Reflessologia ed emozioni: inverno, l’emozione paura


Paolo G. Bianchi*

“È normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.

(Paolo Borsellino)

 

“L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.

(Franklin Delano Roosevelt)

 

“La paura è sempre inclinata a veder le cose più brutte di quel che sono”.

(Tito Livio)

 

“Ci sono tanta superstizione e ipocrisia in giro che si ha paura anche di agire rettamente. Ma se si dà spazio alla paura, si finisce col dovere reprimere anche la verità. La regola d’oro è di agire senza paura in ciò che si ritiene giusto”.

(Gandhi)

 

Inverno: culti per vincere le tenebre

“Coloro che si limitano a studiare e a trattare gli effetti di una malattia sono come le persone che si immaginano di poter mandare via l’inverno spazzando la neve sulla soglia della loro porta. Non è la neve che causa l’inverno, ma l’inverno che causa la neve”.

(Paracelso)

 

L’inverno si presenta con una drastica diminuzione delle ore di luce, un sole più velato e una temperatura più rigida. Tutti elementi che spingono l’uomo a rinchiudersi e, a imitazione degli animali, a rintanarsi ricercando calore soprattutto tra gli affetti domestici. Non è un caso che alcune delle festività più importanti per varie religioni si svolgano proprio in questa stagione.

Le tradizioni collegate alla rinascita del sole sono molto antiche. Queste vogliono che il sole dopo aver raggiunto il punto del massimo declino, e cioè la sua fase più debole per luce e calore, dal 22 al 24  dicembre, si fermasse in cielo (“solstitium” significa sole fermo) per riprendere subito dopo il suo cammino verso l’alto, ogni giorno di più, fino al solstizio d’estate dove invece si verifica il fenomeno inverso.

Fin dalla preistoria, il fenomeno del solstizio d’inverno impressionava gli uomini che, molto probabilmente, a fronte della diminuzione di luce e calore, temevano lo spegnersi del sole. Di qui i festeggiamenti propiziatori per il suo risorgere.

Qualche millennio prima dell’apparizione della cometa citata nei Vangeli, gli uomini celebravano la mezzanotte del 25 dicembre come un momento misterioso, carico di energie particolari e quindi importante per riaccendere la speranza negli uomini tramite santificazioni.

I Germani celebravano i dodici giorni che precedevano il solstizio d’inverno come il momento della rinascita della vita con la festa di Yule collegata al culto di Odino.

Per i Celti il solstizio d’inverno cadeva tra la lunazione di Dumannios (“Tempo delle Profonde Tenebre”) e Riuros (“Tempo del Freddo”): nei loro riti le forze naturali legate al ghiaccio e al gelo venivano considerate come generatrici di vita e, di conseguenza, la morte, più evidente e presente nella stagione fredda, era un equilibratore naturale indispensabile per il ritorno della vita.

Il Dio persiano Mythra, nominato fra gli dei di Stato dall’impero mesopotamico dei Mitanni veniva identificato e rappresentato con il Sole già nel 1400 a.C. e la sua festa era proprio il 25 Dicembre, appena dopo il solstizio d’inverno. Lo scopo della festa era celebrare il giorno della rinascita del Dio Sole.

Nell’antica Roma, il solstizio d’inverno corrispondeva con il “Sol Invictus”, conosciuta anche come Saturnalia. Era una delle feste più importanti tanto che i cristiani la assorbirono come tradizione nella festa del Natale.

I culti legati al solstizio d’inverno sono comunque sempre legati al culto del sole e alla necessità dell’uomo di richiamarlo nella propria esistenza, con riti e celebrazioni.

 

Molti di questi culti sono a noi sconosciuti perché celebrati in Polinesia, Africa o Americhe e nonostante siano molto antichi resistono alla secolarizzazione e alla globalizzazione stessa. La matrice comune di questi riti è l’alternanza di luce e di buio, la vittoria della luce sul buio o la luce che dilegua le tenebre.

Per gli Inca, per esempio, il sole era la divinità suprema per eccellenza. Le piramidi create da questa popolazione avevano lo scopo di avvicinare i sacerdoti al sole, in modo da poterlo venerare con una maggiore vicinanza fisica, ma avevano anche lo scopo pratico di stabilire con precisione l’equinozio: infatti, il livello di conoscenza astronomica degli Inca era molto elevato e sono numerose le tracce e gli strumenti utilizzati per i calcoli planetari.

