Dea Madre e Confucianesimo: femminilità conflittuale in Vietnam


Alessandra Chiricosta*

Contributo per “ Ri-conoscer-si. Scuola Estiva della Differenza”, convegno organizzato dall’Università degli Studi di Lecce e dall’Università Roma Tre presso il convento delle Benedettine di Lecce, 11-15 settembre 2006.

Approssimarsi, aprirsi alla differenza, intraprendere un dialogo autentico, nel rispetto degli inter-locutori, significa creare un tempo ed uno spazio originali. Se l’originale è, al contempo, “nuovo” e “all’origine”, lo spazio –tempo che si apre in un dialogo autentico è una dimensione creativa, in cui ci si libera di pre-giudizi e ci si mette in discussione, un atto di amore fondato sul rispetto e sulla responsabilità reciproca. Creazione che mi pone in essere, rispondendo alla chiamata di quel “tu”, di quell’Altro che da sempre mi precede. Ma perché sia autentico, un dialogo si deve attuare in un gioco di interpretazioni reciproche, di ridefinizione delle proprie categorie concettuali, del proprio orizzonte di senso. L’interpretazione dialogica è, in atto, una sorta di “semiosi illimitata”: il “testo” tessuto nel dialogo è trama e ordito di carne, di vita, di sensibilità senziente, di passioni, di logica, di accettazione e di rifiuto. È un’interpretazione destinata ad essere sempre incompleta, fatta anche di silenzi, di negazione, di incomprensioni che, purtuttavia, mantengono viva l’Alterità, come necessaria presenza all’Identità.

Nell’approssimarsi, nell’interim della comunicazione, i due inter-locutori operano una decostruzione e ricostruzione di tipo ermeneutico, destrutturando quei pre-giudizi che si pongono “a monte” del dialogo (pur essendone prerequisito) e riconfigurando il senso nel e del dialogo grazie a quel “nuovo”, a quel di “originale” che si disvela “a valle”. Il pre-giudizio con cui mi accosto all’Altro è parte integrante di me: modificarlo significa sottopormi ad un’operazione violenta e traumatica, fonte di notevoli resistenze spesso infide e occulte.

E tanto più distante da me, in termini di senso, si pone il mio interlocutore, tanto più difficile e insidioso diviene l’approssimarsi: le sue parole sono solo echi lontani, mentre chiare ed evidenti sono le immagini che qualcun altro ha iconizzato per me.Ma quanto queste cristallizzazioni, che occupano il mio ingenuo immaginario, sono frutto di un autentico dialogo, e quante sono la disperata resistenza di una persona, di un gruppo, di una cultura autisticamente chiusa in un monologo?

La storia dei rapporti con l’Oriente è emblematica in tal senso: categoria “creata”, a detta di Edward Said, dalle culture europea e statunitense per poter definire se stesse, l’Oriente è stato da sempre ricettacolo di proiezioni funzionali ad un desiderio di dominio e di contrasto con ciò che si è autodefinito Occidente.

Nell’immaginario occidentale il Viet Nam riveste il ruolo di un paese piccolo ed arretrato che è riuscito nell’immane compito di liberarsi dal giogo del colonialismo e di contrapporsi vittoriosamente ad una delle potenze egemoni della contemporaneità. Il suo nome evoca giungle insidiose irte di combattenti nascosti, arse dal Napalm, culle di civiltà dedit ea culti di divinità oscure e sanguigne. E in termini femminili ci sono state proposte immagini di esili ma indomite combattenti, nascoste sotto cappelli a cono, curve nelle risaie (ma non per questo meno temibili), o seducenti prostitute in fumosi e sudati postriboli, geishe del sud pronte a compiacere gli invasori occidentali. Ma tutto questo è solo una piccolissima parte di ciò che una cultura millenaria ha da offrire alla nostra riflessione, una parte, tra l’altro, voluta e veicolata da una propaganda colonialista prima e di guerra poi, e prodotta da un pensiero etnocentrico, chiuso in se stesso e autocelebrantesi in un monologo.

