La visione unitaria ed il nesso “morte-nascita” come fattori di “senso” alle parole ultime

Riccardo Bosi *

* pediatra di famiglia. Affascinato dalla varietà delle culture e impegnato in situazioni di disagio dell’infanzia, crede in un approccio antropologico e inter-culturale alle sfide della sua professione – Roma

In molte culture “primitive” (termine peraltro di gran lunga superato dall’antropologia attuale:  Claude Lèvi-Strauss per primo dimostrò e sostenne che il “pensiero selvaggio” non è una forma di pensiero primitivo e semplificato, piuttosto una forma di pensiero diversa, ma non per questo meno sofisticata e utilizzabile) quando si arriva al momento della morte, la si trova profondamente legata al momento della nascita.

Forse perché il nascere è gravato – lo era ancora di più in passato – di un grande rischio, la mortalità infantile è alta, di fronte alla nascita è normale interrogarsi sul “mistero” del ciclo della vita.

 

Malinowski, ad esempio, autore di una delle più belle monografie etnografico- antropologiche (Gli argonauti del Pacifico occidentale, 1922) ci racconta che nelle isole Trobriand (Melanesia) i Trobriandesi di quell’epoca non dessero gran peso alla funzione riproduttiva e all’accoppiamento perché potesse avvenire una nascita (ricordo che i questo caso siamo negli anni ’20, e la ricerca di Malinowski si era rivolta ad una civiltà che ancora non aveva subito, o almeno non in grande stile, la “strage antropologica” che l’occidente ha poi continuato a compiere dopo).

La verità sostanziale per questa cultura era un’altra: che “ogni nascita, ogni nuova vita inizia con la morte di un altro individuo”. Il defunto si recherà a Tuma, un’isola dove condurrà una esistenza analoga a quella da vivo, ma assai più bella. Quando si sarà stancato il defunto tornerà bambino, si lascerà trasportare dalle onde del mare fino a che lo “spirito” di una futura madre lo vedrà, e lo deporrà nel grembo di quella donna. Per farlo rinascere.

 

L’etnia Tamil (minoranza dello Sri Lanka, in prevalenza induisti) una volta l’anno, il 27 novembre, celebra il giorno dei maaverar, e cioè “i grandi eroi”, caduti lottano per la libertà (ndr: nella guerra civile con la maggioranza cingalese, le tigri tamil).

Ciò che colpisce è che i corpi di tali eroi non vengono bruciati come accade di solito nell’induismo, ma sepolti. Ed esiste un luogo di sepoltura chiamato tuillam illam, “le case del sonno”: a differenza degli altri luoghi di sepoltura (brutti da vedere), questi sono giardini curatissimi, si può recarvi a qualsiasi ora, non ci si deve “purificare” dopo essere entrati, ma al contrario ci si deve lavare prima.

Alla base di questa eccezione alle regole c’è una metafora ufficialmente condivisa, molto forte: i maaverar non sono morti, ma dormono. E non si parla per loro di “sepoltura”, ma di “semina”. Dalla semina dei maaverar nasceranno altri eroi.

 

L’Africa è stata oggetto di numerose ricerche sul campo, ed è uno scrigno senza fine di spunti di riflessione in questo senso.

 

In Benin – ad esempio – nella tribù tangba il legame tra chi nasce e chi muore diventando antenato è molto forte. La morte è metaforicamente spiegata con esempio legato alla natura.

“Come il frutto che quando cade a terra lascia nuovi semi, e da vita a nuovi alberi” .

 

In altre culture africane si dice che “gli antenati producono bambini” o “li spingono a nascere”.

 

Anche in molti riti di passaggio, o riti “di iniziazione” è presente l’idea della morte.

Perché?

La vita è spesso esplicitamente considerata come un viaggio, ad esempio tra i Nande del Nord Kivu (ex-Zaire, oggi repubblica democratica del Congo) o tra i Bakonjo dell’Uganda, ed esistono delle soglie e dei passaggi.

Uno dei passaggi è quello appunto dei “riti di iniziazione” (cosiddetti antropoietici, definiti così  dall’antropologo Francesco Remotti, (e cioè capaci di “formare uomini”): passaggio con prove che prevedono scarificazioni, circoncisione, prove di coraggio di ogni tipo, allontanamento dalla famiglia per lunghi periodi.