I Maya, addirittura avevano una così alta venerazione per il sole da considerarlo il giudice supremo della vita e dell’esistenza in genere. Il loro calendario era una mescolanza di credenze religiose, misurazioni stagionali e tempi legati all’agricoltura: il sole regolamentando i solstizi determinava anche le azioni sociali e di conseguenza il lavoro delle persone.

Anche per gli antichi Egizi, altro popolo con notevoli conoscenze astronomiche, il solstizio d’inverno e d’estate avevano un ruolo determinante tanto da definire di conseguenza, l’orientamento delle piramidi.

Ai giorni nostri le festività religiose più note nel periodo del solstizio d’inverno sono la Festa della Luce – Hannukah degli ebrei (festa nata per celebrare una vittoria militare e un miracolo legato all’olio delle lampade del tempio) e il Natale cristiano (che per i credenti di rito orientale, a causa di un calendario differente, viene posticipato di circa otto giorni).

L’uomo sente la necessità di vincere il buio che genera la paura, ma come fare per vincere la paura? La risposta viene dall’acqua.

 

Acqua

Cadendo, la goccia scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza.”

(Lucrezio)

Il Principio dell’Acqua è quello che governa dentro di noi tutte le energie più profonde. A questo principio sono associate le energie a noi più misteriose, spesso ancestrali, proprio perché più profonde, e meno conosciute. Queste energie profonde vengono definite nelle filosofie orientali “non coscienti”. Il Principio dell’Acqua corrisponde insomma a tutti i nostri archetipi e ai ricordi inconsci che sono ben celati dentro di noi.

Sempre nelle filosofie orientali il principio dell’acqua assume un valore fondamentale: l’acqua è responsabile di tutte le nostre forze fisiche e spirituali più innate. Da questo dipende la nostra capacità di reazione agli eventi traumatici, al recuperare energie per esempio dopo una malattia, all’essere resilienti di fronte alle difficoltà quotidiane ed essere costanti nel portare avanti un progetto importante. Le nostre riserve di energia dipendono dal Principio dell’Acqua e quindi dalle nostre energie ancestrali.

In tutte le culture l’acqua assume significati differenti. Quasi tutti i riti religiosi prevedono l’uso dell’acqua come fonte di purificazione e cambiamento. L’acqua è spesso vista anche come difficoltà da superare, ostacolo da vincere e quindi torna il suo stretto legame con il senso della paura.

In molte filosofie orientali l’acqua, soprattutto se in grandi quantità, è paragonata alle profondità della nostra mente. La nostra mente per quanto visibile è insondabile proprio come le profondità oceaniche e nella maggior parte dei casi impenetrabile. Allo stesso modo nel nostro corpo l’acqua ha una funzione di rilievo, scorrendo in ogni parte di esso e allo stesso modo venendo assorbita se immersi nell’acqua stessa. Gli influssi del sole e della luna vengono percepiti dal nostro corpo proprio per la forte presenza di acqua in esso.

Siamo piccole gocce in un mare vastissimo e proprio come gli oceani possono inghiottire anche le navi più tecnologicamente avanzate, le piccole imbarcazioni della nostra mente possono essere travolte e spazzate via dalle acque profonde della psiche umana. E allo stesso modo i moti dei flutti sono i moti della psiche che si alternano in noi creando ciò che siamo e ciò che vorremmo diventare.

Se gli oceani e i mari li possiamo identificare con la nostra mente, l’acqua dei fiumi rappresenta lo scorrere del tempo, il cambiamento continuo, con le piene travolgenti, l’infiltrarsi come manifestazione della voglia di costruire o arrivare a degli obiettivi. La vita come un fiume d’acqua può scorrere serena, impetuosa, tumultuosa o essere un piccolo rigagnolo che risente della siccità e lascia sul terreno solo una debole traccia del suo passaggio. Allo stesso modo l’acqua del fiume, scendendo a valle ci insegna a scorrere, a guardare sempre verso il futuro, all’impossibilità di cambiare gli eventi passati, a non poter mai risalire fino alla nostra fonte pur mantenendone viva la memoria e ricercandola costantemente per tutto il nostro esistere.