E se l’Estremo Oriente e il Sud est asiatico rappresentano quell’Alterità culturale che sfugge sempre di più alle nostre griglie concettuali, e che sempre più ci si rende prossima, ma non per questo più intelligibile, proprio ora, e qui, in un luogo in cui ci si apre alla differenza, occorre mettersi in dialogo e ripensare in termini diversi proprio quelle immagini che una categorizzazione non critica ci hanno consegnato.

Il titolo di questo intervento chiama in causa un conflitto, ma non quello che l’Occidente ha strumentalmente iconizzato: si tratta di una guerra ben più subdola e lunga che la cultura vietnamita, e ancor di più le donne che in essa si sono formate, vittime, per la nostra prospettiva, di almeno un triplice livello di pregiudizi, hanno combattuto, e tuttora affrontano, con stigmatizzazioni culturali che ne hanno offeso e limitato la libertà, così come è accaduto, e continua ad accadere, in molte altre parti del mondo. Ma, a differenza che altrove, la resistenza vietnamita ha saputo dare frutti insperati e offrire, nei limiti, un orizzonte nuovo di riflessione.

Occorre innanzi tutto, vista la scarsa attenzione che fino ad oggi gli studi italiani hanno rivolto a questo paese, delineare brevemente il panorama religioso vietnamita. Si tratta di una realtà assai complessa e ricca, frutto dell’incontro delle maggiori culture dell’Oriente, fortemente sincretica e fertile: basti pensare che le più recenti religioni ufficialmente riconosciute (Caodaismo e Hoa Hảo) sono nate nella prima metà del 1900. Si parla, dunque, di millenni di tradizione religiosa, ancora oggi tenuta in gran conto nella vita quotidiana della popolazione.

Il territorio che costituisce l’attuale Vietnam ha ospitato tre differenti civiltà: la Viet al Nord, nel bacino del Fiume Rosso, fortemente influenzata dall’Impero Cinese; la Cham al centro e la Khmer a Sud, entrambe legate all’India; nonché le oltre 50 delle popolazioni definite oggi come minoranze etniche, presenti soprattutto nelle aree di confine. L’espansione del regno dei Viet, attraverso i secoli, ha determinato l’assimilazione dei regni del Centro-Sud, che hanno mantenuto, comunque, i propri tratti peculiari. Caratteristica della cultura vietnamita è, poi, di reinserire gli stimoli provenienti da altre culture nel tessuto organico della propria, riadattando e conciliando gli elementi di dissonanza. Così, nel tempo, alle religioni autoctone, incentrate sui diversi culti delle dee madri e degli elementi naturali, nonché degli eroi culturali di ogni singolo paese o villaggio (in quello che lo studioso Đoàn Lâm definisce come un sistema aperto e democratico, in cui si assumono al rango di divinità uomini e donne, giovani e vecchi, aristocratici e plebei, creature celesti e terrestri) si sono unite prima il Buddhismo – sia di scuola Theravada, proveniente dall’India, che di scuola Mahayana, proveniente dalla Cina – poi le religioni cinesi, a seguito dei dieci secoli di colonizzazione. Queste ultime si presentavano già potenzialmente legate in un pensiero unitario (consolidato, però, solo col neo-confucianesimo nel 1200 d.C.): Daoismo, Confucianesimo e la versione sinizzata del Buddhismo costituivano tre aspetti di una realtà che voleva sempre più concepirsi come unica (“le tre scuole sono una scuola” recita un noto detto cinese, adottato anche in Vietnam). Essendo, difatti, totalmente assente il concetto di “Religione rivelata” (arriverà solo, blandamente, con i missionari Gesuiti nel 1600 prima, e troverà una reale applicazione con il colonialismo francese nel 1800), il vissuto religioso vietnamita tende più ad una forma di integrazione reciproca di differenti stimoli, a seconda dei campi di applicazione: così, nella religiosità popolare ci si rivolge a Confucio per superare degli esami, mentre si pregano Bodhisatva buddhisti o la Dea Madre per assicurarsi una prole; nelle più raffinate teorizzazione si cercherà di trovare linee conduttrici che tessano fili di dialogo e convergenza tra realtà apparentemente contrastanti.

