Il camice strappato: il medico occidentale tra modello disease centred e patient centred

Angelo Ciotta*

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Il modo di affrontare la malattia e il malato in Occidente ha creato una sorta di scisma, di rottura nell’approccio alla persona che si esprime in due modelli clinici antitetici: il modello clinico disease centred e il modello clinico patient centred. Questi due approcci sono a loro volta l’espressione pratica dei modelli teorici della E.B.M. (Evidence Based Medicine) e della C.P.M. (Centred Patient Medicine).

Negli ultimi anni si è assistito ad una metamorfosi degli attori del binomio medico-paziente: da un lato la figura e l’identità del medico è cambiata, come cambiata risulta essere la funzione stessa dell’ospedale nella gestione e tutela della salute dei paesi occidentali, costretti a intervenire per frenare la crescente spesa sanitaria. Non meraviglia, pertanto, che, oggi, appaia desueto il termine ospedale per designare il luogo di cura per eccellenza mentre si preferisca, ritenendolo più appropriato, quello di azienda ospedaliera. Dall’altro il paziente lascia il posto alla figura dell’utente-cliente (mutuata dal mondo dell’economia).

In questo scenario economico l’azienda non può che offrire un “pacchetto di servizi” cui si può accedere e di cui si può fruire al fine di garantire, nel rispetto della dignità della persona, il raggiungimento degli scopi aziendali magari con un bilancio economico in positivo. La salute diventa un bene di consumo al pari di qualsiasi altra merce con produttori e consumatori, rispettando le fredde leggi del mercato. Più correttamente gli autori anglosassoni parlano di disease mongering (letteralmente mercificazione, commercializzazione della malattia). Con questo termine si indica la messa in vendita di disturbi che allargano la linea di confine tra malattia e salute al fine di ampliare il mercato per il business delle industrie che vendono il prodotto farmacologico appropriato. E sia il medico che il paziente oggi si trovano ciascuno per la sua parte nelle mani dell’industria farmaceutica che per ovvi motivi di economia aziendale pensa più al bene malattia che al bene salute essendo la prima più redditizia della seconda.

A seguito di tali trasformazioni culturali si è passato dal paradigma bioetico e deontologico della medicina paternalistica, con tutti i limiti che la caratterizzavano, ad un modello aberrante del rapporto medico-paziente: la medicina difensiva, frutto di una frattura profonda dell’essere del medico.

La crisi del rapporto medico-paziente è diventata, ormai, consolidata realtà, oggetto di dibattito epistemologico e filosofico sul presente e sul futuro della medicina, dopo decenni di silenzio sulla scienza medica, che sembrava ormai confinata ad un pur rispettabilissimo ruolo di semplice e mera prassi, sempre più tecnologizzata e disumanizzata. Pertanto il medico è diventato, nell’opinione corrente, con propria e senza propria colpa, un tecnocrate supposto infallibile e per questo irrimediabilmente e inevitabilmente colpevole in caso di errore. A complicare i rapporti gli orientamenti giurisprudenziali che, sempre più spesso, giudicano il rapporto medico-paziente come una forma di contratto da cui deriva un’obbligazione di risultati oltre che di mezzi.

Il progresso tecnologico e il continuo rinnovarsi e perfezionarsi delle conoscenze hanno fatto accrescere la stratificazione del sapere medico e hanno sostituito molte certezze che si sono dimostrate vane, con nuove certezze ritenute, spesso a torto, definitive che hanno rapidamente reso desuete le conoscenze acquisite.

La massa e la qualità delle conoscenze si sono estese e approfondite a tal punto da non consentirne il critico possesso e da non potere essere contenute dagli strumenti tradizionali di conservazione e diffusione della conoscenza.