Si tratta di passare da una forma di umanità ad un’altra. Si sperimenta una morte (lo stadio dell’infanzia) e una rinascita (l’essere diventati adulti: la maturità) che rende più uomini, che permette una forma di umanità riconosciuta più matura, più alta. Il risultato esperienziale è il prendere confidenza con la morte come un futuro rito di passaggio, naturale ed insito anch’esso nella realtà delle cose.

 

Non è dissimile da ciò che Tiziano Terzani racconta nel suo “Un altro giro di giostra”.

Si era recato negli Stati Uniti per curarsi del suo tumore. Più volte i medici gli avevano spiegato le ragioni di quel suo tumore, le possibilità in percentuale di guarigione, il perché e il per come si poteva combattere e superare il rischio del decesso. Ma – racconta Terzani, in buona sostanza – nessuno mi ha mai detto che si muore perché siamo nati! E perciò, perché averne paura? Morire è la cosa che hanno fatto tutti!

 

Per il popolo Bangwa  – è Martin Nkafu che spiega alcuni concetti di antropologia africana nel suo libro Il pensare africano come vitalogia – è molto forte l’idea di immortalità. Niente può distruggere la vita umana, e tutta la vita è un circolo eterno. Come il ritmo delle stagioni. Come l’alternanza tra pioggia e siccità.

La vita comincia dalla nascita, poi c’è la pubertà, l’iniziazione, il matrimonio, la procreazione, la vecchiaia ed infine la morte, da considerare come l’entrata del defunto nella comunità degli antenati. Comunità percepita come espressione di una reale vita:  “altra” ma reale, vera.

In sintesi – anche se sarebbero affascinanti anche i dettagli – si ritiene che la nascita e la morte non siano due eventi slegati e posti nel tempo come definiti, ma è un processo molto più graduale.

E soprattutto il confine tra la vita e la morte è più tenue.

 

La morte biologica non è considerata “la fine” della vita umana. La visione profondamente antropocentrica delle culture africane lega il concetto di immortalità al fatto che il defunto “vive” perché viene ricordato costantemente da parte dei parenti e degli amici con i quali ha condiviso una vita. Il suo nome è nei loro cuori per sempre! E finchè lo si ricorda esso “non è morto”, ma è un morto-vivente.

L’arco della vita dell’uomo, dal suo nascere alla morte, segue un passaggio dal sasa al zamani. Nella lingua Swahili – è lo storico Jonh S. Mbiti che lo spiega – il termine sasa da l’idea della immediatezza, della vicinanza e del futuro prossimo, mentre zamani è un futuro incerto, o anche un passato incerto. Se sasa è il micro-tempo, zamani  è il macro-tempo, dove si entra nel collettivo che collega tutte le cose.

È solo alla morte dell’ultima persona che lo conosceva che il defunto esaurisce il suo periodo sasa e il processo della morte giunge a completezza. I defunti però non scompaiono dall’orizzonte ottico di quella tribù, ma entrano nella memoria, e diventano appunto membri della comunità degli antenati, in una sorta di immortalità collettiva.

 

Tutto è un po’ più comprensibile se si pensa che per “tempo e spazio” si usa a volte la stessa parola, e ciò fa comprendere perché l’africano non ama allontanarsi dalla sua terra. Dalla terra dove riposano i suoi defunti. È la terra che da senso al suo vivere nella sua vita “personale” e del tenersi collegato al tutto spazio-temporale (zamani) in cui i suoi antenati sono già.

Una paura degli africani è quella di essere dimenticati, e d’altronde la condizione per rimanere nella memoria dei viventi è condurre una vita buona, virtuosa. Ci possono essere dei funerali dove si viene invitati a “dimenticare”, e così il defunto diventa  subito “mortale”. Al contrario il funerale di una persona buona e gradita sarà una festa, con danze e musiche le più belle che quella tribù possa esprimere. Anche in questo caso c’è una verità sostanziale condivisa che funziona come legante sociale.

È utile per comprendere la cultura (le culture) africana sapere che bantu è il plurale di muntu che significa uomo (essere umano). I Bantu sono una delle razze più numerose in Africa, lo Swahili è una delle lingue bantu, ad esempio).

Mentre il prefisso mu indica il singolare, ba indica il plurale. Uniti alla radice –untu si formano perciò due concetti distinti.