Non potendoci soffermare su ogni aspetto di una realtà così varia, tratteremo del confronto tra le due (tre, sotto certi aspetti) religioni che più hanno influenzato la cultura vietnamita, ovvero quella della Dea Madre e il Confucianesimo.

Sotto la dicitura “Religione della Dea Madre” sono compresi una notevole quantità di differenti forme di culto, che vanno da pratiche circoscritte a piccole realtà locali a miti fondatori e culti di Stato: in ogni caso questi culti rappresentano la religione autoctona più antica del Vietnam. Il Confucianesimo viene imposto, più che importato, dalla dominazione Cinese, durata circa dieci secoli (dal 111 a.C. al 939 d.C.): i riti e i principi confuciani infatti, rappresentando l’ossatura del potere politico dell’Impero Celeste, vengono giocoforza a strutturare la realtà socio-politica e culturale dei territori invasi, che risentono di una fortissima opera di sinizzazione. La terza religione a cui si è accennato è il Buddhismo, ma solo in quanto sincretizzato con i Culti della Dea. In Vietnam il Buddhismo arriva sia propriamente dall’India, sia dalla Cina stessa, in una forma già a sua volta sincretizzata con il Daoismo e le religioni popolari cinesi. In quest’ultima forma, a Nord, si troverà a svolgere un’analoga funzione di “protezione” e, talvolta, di sistematizzazione dottrinaria nei confronti dei culti autoctoni, andando a stringere con essi un sodalizio ancora perdurante.

Ma procediamo con ordine. Molti studiosi asiatici ravvisano una forte connessione tra la base economica della civiltà vietnamita (come della maggior parte del Sudest asiatico), ovvero la risicoltura, e il culto della Madre: così la troviamo rappresentata come Madre Terra (Mu Địa) a Láng Hạ (vicino Hà Nội), Madre dell’Acqua (Mu Thoi)) e Madre del Riso nella provincia di Phú Thọ. Le sue quattro figlie, poi, Nuvola, Pioggia, Tuono e Fulmine, hanno tutt’oggi un culto particolare nella provincia di Kinh Bắc. La risicoltura nelle zone pianeggianti si basa sull’acqua e su di un clima umido: da qui la forte enfasi sui fattori climatici “acquatici”. A margine ricordiamo che nel vietnamita contemporaneo uno stesso termine, “nước” significa sia “Paese” che “acqua”, laddove le lingue indoeuropee giocano sull’anfibologia di “Terra”.

Nelle zone più montuose, in cui si sono sviluppate società di cacciatori e raccoglitori, troviamo poi culti della Madre della Foresta e della Montagna (Mu Thượng Ngàn), come custode dalle e delle forme più ferine e orrorifiche della natura. In questa forma la Madre è circondata da serpenti e tigri, che la proteggono e agiscono come sua emanazione. Al Centro troviamo poi la Madre Yana dei Cham, Dea del Mare. Benché non sia stato ancora compilato un inventario completo delle dee legate a tale culto, le studiose Đỗ Thị Hảo e Mai Thị Ngọc Chúc ne hanno registrate ben 75.

In questo contesto economico-culturale, il ruolo assolto dalla donna-madre era preponderante, così come ci attestano le espressioni con cui la si connotava: ni tướng (capo degli affari “interni”, cioè familiari) e tay hòm chìa khóa (detentrice delle chiavi). La famiglia vietnamita costituisce, sin dalle origini, il fulcro dell’organizzazione del villaggio, che, a sua volta, è il principio fondante dello Stato: un antico proverbio vietnamita recita “la legge del re cede alla regola del villaggio”. Vedremo in seguito quanto questo contrasti diametralmente con il sistema imperiale di stampo confuciano.

Per comprendere il ruolo fondante della famiglia nel sistema delle interrelazioni sociali vietnamita, basti pensare che la totalità dei modi – assai numerosi – che traducono i termini “tu” ed “io” sono utilizzati, ancora oggi, anche per identificare le relazioni parentali. Così ci si rivolge ad un uomo anziano o molto importante chiamandolo “Ông”, stesso termine che si usa per definire il “nonno”; “”, con cui si appella una signora di una cera età, e quindi degna del sommo rispetto, indica la “nonna”, e così via, lungo una linea di lignaggio che racchiude tutta la popolazione in un’ipotetica grande famiglia. Quindi la posizione sociale rivestita all’interno della famiglia vietnamita non è di certo secondaria a quella della vita “esterna”, andando, idealmente, a coincidere con essa.

