rilevamento di un soggetto fonda l’esistenza stessa delle cose, al punto che le cose sono state considerate “forme” in cui il soggetto si esprime, quasi sue “creazioni”. A noi pare di poter dire, invece, che l’esistenza è la presenza di qualcosa a qualcuno: se la presenza del qualcosa non è riducibile a colui che la rileva, d’altra parte senza il rilevatore la presenza della cosa non si manifesterebbe. Il rilevamento, insomma, strappa la presenza della cosa al nulla e la pone come una presenza determinata, come un qualcosa che esiste. E la cosa, per potersi manifestare in forza del rilevamento, deve comunque essere. Da una parte, insomma, il sistema rilevante; dall’altra l’essere del rilevato. Da questo incontro sorge l’esistenza della cosa.

Come si evince da quanto sopra affermato, è stata posta una differenza non di poco conto: quella tra esistenza ed essere. L’esistenza della cosa si fonda, da una parte, sul rilevamento; dall’altra, sull’essere della cosa stessa. L’essere, pertanto, non può venire fatto coincidere con l’esistenza, per la ragione che l’esistenza è vincolata, laddove l’essere è assoluto (ab-solutum), cioè si pone a prescindere dal vincolo al sistema rilevante. Se un essere assoluto non si desse, allora l’esistenza sarebbe totalmente creata dal sistema rilevatore, il quale tuttavia dovrebbe a sua volta venire rilevato, in un regresso che aut va avanti all’infinito aut richiede l’essere, cioè un fondamento che sia a prescindere da vincoli, cioè da rapporti. L’essere assoluto, tuttavia, proprio per il fatto che è assoluto, non si presenta mai. Se si presentasse, si vincolerebbe.

La domanda, allora, è la seguente: se l’essere di ogni cosa fonda l’esistenza della cosa stessa, si può entrare in rapporto con tale essere? La risposta è già stata data: con l’essere non si entra in rapporto. Quando si entra in rapporto, l’essere non è più l’essere della cosa, ma è diventato l’esistenza della cosa. E ciò ha una rilevanza enorme.

Il discorso svolto, pertanto, può venire così riassunto: tra esistenza e rilevamento sussiste una relazione inscindibile. L’una non può stare senza l’altro, e viceversa. Senza un rilevamento non si dà esistenza e senza esistenza non si dà rilevamento. Inoltre, rilevare l’esistenza di qualcosa equivale a rilevare la presenza del qualcosa.

Tuttavia, quanto detto sul concetto di “rilevamento” domanda di venire approfondito.  Il rilevamento è il risultato di un processo che viene messo in atto da un elemento rilevante o rilevatore (nel senso “che rileva”) e che si conclude con la presenza di un altro elemento, il “ciò che viene rilevato”. Concettualmente, dunque, si ha a che fare con una relazione, che prevede come termini il rilevante e il rilevato. Su questa relazione si deve riflettere. Non è un caso che si usino due participi, per indicare i termini della relazione suddetta: un participio presente (rilevante) e un participio passato (rilevato). Ciò indica che solo il “rilevato” acquisisce la forma di “qualcosa-che-è-presente”. Cosa significa? Che dal punto di vista dei fatti che si presentano il “rilevante” non compare. Per quale ragione? Per la ragione che la presenza del rilevante è fuori dal campo del rilevamento.

Siamo ad un altro punto decisamente importante. Riassumiamolo: la condizione che pone in essere il campo del rilevamento non può entrare nel campo stesso; se entrasse nel campo che essa, come condizione, rileva, cesserebbe di valere come condizione del campo e scadrebbe ad elemento del campo, condizionato come ogni elemento del campo. Detto con altre parole: tra rilevante e rilevato c’è un aspetto di reciprocità, per quel tanto che l’uno c’è perché c’è l’altro. Tuttavia, v’è anche un aspetto di asimmetria, che impone di individuare due diversi livelli: un livello in cui si dispone il rilevato e un livello in cui si dispone il rilevante. Il campo del rilevamento coincide con il livello del rilevato e non con quello del rilevante. Se anche il rilevante finisse nel livello del rilevato, che possiamo immaginare come sottostante a quello del rilevante, allora non ci sarebbe più “chi rileva”, così che verrebbe meno il rilevamento. Ripetiamo, dunque, il punto: la condizione del rilevamento non può non emergere oltre il campo dei rilevati. Essa deve emergere oltre il campo dei rilevati affinché possa esservi rilevamento, ossia affinché alcune presenze possano venire rilevate (possano valere come presenze).