Ogni cultura è permeata di mitologici fiumi che segnano confini da non superare o che ritirandosi formano terre paradisiache e altre devastate dal nulla: esistono fiumi che hanno una sacralità storica come il Nilo o il Gange il cui significato va ben oltre l’elemento fisico dell’acqua. Spesso permettere l’attraversamento di un fiume significa unire terre vicine in un’unica economia dando opportunità di scambi e conoscenze, ma può anche significare, come il Caronte della mitologia greca, essere trasportati dalla vita alla morte. Nella vita l’uomo segue il flusso dei fiumi, a volte li devìa, li frena per utilizzarne la potenza delle acque, ma alla fine, per quanto possa dimostrarsi potente verso la natura stessa, proprio come il fiume anche lui viene trasportato al mare dell’infinito, l’aldilà sconosciuto che tanto teme.

Esistono anche “mari” di difficoltà da affrontare tutti i giorni: acque più o meno sicure delle quali non conosciamo né i fondali né le correnti e che temiamo per il loro mostrarsi in un modo e l’essere in un altro. L’insegnamento biblico di Mosè che attraversa il Mar Rosso è emblematico di questi casi e pone l’uomo tra leggenda, fede e realtà. Mosè è l’uomo che sa osservare l’evolversi degli eventi naturali e gestire anche l’imprevedibilità delle acque trovando il punto e il momento adatto per il passaggio sicuro.

Un’altra superficie d’acqua che crea motivi di riflessione è il lago. Apparentemente quieto sulla sua superficie riflette il paesaggio circostante confondendo la nostra vista tra reale e irreale e imponendo al nostro cervello la fatica del dover distinguere il vero dal falso, il reale da ciò che è riflesso, ma identico al reale. La linea di separazione è sottile, così come lo è nella realtà di tutti i giorni dove spesso le cose reali ci appaiono riflesse e adulterate da pensieri, emozioni, concetti e valori culturali. Il lago poi rappresenta la necessità di ricevere continuamente perché proprio come l’uomo dà continuamente agli altri, ma ha la necessità di ricevere continue energie. Quando queste energie scarseggiano il livello scende o al contrario se sono in eccesso tracima; così l’uomo che ha troppe energie rischia di autodistruggersi e, al contrario, chi non ne ha finisce con il chiudersi in se stesso e deprimersi.

E così nuovamente l’acqua che ci circonda entra in simbiosi perfetta con l’acqua dentro di noi. Un circolo vizioso e virtuoso allo stesso tempo dove l’egoismo dell’avere e ricevere si bilancia con l’altruismo e con il piacere del dare. Questo equilibrio instabile che fa stare bene solo quando è gestito in maniera armoniosa, ci insegna il senso del dovere prima di tutto verso noi stessi: il dovere di avere cura di noi, delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti in modo che tutto accresca e faciliti le nostre energie per aiutarci a crescere, a vivere pienamente il presente evitando il mero sopravvivere a persone e situazioni.

E l’acqua scorre trasformandosi in neve ai primi freddi come noi ci raggeliamo di fronte alle paure e tremanti non riusciamo a ritrovare il nostro flusso vitale diventando rigidi e intransigenti verso gli altri e verso i fatti della vita.

Siamo sempre acqua: diventiamo ghiaccio impedendo ai nostri sentimenti di fluire perché terrorizzati di vivere, ci trasformiamo in pioggia, annullando noi stessi fino a evaporare per essere rigeneratori a nostra volta per altri, o diventiamo vortice che aspira tutto, anche noi stessi, verso il fondo; oppure diventiamo una cascata in piena travolgendo e sconvolgendo ogni cosa al nostro passaggio, irrompiamo e distruggiamo con tutta la nostra forza prorompente e dirompente. Acqua che vive in noi e intorno a noi e senza la quale non potremmo esistere e che qualche volta è talmente tanta da costringerci ad elevarci sopra essa costringendoci e vedere il mondo con altre prospettive per non esserne travolti.

Se l’acqua che ci rigenera a ogni sorso e ci ristora vive in noi siamo pronti ad affrontare il buio e la paura: vescica e rene ci aiuteranno in questa prova.

 

Vescica, Rene, Urina

La vescica come i reni, in medicina tradizionale cinese, sono associati all’inverno. La prima ha il compito di rilasciare l’urina, il prodotto finale della trasformazione energetica. I secondi controllano la composizione e la secrezione dei liquidi organici da cui dipende tutta l’energia vitale e le difese contro gli stress. Inoltre regolano il tasso di acidità, la quantità di tossine, controllano le ghiandole surrenali.