Ben altra posizione era, invece, assegnata alle donne dal sistema di valori confuciano. Tralasciando qui la questione della definizione di Confucianesimo come religione o filosofia, basterà qui sottolineare il fatto che l’etica confuciana permeava il senso stesso dell’Impero Cinese: l’imperatore, come Figlio del Cielo insignito del Tian Ming, ovvero il Mandato Celeste, era il vertice, la chiave di volta di un sistema di interrelazioni basato su di un’idea di sudditanza, speculare in Cielo e in Terra. L’obbedienza dovuta all’imperatore da un Ministro era la medesima dovuta da un figlio nei confronti del padre, che si perpetuava anche dopo la morte, nel culto degli antenati. La ricognizione di questi ultimi avveniva in linea maschile, e l’intera società era regolata dal più rigido dei patriarcati. L’etica confuciana vedeva, infatti, la donna come asservita ai dettami del sancong, ovvero “le tre persone da seguire”: padre, marito, figlio. Ciò significa che , in linea di principio, la donna non possedesse un suo status in quanto tale, ma che fosse totalmente dipendente dalla linea maschile della sua famiglia di nascita prima e di acquisizione poi. Il termine cong è stato spesso interpretato dagli studiosi come una dipendenza totale, sia fisica che psicologica, che avrebbe recluso la donna in una prigione di sudditanza e sottomissione, fatta di vessazioni e “piedi fasciati”.

Anche se fortemente misogina, l’etica confuciana non sembra, storicamente, potersi ridurre a questa bruta coercizione: una più grande flessibilità, data dall’appartenenza a classi sociali diverse, ad esempio, o al luogo di provenienza, permetteva alla donna di mantenere una propria dignità.

Dorothy Ko sostiene che il sancong sottraeva alla donna un’identità legale, formale e sociale, ma non la propria personalità e dignità soggettiva. Uomini e donne venivano così a trovarsi a vivere in due sfere di azione separate, definite rispettivamente “esterna” e “interna”, indicando con ciò sia una reale dimensione fisica di gestione della propria vita – l’interno della casa, del tempio per le donne, il mondo dei rapporti sociali, dei viaggi, del commercio, della gestione statale per gli uomini – sia una prospettiva interpretativa e di priorità. Ben diverso da ciò che accadeva in Vietnam.

La teoria delle due sfere d’azione pone in essere due universi paralleli, che, però, andrebbero letti non come una categoria assoluta di una presunta immobile “cultura cinese”, ma storicamente determinati e analizzati nel loro effettivo attuarsi in determinati contesti socio, storico-culturali.

Si viene così a osservare non più un universo dicotomicamente diviso, polarizzato, bensì un terreno di interazione assai più dinamico e fluido, in cui le due sfere interagiscono non solo ad un livello pratico, ma anche nella costituzione stessa delle reciproche identità.

Non si intende, beninteso, con ciò affermare una totale libertà della donna Han, pur sempre educata a conformarsi ad un codice di valori stabilito da uomini, in cui la somma virtù è costituita dall’obbedienza e la fedeltà, dalla castità e dal decoro; a cui veniva pur sempre preclusa una carriera politica reale, non potendo sostenere gli esami di Stato, e via dicendo. Si vuole, però, affermare un ruolo attivo femminile, anche nella gestione del sistema culturale stesso, che le vedeva creare degli spazi di libertà, senza mettere in discussione le regole etico-sociali, ma reinterpretandole, a volte proprio grazie ad una sostanziale accettazione di esse, riscrivendole tramite una pratica costante, ma personale.

Vogliamo, con ciò, affermare la validità di un “Nuovo Paradigma”che interpreti la storia delle donne in Cina, contrastando con una visione, come si è detto, forse troppo riduttivistica proposta dall’ottica del movimento del Quattro Maggio e da un pensiero femminista occidentale non critico, che, in ragione di una prospettiva sostanzialmente ideologica – che non si intende in alcun modo mettere qui in discussione – tralascia un piano di osservazione critico-storico.