Da più parti si sente dire che la medicina è in crisi. La tecnicizzazione (forse eccessiva), i tempi sempre più ridotti per i malati, la burocrazia asfissiante hanno sicuramente intaccato le sue radici ontologiche tanto da invitare a cercare strategie efficaci ed adeguate per arginare i danni. Ma al di là di queste cause che si possono definire esterne, sembra plausibile indicare il motivo di tale crisi nello stesso impianto concettuale della medicina. Posta in un incrocio che ne fa un ibrido di scienza e arte, la natura della medicina, appare, infatti fin dalle prime origini immersa in una situazione difficile: obbedire al telos intrinseco della disciplina per cui è fondamentale trattare il proprio oggetto di studio interamente come oggetto, al fine di garantirne la scientificità e l’attendibilità dei risultati e nel contempo rendersi conto che quello che si ha di fronte non è corpo tra i corpi, non è materia vivente tra le altre, ma un soggetto, una persona, metafora viva che si incarna in un vissuto esistenziale unico e irripetibile, che si manifesta come uomo ferito. D’altro canto la medicina rappresenta l’unica scienza che ha per oggetto un soggetto. Ma allora come si possono conciliare queste due realtà? Forse l’unica soluzione è tenere viva la dimensione della lotta e del conflitto anziché tentare a tutti costi di trovare un punto d’incontro. Nei termini specifici del rapporto medico-paziente questo significa mantenere la tensione dialettica tra il desiderio di sapere sempre di più sulla patologia e il dovere di rispondere alla domanda di aiuto, anche quando non ci sia più alcuna possibilità di guarire come nel caso della fase terminale di malattia. In questa prospettiva l’essenza dell’essere malati è piuttosto uno stato di bisogno e si esprime come richiesta di aiuto. Bellissima e commovente la definizione che da Weizsacker di malato e medico: “Definisco malato colui che mi chiama come medico e in cui come medico riconosco lo stato di bisogno”. Il prius dell’atto medico, dunque, non è quello di astrarre dal contesto e decodificare i dati raccolti attraverso l’esame, né tantomeno immedesimarsi nel vissuto altrui, ma chiedere offrendo disponibilità. La medicina dovrebbe aprirsi a una concezione che superi il meccanicismo di matrice illuminista e il tecnicismo attraverso l’intersoggettività con lo strumento principe dell’empatia.

Purtroppo, questo paradigma di etica medica resta ancora inascoltato. La medicina dei nostri giorni, fondata sulla dissociazione progressiva della malattia dal malato, tende infatti a definire il malato in funzione della malattia. A dimostrazione di quanto affermato, basti pensare al largo seguito (si potrebbe dire plebiscitario e universale) dell’E.B.M. Ciò significa che il malato è trattato più come oggetto che come soggetto della sua malattia. Insomma una sorta di doppio vincolo contradditorio che irretisce e mortifica il paziente.

Con questo nessuno, tuttavia, osa negare la rilevanza della E.B.M. e le conseguenze benefiche che ha avuto nella pratica medica. Essa, infatti è diventata uno strumento di conoscenza importante ma nella misura in cui assolutizza il dato empirico-clinico-osservazionale espone a rischi onerosi. Primo fra tutti la nascita della medicina dei protocolli e delle linee guida, figlia della medicina difensiva: i malati vengono curati in funzione del morbo che li affligge, vengono categorizzati per affezione, omogeneizzati in un unicum indifferenziato che non tiene conto del vissuto, della personalità, del carattere e di tutte le variabili personali che rendono unico e originale il singolo malato. Esiste, pertanto, il “paziente medio” con le sue connotazioni statisticamente più ricorrenti e che lo definiscono. In tal caso, quando la risposta che il medico si aspetta non corrisponde a ciò che nel malato si verifica o a ciò che il medico ha schematizzato e inquadrato nella sua mente, può accadere che il malato venga etichettato come “strano”, la malattia inquadrata come “essenziale” o “idiopatica” o in alcuni casi “psicosomatica” o “stress-related” e che la relazione terapeutica sia bruscamente interrotta togliendo al medico stesso la possibilità di approfondimento, di indagine e di ricerca. Tale metodo appare, inoltre, tanto più ingenuo quanto più si considera che la presunta oggettività ed evidenza con la quale si accoglie il dato statistico è in realtà frutto di una scelta soggettiva o intersoggettiva la quale per sua natura non può avere valore assoluto: se si pensa ai grandi trials si deve sempre ricordare che la metodologia è sempre frutto di una scelta che ha definito dei criteri elaborati da uomini.

E ancora, uno studio metodologicamente corretto ha bisogno di grandi numeri (difficilmente reperibili), se si vogliono soddisfare statisticamente criteri di omogeneità e scientificità. E questo tanto più quanto maggiormente la comparazione riguarda gruppi di pazienti provenienti da diversi paesi. Quindi la statistica, elemento fondante della E.B.M. ne rappresenta paradossalmente uno dei limiti principali.

Negli anni la medicina basata sulle evidenze ha trovato la sua massima espressione e attuazione nel modello biomedico (detto anche modello disease centred o modello tradizionale) di cui la biologia molecolare rappresenta la disciplina scientifica fondante.