Vescica e reni sono una coppia perfetta non solo per il corpo umano ma anche per la bioenergetica e la psicosomatica.

Quando parliamo di questi organi ci troviamo di fronte alla fase finale della lavorazione dei liquidi. E, come un fiume che scorre, vescica e rene espellono i liquidi che non servono più al nostro corpo trascinandone all’esterno i detriti inutili che in psicosomatica vengono identificati con i vecchi ricordi che non vogliamo trattenere, gli schemi che vorremmo affrontare e cambiare, la voglia di rinnovarci e cambiare che è innata nell’uomo, ma che per esigenze antropologiche spesso freniamo o addirittura blocchiamo.

L’urina, il prodotto di scarto di reni e vescica, un tempo aveva un significato magico e potente ed utilizzata in molte pozioni. Oggi la chimica la utilizza, trattata e trasformata, in molti prodotti di bellezza, per la pulizia della pelle o per altri trattamenti estetici. Già nell’antichità, in assenza del sapone veniva utilizzata per molti usi tra cui anche come ingrediente per lo sbiancante dei denti. Nella concia delle pelli era e, in alcune parte del mondo, viene ancora utilizzata come fissante naturale dei colori.

Nell’antica Persia e in India, l’urina delle mucche era considerata sacra e veniva utilizzata nelle cerimonie religiose per consacrare sacerdoti e dare buon auspicio ai re in quanto si riteneva ripulisse dalle impurità dell’anima e del corpo.

Si giunge poi alle epoche della stregoneria medievale occidentale dove, essendo l’elemento di scarto legato a una persona poteva creare, attraverso riti magici e credenze popolari, legami stretti con la persona stessa fino a fungere da afrodisiaco o provocare, al contrario, l’impotenza.

Gli alchimisti si sono sempre interessati all’urina, forse per il suo colore che richiama l’oro, poteva essere l’elemento di congiunzione per la sua creazione da altri elementi meno nobili e soprattutto più a buon mercato e facilmente reperibili.

Jung nei suoi studi era arrivato a pensare che fosse elemento di consapevolezza dei nostri impulsi e istinti primordiali.

In ogni caso, che segni il territorio, come fanno molti mammiferi maschi, che sia elemento di trasformazione come pensavano gli antichi, l’urina è e rimane in psicosomatica un elemento determinante legato agli affetti, alle passioni e anche alla capacità di imporsi agli altri. La classica “gara di piscio” (perdonate l’essere troppo diretto) di cameratesca memoria altro non è che una di queste dimostrazioni che si oppone al “pisciarsi sotto” dove indica la paura di affrontare determinate difficoltà. C’è poi un’altra tipica dimostrazione di superiorità spesso citata anche nei codici dei samurai che è quella di urinare sul nemico sottomesso che non vuole riconoscere l’autorità dell’altro.

Comunque sia l’equilibrio Yin/Yang passa attraverso i reni. Per le filosofie orientali è l’energia dei reni a creare la forza vitale della riproduzione, a vincere le rigidità della vita, a dare gioia nella severità, a costruire un sano rigore senza spezzare i desideri futili, a improntare il senso di decisione e, soprattutto attraverso la capacità di ascolto, a gestire la paura.

 

Paura e paure

La paura è spesso preceduta da stupore. Gli occhi e la bocca si spalancano, le sopracciglia si alzano. L’uomo spaventato sta dapprima immobile e senza respirare come una statua, oppure s’accoccola istintivamente come per sottrarsi alla vista del suo nemico. Il cuore batte a colpi precipitosi e violenti, la pelle impallidisce come all’inizio di una sincope. Nei casi di intenso spavento si produce una traspirazione sorprendente; questo fenomeno è tanto più rilevante perché in quel momento la superficie cutanea è fredda, da cui il termine popolare di “sudori freddi”, inoltre i peli si rizzano e dei brividi percorrono i muscoli superficiali. Nello stesso tempo in cui la circolazione si altera, la respirazione precipita. Le ghiandole salivari funzionano in modo imperfetto: la bocca diventa asciutta e si apre e chiude spesso. Ho anche notato che in situazioni di leggera paura vi è la tendenza a sbadigliare(Darwin)

Tra tutte le emozioni la paura è quella che nell’uomo innesca i comportamenti di difesa e, secondo i neuroscienziati, si attivano indipendentemente dalla volontà della persona stessa. Tutti i professionisti della salute sono concordi nel dire che le paure s’instaurano in fretta, ma per poterle rimuovere serve moltissimo tempo e, spesso, tanta difficoltà. Alcuni psicoterapeuti mi dicevano di loro pazienti che per anni erano riusciti a mitigare e convivere con le loro paure, ma che in situazioni stressanti queste riemergevano con tutta la loro forza devastante distruggendo spesso anni di duro lavoro terapeutico.