Non era, ad esempio, prevista per la donna un’educazione letteraria, conditio sine qua non per l’accesso alle cariche pubbliche: oltre alle nozioni che ne avrebbero fatto una moglie perfetta, non era consigliato dall’etica confuciana di istruire la donna, per non fomentare in lei presunzione ed arroganza. Ma la storia letteraria cinese smentisce, per fortuna, l’assolutezza di questi dettami, regalandoci splendide pagine di scrittura femminile. Non solo. Proprio l’abilità di alcune donne di utilizzare codici letterari, culturali ed etici di stampo maschile, pur non provocando una modificazione sostanziale di questi ultimi, introdusse però concetti e forme differenti, come, ad esempio la valorizzazione del qing (sentimento, emozione) sia come tematica letteraria, sia come forma di una letteratura maggiormente focalizzata sull’introspezione.

Si tratta, qui, comunque, di una realtà minoritaria nel contesto Han: tali “eccezioni” letterarie trovavano luogo d’essere all’interno di famiglie altolocate, o comunque talmente benestanti da poter permettere di affrontare gli alti costi di un’educazione: difficilmente una contadina avrebbe potuto coltivare talenti poetici, tantomeno essere oggetto anche di culti di Stato.

 

Cosa accade, dunque, all’indomani della conquista cinese del Vietnam, quando ordini di valori così differenti si trovano a convivere nel medesimo territorio?

In realtà troviamo subito delle sacche di resistenza molto decise, sia, come ovvio, come ribellione militare, sia come mantenimento di una propria visione sociale: la Cina era comunque una potenza colonizzatrice, e benché foriera di una cultura più raffinata e complessa, che ha indubbiamente segnato la totalità delle istituzioni e della concezione del mondo vietnamita, è stata da sempre vista come il maggior nemico, nei confronti del quale occorreva mantenere una propria specifica identità, pena l’assimilazione totale.

E non è forse casuale che tale resistenza abbia una fortissima connotazione femminile. Tra i maggiori eroi che hanno capeggiato spedizioni militari anti-cinesi nel corso dei secoli vengono annoverate ben tre donne, assurte al livello di protettrici della patria e oggetto di culti di Stato: le due sorelle Trưng, che guidarono una rivolta tra il 40 e il 42 d.C.; e Bà Triệu, che, nel 248 d.C., si mise a capo di un esercito che conduceva cavalcando un elefante, come ci mostra un’ampia iconografia. Le sue parole sono diventate quasi leggendarie: “Vorrei cavalcare la tempesta, uccidere squali nel mare aperto, cacciare gli aggressori, riconquistare il mio paese, rompere le catene della schiavitù, e non piegare mai la mia schiena ad essere la concubina di un qualsiasi uomo”.

Anche da un punto di vista politico-amministrativo le donne vietnamite continueranno a mantenere diritti inconcepibili per la visione generalmente diffusa in Estremo Oriente: benché la struttura patriarcale, presente già dal 3 secolo d.C., fosse stata ufficializzata con la promozione del Confucianesimo a dottrina di Stato sotto la dinastia Lý (10 secolo), nel codice Hồng Đức promulgato dal re Lê Thánh Tông (1422-1497) leggiamo che nessun matrimonio poteva essere stipulato senza il consenso della donna. Anche dopo il fidanzamento ufficiale, aveva il diritto di rompere la promessa matrimoniale semplicemente restituendo i doni di fidanzamento, allorché il futuro marito fosse stato infermo, o avesse commesso un crimine, o avesse dilapidato i beni della famiglia. Se l’uomo l’avesse forzata al matrimonio, sarebbe stato punito con 50 frustate. Inoltre l’uomo non avrebbe potuto divorziare se lei si fosse ammalata o se fosse rimasta inferma, o se avesse commesso un crimine non tanto grave da essere discusso in un tribunale. Mentre la moglie poteva ottenere il divorzio se il marito si fosse allontanato da casa, eccezion fatta per le missioni ufficiali, per un periodo superiore a 5 mesi, o un anno se la coppia avesse già avuto figli. La donna sposata non poteva essere condotta in schiavitù anche se i suoi genitori si fossero macchiati di gravi reati e continuava a mantenere in diritto di ricevere eredità dalla propria famiglia di origine. Ogni eredità doveva essere equamente divisa tra figli e figlie, e in assenza di figli maschi, la primogenita avrebbe ottenuto, oltre alla propria quota, anche la parte riservata al culto degli antenati, di cui diveniva responsabile.