La condizione del rilevamento (che in precedenza abbiamo definito il “soggetto” del rilevamento) non si presenta mai. Se si presentasse, scadrebbe a rilevato. Si obietterà: ma il soggetto si presenta! Quando si presenta, ci sentiamo di rispondere, esso è diventato oggetto di un nuovo rilevamento e quest’ultimo si realizza grazie ad una nuova condizione rilevante. Se il soggetto del rilevamento diventa oggetto del rilevamento, insomma, non è lo stesso: in quanto soggetto del rilevamento è dotato di una proprietà che cessa di appartenergli nel momento in cui diventa oggetto del rilevamento stesso. Anche se è la stessa persona che rileva la propria presenza, il discorso non cambia: un conto è quella persona in quanto è la condizione “rilevante”; altro conto è quella stessa persona in quanto oggetto “”rilevato”. In quanto condizione rilevante, la persona è un soggetto; in quanto rilevata, la stessa persona è un oggetto e questa differenza non è di scarsa importanza.

Potremmo dire così: la condizione rilevante è condizionante il campo dei rilevati, perché questi ultimi sono rilevati in base a come quella condizione, ossia quel sistema di rilevamento, li rileva. Rilevare qualcosa significa, dunque, da un lato accogliere qualcosa; dall’altro, significa accoglierlo nei modi e nelle forme in cui il sistema rilevante è in grado di rilevare.

La differenza che sussiste tra soggetto e oggetto è proprio questa. Il soggetto è la condizione del rilevamento, mentre l’oggetto è il “condizionato”, cioè costituisce il prodotto del rilevamento. La presenza del soggetto non appartiene al campo delle cose rilevate. Se non che, anche qui si potrebbe sollevare un’obiezione: anche la presenza del soggetto può venire rilevata. Non solo: il soggetto stesso è “soggetto” proprio perché è in grado di rilevare la sua presenza. Si impone, dunque, una analisi su questa proprietà fondamentale che è del soggetto e solo del soggetto: la proprietà di rilevare sé stesso, cioè la proprietà riflessiva.

La qualità più specifica dell’uomo è di essere un soggetto ed “essere un soggetto” significa non soltanto rilevare qualcosa, ma soprattutto “rilevare di rilevare”, che equivale a sapere di rilevare. L’oggetto è la cosa di cui rilevo la presenza; il soggetto sono io che rilevo la mia presenza, prima ancora di rilevare la presenza dell’oggetto. Rilevo, anzi, la presenza dell’oggetto perché rilevo la mia stessa presenza. In questo senso, si può dire che il soggetto può diventare oggetto di sé stesso perché la sua coscienza e il suo pensiero sono dotati, come detto, della proprietà riflessiva.

L’uomo può riflettere su sé stesso e, proprio perché riflette su di sé, può rilevare sia la propria presenza sia quella degli oggetti. Potremmo sintetizzare così il discorso svolto: se il soggetto non fosse presente a sé stesso, nulla sarebbe presente al soggetto. Nulla esisterebbe.

Tuttavia, la questione che avevamo impostato non è ancora risolta, perché prima avevamo affermato che il soggetto non si offre come una presenza determinata e poi, invece, abbiamo parlato di un soggetto che si esprime in una presenza. Come conciliare questi due punti che sembrano in contraddizione tra di loro? Dicevamo che, se rilevo la mia presenza, rilevo me come un oggetto. Il soggetto, nel rilevare sé stesso, diventa oggetto di sé stesso, così che si sdoppia in un soggetto rilevante e in un oggetto rilevato. Non si tratta però di due presenze, perché il soggetto rilevante si presenta solo nella forma di un oggetto rilevato. Che è come dire: il soggetto rilevante non si presenta mai come rilevante (si noti il participio presente), ma sempre e solo come rilevato (si noti il participio passato) e ciò proprio in ragione del fatto che viene rilevato.

Se non che, il rilevato è sempre “insufficiente a sé stesso”, ossia non può non richiedere una condizione ulteriore: la condizione del suo rilevamento. Una condizione, inoltre, che valga come incondizionata. Se fosse condizionata, sarebbe essa stessa ancora insufficiente.

La conclusione, ancorché provvisoria, del discorso potrebbe dunque essere la seguente: poiché la presenza richiede il soggetto rilevante e poiché il soggetto in quanto rilevante non è mai oggettivabile, cioè riducibile ad una presenza determinata, è possibile affermare che, almeno da questo punto di vista, il soggetto, nel suo senso più profondo e autentico, coincide con il suo perdersi nell’essere stesso, ossia nell’assoluto. Su questo perdersi, che è anche un salvarsi, si dovrà riflettere.