I neuroscienziati ci dicono che bastano solo 12 millesimi di secondo affinché la paura si manifesti. A questo punto giocano un ruolo fondamentale tutti gli organi di senso che devono qualificare l’oggetto o la situazione che genera la paura e lo cataloghino in modo adeguato. Il secondo processo, più lento, si aggira intorno ai 40 millesimi di secondo e dopo le dovute classificazioni sulla base delle esperienze acquisite dice al nostro cervello se dobbiamo avere paura o no.

Com’è ben comprensibile, in questa situazione, la memorizzazione degli eventi e degli stimoli che possono provocare la paura gioca un ruolo fondamentale. E anche in questo caso le vie sono due: la prima legata alle esperienze attraverso ricordi coscienti, la seconda, fuori dalla coscienza, che controlla i comportamenti senza una vera e propria consapevolezza di come siano stati appresi. I primi ricordi possono essere descritti, i secondi sono impliciti e difficilmente descrivibili.

In entrambi i casi è fondamentale tenere ben presenti tutti i processi di apprendimento, sia quelli istintivi che quelli “mediati”.

Nel primo caso, fin da bambino l’uomo si spinge a imparare per processi diretti, immagazzinando “sulla sua pelle” ciò che gli piace da ciò che può danneggiarlo. Innegabile che con questi processi di apprendimento comincino anche alcune paure, soprattutto dell’ignoto. Le paure aumentano con i processi “mediati” dove l’adulto insegna al bambino di cosa avere paura e di cosa non averla. Se in molti casi alcune paure possono essere motivate, in altri si rivelano “personali” e non è detto che debbano essere comuni. Se per esempio un adulto teme i serpenti non è detto che il bambino debba provare la stessa paura: difficile spiegare in questi casi la differenza tra mostrare “attenzione” e provare “paura” vera e propria.

Da adulti, la paura, è un’esperienza che si sperimenta nella quotidianità. Spesso è il campanello di allarme che segnala un pericolo da evitare, ma è anche vista come un evento da rifuggire a priori non considerando il fatto che, in molti casi, l’avere paura significa sapersi ritrarre dal pericolo al momento opportuno.

Il mondo della psicosomatica indica le varie paure come un percorso complesso che aiuta le persone a relazionarsi con ambienti, persone, oggetti e situazioni e, attraverso la selezioni di informazioni/esperienze, contenere i rischi. Ciò vale per circostanze manifeste come guerre o incontri pericolosi, ma anche per decisioni importanti da prendere soprattutto quando le conseguenze del proprio agire possono determinare effetti importanti.

Per questo imparare a conoscere le proprie paure è fondamentale e determinante nella creazione del coraggio e soprattutto del senso di responsabilità personale e di gruppo. Sempre grazie a questo processo di conoscenza è possibile variare il “metro della paura” sulla base della nostra capacità di assuefazione: per esempio un militare in battaglia ha paura, ma è stato addestrato a contenerla, gestirla e utilizzarla come “molla di reazione” per salvaguardare la propria sopravvivenza. Allo stesso modo, per esempio un chirurgo alle prime armi ha paura di commettere errori e perdere il paziente: in una prima fase è proprio la paura a permettergli di elevare il grado di attenzione, ma quando subentra l’esperienza sarà questa a modulare il grado di paura pur mantenendo l’attenzione molto alta.

Secondo i neuroscienziati e la psicosomatica, i metri di misura dei gradi di paura, attraverso la consapevolezza e l’esperienza, si basano su cinque aspetti. È attraverso questi cinque aspetti che la persona fa una valutazione della minaccia che sta subendo, dimostrando nuovamente che non è tanto importante l’evento in sé che si sta vivendo, ma l’autovalutazione che la persona dà all’evento stesso nel momento in cui si manifesta.