Quest’ultimo è uno dei tratti più significativi: il principio confuciano di ricognizione degli antenati seguiva un lignaggio rigidamente patrilineare che, come abbiamo accennato, manteneva e si manteneva nell’organizzazione dello Stato. Derogare da questo presupposto significava destrutturare l’intero apparato politico e, nel contempo, cosmologico. Benché, infatti, Confucio avesse affermato di non curarsi dell’oltremondano, il culto degli antenati sanciva il principio fondante dell’essere-nel-mondo confuciano. Ogni individuo aveva infatti senso non individualmente, bensì come parte di un continuum dato dal lignaggio, che legava il passato degli antenati al futuro dei discendenti. Per questa ragione in Cina l’assenza di eredi maschi era considerata una delle calamità più gravi che potesse colpire una famiglia (a tutt’oggi, nonostante il mutato assetto politico-culturale e i provvedimenti contro tale barbaro costume, è presente nelle campagne cinesi l’uso del ”bagno” alle neonate femmine, ovvero l’uccisione tramite affogamento subito dopo il parto), e la mancanza di pietà filiale uno dei crimini più deprecati.

Il lignaggio dell’Imperatore rispecchiava, poi, direttamente quello del Cielo: gli antenati imperiali erano le divinità celesti, nonostante i cambiamenti di stirpe motivati dal concetto del Mandato Celeste.

L’attribuire alla donna il diritto di essere responsabile del culto degli antenati voleva dire assegnarle un posto nevralgico nella costruzione del senso della propria cultura e dell’intero ordine cosmico.

Tale principio assume portate ancora più grandi ed evidenti nella sistematizzazione e nella nazionalizzazione del Culto della Dea Madre, attuatisi proprio quando il confucianesimo era ormai stato assimilato in Vietnam.

Prima di allora, infatti, il Culto era molto legato alle realtà locali e, come accadeva per il Daoismo religioso in Cina, conviveva con la religione ufficiale di Stato senza mischiarsi con essa, coprendo ambiti differenti (il soprannaturale, le problematiche quotidiane, ecc) nella forma di una dialettica pubblico/privato. Ma tale separazione, per quello che si è detto, era tutt’altro che netta in Vietnam: ciò determinò l’entrata a tutto diritto dei culti femminili nella più alta delle ufficialità, creando una varietà impressionante di modalità in cui si adorava l’aspetto muliebre.

Đoàn Lâm propone queste classificazioni, di cui denuncia anche la relatività, per fornire una sommaria comprensione di tale variegato universo:

 

1)      Origine. La Dea Madre ha origini differenti

a)       Sovraumane: come lo spirito della Catena montuosa Tam Đảo, la Madre Terra, La Madre delle Acque, la Madre del Riso, la Madre delle Foreste e delle Montagne, ecc.

a) Umane:tra queste personaggi storici, come le sorelle Trưng, Ba Triệu, Ỷ Lan (11 secolo), e mitici, come Âu Cơ, Madre del popolo e dello Stato vietnamita.

b) 

2)      Appellativi. Il modo in cui ci si rivolge alle divinità ne sottolinea il ruolo e la sfera d’azione.

a)       Thánh Mu, Dea Madre, la più antica e sovrumana manifestazione della Dea.

b)       Quc Mu, Madre della Nazione o Vương Mu, Madre del Regno, titolo assegnato a mogli o figlie di re che si sono distinte per meriti particolari tali da determinarne un culto.

c)       Bà Chúa, Nobile Signora, appellativo di una divinità femminile che si è distinta per particolari azioni, sia al livello locale che nazionale.