Tale modello sostiene che la medicina si debba occupare delle malattie: perciò si parla di modello disease centred, centrato sulla malattia. La definizione di “malattia”, oggetto centrale del modello biomedico, si esprime integralmente ed esaurientemente in un’alterazione della norma di variabili biologiche, somatiche e, soprattutto, misurabili. Al medico come principale attore della pratica medica, è affidato il compito di definire la presenza di una patologia nei malati, tramite una diagnosi corretta e di intervenire attraverso delle strategie terapeutiche che sono validate dalle evidenze scientifiche. Tale modello è stato, ed è tutt’ora, quello più diffuso e apparentemente vincente. È un fatto storico che nella società occidentale contemporanea il modello biomedico non solo abbia costituito una base per lo studio scientifico delle malattie e per il trattamento delle stesse ma è diventato l’unica possibile modalità di affrontare la malattia nella nostra cultura, è divenuto il modello “popolare” e condiviso di approccio alla malattia e alla salute. Esso è così profondamente penetrato nella nostra cultura da rendere difficile pensarlo come un modello: come dire ovvio che compito del medico sia quello di diagnosticare una patologia e trattarla e che l’unico modo di affrontare le malattie sia quello biologico. Questo spiega, in parte, le reticenze e le resistenze che la medicina cinese con le sue discipline e le altre pratiche mediche non occidentali hanno incontrato quanto non sono state fatte oggetto di insensati e irragionevoli attacchi dal mondo accademico e scientifico.

I primi consapevoli esempi di una medicina centrata sulla malattia possono infatti essere identificati proprio negli scritti di un clinico seicentesco inglese, Thomas Sydenham. In polemica con le vedute degli antichi e dei suoi contemporanei, che vedevano un legame indissolubile tra il paziente e il suo male, Sydenham affermava che la natura produce delle malattie agendo “con uniformità e costanza al punto che, per la stessa malattia in persone diverse, i sintomi sono per lo più gli stessi, e che si possono osservare fenomeni identici nel male di un Socrate o di uno sciocco”. E ancora: “Nella descrizione di una malattia bisogna distinguere i sintomi propri e costanti da quelli accidentali ed estranei. Chiamo accidentali quelli che dipendono dall’età, dal temperamento del malato e dal modo di trattare le malattie”. In Sydenham è chiara la distinzione tra il malato e la malattia e la considerazione di quest’ultima come cosa in sé, sulla quale deve focalizzarsi in modo esclusivo l’attenzione del buon medico.

Si tratta di una prospettiva nuova, di una concezione ontologica della natura del male, che finisce per prevalere su tutte le altre e che caratterizza anche oggi l’approccio del modello biomedico: la malattia che è cosa diversa dal malato e che è uguale in ogni malato.

Le novità e le conquiste della medicina fin dai primi dell’Ottocento, sono ben riassunte dal clinico francese René-Théophile Laennec, che così scrive: “Il costante scopo dei miei studi e delle mie ricerche è stata la soluzione dei tre seguenti problemi:

descrivere la malattia nel cadavere per quanto attiene agli stati alterati degli organi;

riconoscere nel corpo ancora in vita specifici segni fisici, per quanto possibile indipendentemente dai sintomi;

combattere la malattia con i mezzi che l’esperienza ha dimostrato essere i più efficaci”.

Qua è chiaramente esplicitata la mission della medicina odierna: descrivere la malattia come entità biologicamente intesa, riconoscerla tramite le sue manifestazioni corporee e, infine, combatterla.

A questa solida struttura del modello biomedico il Novecento non ha molto da aggiungere sul piano ontologico se non diffonderlo e radicarlo nel pensiero e nel ragionamento comune. Sul piano culturale tale secolo segna una linea dello spartiacque se si pensa al successo mediato dall’acquisizione della tecnologia diagnostica e della terapia farmacologica. Sul piano infine metodologico si apporta un’unica grande novità: l’introduzione del metodo sperimentale, attraverso il quale vengono confermate e oggettivate le acquisizioni della medicina. In particolare la dimostrazione dell’efficacia di un trattamento, qualunque esso sia, non passa più dall’esperienza del singolo ma deve fondarsi sulle prove scientifiche; una medicina basata sulla sperimentazione controlla il soggettivismo di chi è trattato e di chi cura, mentre la ripetibilità degli esperimenti fornisce una totale garanzia dell’affidabilità e dei trattamenti testati.

Attraverso questi passaggi (il radicamento nel dualismo cartesiano, l’ipotesi della realtà ontologica delle malattie, l’affermarsi dell’anatomia patologica, le scoperte della biologia e l’introduzione del disegno sperimentale) si giunge a grandi passi a ricostruire le fondamenta della medicina odierna e di quel modello disease centred che, almeno implicitamente, la caratterizza.

Si tratta di un modello rigorosamente biologico, fondato nella fisicità degli agenti patogeni, delle alterazioni d’organo o di tessuti, della farmacologia, un modello che si è fatto strada attraverso l’applicazione rigorosa del metodo scientifico. Esso identifica chiaramente l’oggetto del suo interesse, la malattia, e definisce tale oggetto come l’alterazione di precisi parametri biologici.

Il medico in questo modello deve raggiungere due scopi: in primis identificare e classificare la malattia attraverso i suoi segni e i suoi sintomi e, successivamente, utilizzando questa classificazione, contrapporre alla patologia una terapia (farmacologica e non) che scientificamente si è dimostrata efficace in precedenti trials controllati e randomizzati.