Per esprimere l’idea di “umanità” si usa sempre il plurale, ba-ntu, tanto che si parla di etnia, cultura bantu, ecc. Anche se (con l’accento finale sulla ù) tale parola  è stata  usata a sproposito grazie alla nostra folle ignoranza etnocentrica, il termine invece è profondissimo, e evoca e culmina nella concezione della comunità, del “noi” come centrale nella vita della persona, come cuore di questa cultura. Perciò non meraviglia il nesso tra la vita e la morte così come descritto, denso di significato e certamente utile per recuperare nella nostra società il senso del pensarci “umanità”.

 

Anche se sembra di essere in presenza del processo della reincarnazione contemplato nella cultura induista, buddhista (e non solo), negli esempi qui riportati il punto è un altro.

Non siamo in presenza dell’anima che, svincolata dal proprio corpo, trasmigra in un altro.

È piuttosto una sorta di legame di continuità tra ante-nati e neo-nati ad essere sottolineato.

In fondo mi piace sottolineare che il suffisso nati  è identico. “Ante” e “neo” dicono semplicemente la soggettiva variabile temporale rispetto a quel dato momento.

Il fatto è che nelle culture africane è diversa la percezione del tempo stesso. Più “circolare” e collettivo. Inoltre è fortissima la percezione di sé come “parte del tutto”.

 

Molta della cultura africana è nascosta, ma è sotto traccia nei proverbi.

Non dimentichiamo che la smania tutta occidentale (e non solo) di scrivere e descrivere ogni cosa può far perdere il gusto e il senso dell’oralità e della memoria, ancora forte nel continente africano.

I popoli africani hanno elaborato i proverbi a partire dall’osservazione e dall’esperienza e contengono un certo numero di affermazioni di fondo costituenti una sorta di “filosofia di base” su cui si basa la loro interpretazione del mondo e dell’uomo.

A questi si ricorre spesso specialmente con i bambini, oltre all’uso delle narrazioni. Nel caso della anzianità e della morte di una persona cara i proverbi sono di grande aiuto, e sono densi di humor e di poesia.

Io ti ho aiutato a farti spuntare i denti, tu aiutami a perdere i miei” si sentirà dire un ragazzo, e subito capirà senza troppe perifrasi il valore dell’assistenza agli anziani. E non solo perché l’anziano è possessore della sapienza per cui è prezioso ed importante, ma per il precedente concetto di circolarità della vita che lega il suo flusso in un unicum.

Di fronte alla morte leggete come è bella questa altra narrazione composta da detti proverbiali:

 

“La morte è un ventaglio che rinfresca tutti

La morte è un guado che tutti devono passare

La morte è la stuoia sulla quale tutti riposano

La morte è un vestito tradizionale nel quale tutti si avvolgono, prima o poi

La morte è un cibo che tutti mangiano”.

 

Una poesia del Senegal esprime un altro concetto, legato sempre alla visione “una” del cosmo e della vita.

 

I morti esistono, non sono mai partiti

sono nell’ombra che si illumina

e nell’ombra che scende nella profonda oscurità.

 

Sono nell’albero minaccioso

e nel bosco che geme.

Sono nell’acqua che scorre

sono nelle capanne,

sono nelle piroghe

 

I morti non sono morti.

 

( Birago Dipo, poeta senegalese)

 

Potemmo provare a concludere riprendendo un concetto detto prima, affermando cioè che forse solo “ripensandoci come bantu” potremmo dare significato profondo al periodo fine-vita nel nostro occidente.

Questo il contributo prezioso e fecondo che può venirci dalle culture “primitive” – dall’Africa in particolare – che avendo un sapere ancora vitale (vitalogico, come direbbe Nkafu per la cultura bangwa) e non frammentato, sanno spiegare e dare significato al passaggio ultimo ricorrendo alla nascita e agli altri passaggi-chiave della vita,

E una visione della vita come un Viaggio. E non si tratta – ripetiamo – di un processo mentale o  intellettuale, ma vitale.

Il problema resta in caso tutto nostro, visto che pur in presenza di una oggettiva crisi della nostra cultura – perciò un passaggio che richiamerebbe soluzioni collettive – ci ostiniamo invece a viverlo con la modalità mon-tu,  (“al singolare”) anzi esasperando l’individualità.

 

Per questo è suggestivo il nesso “nascita–morte”.

Ossimoro evidente e invece provocazione feconda! A patto di ritrovare senso e “pratiche” di passaggio di consegne tra generazioni. Rivisitare il rapporto nonni-nipoti, o “anziani-giovani” con ben altra attenzione. Ripensarci cioè “umanità una” anche sotto l’aspetto “tempo”.