 

Si evince subito l’importanza politica di tali figure, in cui non si relega l’autorità femminile solo ad un livello mitico, aurorale, sottratto al divenire storico e, dunque, non più attualizzabile, ma ne estende il campo d’azione fino alla contemporaneità, inserendosi come ordito in quelle fitte trame che il sistema confuciano aveva tessuto per escluderla.

Già la storia di Âu Cơ, mito fondatore dello Stato del Vietnam, pone la donna in una posizione chiave nell’istituzione della regalità, quindi dello Stato.

Si narra che un uomo di incredibile forza e astuzia, di nome Lạc Long Quân, figlio del Re Drago che vive nel Mar Cinese Meridionale (Long significa, appunto, drago), sconfisse una serie di mostri che imperversavano nel territorio del bacino del Fiume Rosso, rendendolo inabitabile. Dopo aver reso coltivabile l’area coperta da dense foreste, uccise lo Spirito Pesce, consentendo ai pescatori di riprendere la loro attività; lo Spirito Volpe, dotato di nove code; infine lo Spirito Albero. Dopo di ciò istruì gli abitanti su come sostentarsi tramite l’agricoltura, e si ritirò nel suo palazzo marino, pronto, comunque, ad intervenire in caso di necessità. Giunse, poi, dal Nord un potente re, deciso a invadere il territorio finalmente vivibile. Insieme ad un copioso esercito, il re portò con sé anche la sua amata figlia, Âu Cơ, di straordinaria bellezza e intelligenza, la cui madre era un’immortale delle Montagne. Lạc Long Quân, rispondendo al disperato appello degli invasi, giunse nell’accampamento del re in un momento in cui questi era assente, sotto le spoglie di un bellissimo uomo. Ovviamente i due giovani si innamorano immediatamente, e decidono di fuggire insieme sulle montagne. Il re, scoperto il rapimento della figlia, si getta all’inseguimento insieme all’esercito, che viene però sconfitto dagli animali che la giovane coppia scaglia contro di lui, costringendolo a tornare a Nord.

Dopo molti anni di vita insieme, Âu Cơ rimane incinta: partorisce una sacca (o una zucca, secondo altre versioni) che dopo sette giorni si apre, scoprendo 100 uova. Da queste nasceranno 100 figli, che cresceranno con rapidità. La famiglia vive felicemente, fino a quando Lạc Long Quân sente la necessità di ritornare nel suo palazzo marino.

Sebbene viva negli agi e tra gli affetti, Âu Cơ soffre per la mancanza del marito, perciò decide di richiamarlo ai suoi doveri di padre. Dopo essersi incontrati su di uno scoglio, i due decidono di proseguire per vite separate, non riuscendo nessuno dei due a fare a meno della propria dimora e comprendendo di appartenere a mondi troppo diversi. Âu Cơ richiama, però, il marito ai suoi doveri quantomeno parentali: così 50 dei figli lo seguiranno al mare, mentre altri cinquanta vivranno con lei nella terraferma. Di questi ultimi, il primogenito diverrà il primo re del Văn Lang (l’area abitata dai Viet, nel Nord dell’attuale paese), con il nome di Hùng Vương, (re Hùng): egli dividerà il territorio in quindici regioni, ciascuna controllata da un governatore. Al figlio del re spetterà il titolo di Quan Lang, ed alla figlia quello di My Nương.

 

Questa storia è stata oggetto di molte interpretazioni, fornendo un repertorio assai ricco da un punto di vista antropologico e storico-religioso: la divisione dei figli adombra i diversi costumi della popolazione costiera e di quella dell’entroterra, pronti, comunque, a soccorrersi mutuamente in caso di pericolo. Ma per quanto riguarda ciò che concerne la posizione delle donne, vi è in questo mito un qualcosa di eccedente rispetto alla solita dicotomia femminino-naturale versus maschile-culturale presente in altre civiltà (o meglio, nella rilettura parziale che certa storiografia ha dato di altre civiltà). Âu Cơ non partorisce meramente dei figli che popoleranno una terra, ma genera ed educa una stirpe di re, la prima che trasformerà il territorio vietnamita in un regno, ovvero in uno Stato. Âu Cơ, quindi, dall’alto della montagna in cui si è ritirata, mantiene sia un’autorità naturale, generatrice, ferina; sia sovrumana, in quanto Tiên, essere sovrumano benché agente sulla terra in un preciso momento storico; sia umana, come madre di re che sono divenuti tali proprio in quanto suoi discendenti. Non è marginale, infatti, che Lạc Long Quân non abbia un culto analogo a quello della sua sposa, benché anch’egli genitore dei re vietnamiti.