Il primo grado è la “novità dell’evento”: significa sperimentare per la prima volta una determinata sensazione senza conoscere le conseguenze del nostro operato. Se in montagna dovessi incontrare una vipera pronta ad attaccarmi come potrei reagire? Fuga? Reazione di attacco/difesa? Blocco totale? Le reazioni possono essere infinite e non sempre si possono verificare sulla base degli insegnamenti ricevuti (non è da tutti i giorni incontrare una vipera). Un secondo aspetto è comprendere se l’evento è “piacevole” o “spiacevole”: l’organismo valuta se tale esperienza che sta vivendo è in realtà piacevole o no e, deducendone le normali conseguenze, stabilisce la reazione da attuare.

Il terzo aspetto è legato “all’utilità dell’esperienza” rispetto ai propri fabbisogni generali: ciò che la persona prova in quel momento viene vagliata come un’esperienza utile oppure no, se aiuta o meno a raggiungere gli scopi prefissati o se, al contrario, allontana o ne complica il percorso.

Quarto aspetto è quello della “gestibilità dell’esperienza” e la capacità o facilità della persona a gestire la situazione stessa. Più che negli altri quattro gradi, qui è l’esperienza precedentemente acquisita a farla da padrona e ad indicare alla persona stessa se sarà più o meno in grado di superare quella prova.

L’ultimo grado è quello “sociale”, inteso come insieme di norme, principi, credenze e aspetti culturali: molte esperienze e i relativi pericoli insiti in esse vengono allontanati o addirittura evitati proprio sulla base di norme comportamentali acquisite, o, al contrario, ricercati per appagare nella persona il gusto della novità o del proibito.

Che si tratta di qualcosa di innato, razionale o inconscio tutti dobbiamo fare i conti con la paura ed è proprio attraverso questa esperienza che l’uomo può crescere interiormente pianificando e attivando strategie atte a superare o gestirla. Non riconoscere le proprie paure è spesso un problema così come volerle evitare e non volerle superare. Soprattutto perché, tenendo conto degli insegnamenti dei maestri orientali di riflessologia, queste paure creano notevoli blocchi soprattutto nelle zone renali, e dell’apparato uro-genitale in genere.

 

Paure e sistema urinario

Quando le paure di affrontare la vita si scontrano con le nostre convinzioni profonde di come dovrebbe essere vissuta la nostra esistenza si creano tensioni inimmaginabili. La psicosomatica ci insegna che in queste situazioni sorgono malattie molto resistenti che, nel lungo periodo, provocano danni indelebili.

Ciò in cui crediamo sono le “fondamenta” su cui costruiamo tutta la nostra esistenza: ogni volta che queste fondamenta vengono minacciate diventiamo resistenti al cambiamento e con questa reazione di irrigidimento sottoponiamo il nostro corpo e la nostra anima a sforzi atroci: tutto diventa più difficile e, dalle relazioni familiari a quelle esterne e professionali, la soluzione immediata è di vivere la realtà come una sorta di palcoscenico sul quale recitare una parte. Questo è il modo più facile per mascherare le paure e non volerle superare; resta il fatto che, secondo i riflessologi, visto che le paure non vengono risolte ma solo accantonate non potranno che aumentare insieme ai disagi prima, e delle malattie dopo, che si verranno a sviluppare e a manifestare.

I problemi legati al sistema uro-genitale esprimono tutte le paure più profonde e ci indicano non solo come siamo refrattari al cambiamento, ma anche quanto siamo ostinati, insicuri e poco inclini al dialogo aperto e alla relazione.

Regole ferree alle quali dobbiamo sottostare senza discussione, stili di vita privi di dialogo o una misurazione di qualsivoglia natura con altre culture, religioni, modi di pensare ecc. non produce altro che persone paurose. A volte queste paure, in determinati contesti culturali, sono autoindotte e costruite proprio per impedire alle persone di riflettere, verificare e verificarsi, di pensare in modo autonomo senza schemi prefissati, di trovare soluzioni pratiche al di fuori della realtà proposta abitualmente.

Sono paure viscerali che nella mente dell’uomo producono sudditanza e che non permettono nessun spazio di azione. L’esito propone individui facilmente malleabili e soprattutto incapaci di affrontare in modo autonomo la realtà per cui tenderanno per tutta l’esistenza a rinchiudersi e a evitare molte esperienze proprio per non viverle.

Malattie renali, calcolosi, cistiti e malattie vescicali rappresentano in riflessologia il segnale di paure recondite ed inespresse che sono state male gestite e trattenute per tempi lunghissimi.

Nella riflessologia psicosomatica queste paure vengono “immagazzinate” soprattutto nelle più basse zone lombari proprio dove tutto il peso del corpo deve essere sostenuto e da dove potrebbero essere spostate attraverso l’uso delle gambe per “andare oltre”, ma se questo meccanismo è bloccato la persona è costretta ad una staticità e rigidità sempre più profonda.

A volte basta ripensare a questi blocchi, spesso causati nell’infanzia, per una rimozione di tipo psicologico e, in questo le psicoterapie classiche sono di certo molto efficaci. Sul piano fisico la riflessologia può essere un valido ausilio per lenire il dolore, prendere consapevolezza dei percorsi mentali e fisici da intraprendere e soprattutto realizzare quanto sia importante gestire e non reprimere le emozioni.

 

Conclusione

Come negli altri miei interventi anche questa volta sottolineo che la riflessologia può essere un valido supporto e che può dare risultati eccellenti se inserita in un piano strategico di lavoro di squadra tra svariati professionisti. Soprattutto non deve sostituirsi mai ad alcuna forma terapeutica in quanto tale proprio perché va a lavorare su aspetti emozionali legati al benessere e al senso di rilassamento profondo che possono produrre maggiore autostima e aiutare ad affrontare l’esistenza in modo diverso.

Una parte certamente importante è giocata dal professionista che applica la riflessologia sul proprio assistito: l’intenzione, come da insegnamenti dei maestri e come ho già avuto modo di evidenziare, è fondamentale, ma non basta. Il riflessologo deve lasciare fuori dalla porta le paure personali, ansie e preoccupazioni per concentrarsi in modo positivo, propositivo e soprattutto proattivo con il suo assistito.

Le paure su cui dovrà lavorare e che dovrà aiutare a rimuovere con il suo operato spesso non saranno di tipo “adulto”. Lo stress e l’ansia prodotti dalla società moderna sono solo la punta dell’iceberg e, avendo radici più profonde, prevedono un lavoro più sensibile e allo stesso tempo delicato.

L’osservanza delle regole a cui siamo stati chiamati fin da piccoli a sua volta diventa metro di misura della nostra rigidità o flessibilità verso il mondo interno ed esterno determinando anche, secondo le filosofie orientali, la nostra predisposizione ad ammalarci, a reagire alla malattia o a guarire da essa. Questi sono aspetti della persona molto delicati perché vanno a scontrarsi con fattori antropologici antichi, ereditari per via culturale e quindi difficilmente rimovibili.

Il professionista riflessologo quindi non deve intaccare questi sistemi, ma anzi rispettarli anche quando non li condivide; il suo scopo è aiutare la persona a ritrovare il benessere mostrando e dimostrando con delicatezza i percorsi che possono essere intrapresi e soprattutto evidenziando che questi possono essere solo bagaglio personale del proprio assistito e che quindi devono partire come sempre dal “sé”.

Succede spesso che dopo una fase di profondo rilassamento molte paure riemergano e non vengano del tutto rimosse: è bene in questi casi intervenire con altre professionalità più adatte o farsi suggerire il modo più serio con cui operare.

Sotto il profilo più tecnico lavorare le zone relative ai reni e all’apparato uro-genitale si rivela spesso doloroso, soprattutto nelle prime sedute e quindi è bene aiutare il proprio assistito a capire che per rilassarsi bisogna lasciare andare molte delle proprie convinzioni limitanti e anche le “maschere” che in sala di consultazione non solo non servono, ma impediscono a chi deve operare di poter svolgere bene la sua missione.

Come sempre non esiste una cura per tutto e soprattutto è indispensabile lavorare su ogni singola persona come un mondo a sé stante, evitando tutte le forme di generalizzazione e le proprie convinzioni e credenze che potrebbero scontrarsi con quelle del proprio assistito. Quindi è forse bene ricordare e ricordarci che la spiritualità più profonda e libera passa attraverso l’esempio e la vita pratica piuttosto che mille bei discorsi che possono rimanere inascoltati.

*Counselor, Counselor Olistico, esperto di processi formativi esperienziali e discipline bionaturali, www.formazionezero.blogspot.it

 

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