Si rende qui, come in molte altre storie che, purtroppo, non abbiamo tempo di narrare, come la concezione della regalità e dell’autorità vietnamita differisca radicalmente dalla patrilinearità e dall’autoritarismo maschile di stampo confuciano. Ma sarà comunque il confucianesimo a dare un’impronta decisiva allo sviluppo della politica e della cultura việt. Nell’anno mille verrà fondata, a Thăng Long, l’odierna Hà Nội, la prima Università Nazionale, impostata secondo i dettami degli studi confuciani, concepita come preparazione per gli esami Stato, il cui superamento avrebbe dischiuso le porte alla carriera mandarinale. L’elite confuciana vietnamita tenterà continuamente di ricalcare il modello cinese, ma non vi riuscirà mai completamente: il femmineo non solo si manterrà nella cultura popolare come elemento imprescindibile, ma si insinuerà nelle maglie dell’organizzazione confuciana, riuscendo ad adire a titoli e posizioni inaspettati. E se nel Buddhismo i culti femminili troveranno un prezioso alleato, sincretizzandosi nel culto, ad esempio, della Bodhisatva Quan Âm, o in quello delle Quattro figlie della Dea, che diverranno Quattro Sante buddiste, solo per citarne alcuni, col Confucianesimo si manterrà sempre questa particolare forma di conflitto, in una lunga opera di rifiuto e accettazione che condurrà fino ai nostri giorni.

La produzione di miti, leggende, storie in Vietnam è di una sconvolgente ricchezza: la vis narrativa việt si esprime da sempre in canti, teatro, spettacoli di marionette sull’acqua, fino a giungere, in tempi più recenti, alla forma romanzistica. E anche qui vediamo che quello che viene ritenuto il maggior romanzo in versi vietnamita di tutti i tempi, il Kim Vân Kiêu, scritto nella seconda metà del 1700 da Nguyên Zu, ha come protagonista una ragazza bella, virtuosa e intelligente, Kiêu, che nella sua lunga storia di sventure riflette proprio questa strana dicotomia tra etica confuciana e autorità femminile. Sarà lei, infatti, ad incarnare la perfezione della pietà filiale, fino a degradare se stessa e rinunciare al suo amore, per poi risalire la china, nella migliore delle catarsi. Ma agirà sempre in quanto protagonista, dimostrando un’ ostinatezza e forza emotiva sconosciuti a gran parte dei personaggi maschili del romanzo.

 

L’escursus finora compiuto non rappresenta che un fugace sguardo rivolto ad una cultura ricca e densa di questioni di indubbio interesse, che ha avuto lo scopo di mostrare la complessità di una lotta culturale diversa da quella intrapresa in Occidente, le cui modalità, mutatis mutandis, caratterizzano ancora oggi la situazione femminile in Vietnam.

È a tutti noto il ruolo attivo delle donne durante la guerra indocinese, la loro forte azione nella scena politica (grazie anche all’opera dell’Unione delle Donne, organismo istituito al tempo di Hồ Chí Minh e ancora attivo) che le ha portate ad avere, ai giorni nostri, una presenza di oltre il trenta per cento nel Governo. Ma sono meno note le grandi barriere culturali che ancora permangono, eredità della misoginia confuciana, e che mantengono viva questa antica conflittualità all’interno della quale si costruisce l’identità femminile in Vietnam. Innumerevoli sono i casi documentati di eroismo femminile non solo durante la guerra, ma all’indomani di essa, quando molte donne si sono trovate a ricostruire una nazione, dopo un’esperienza devastante, in cui molti uomini le volevano nuovamente relegare in una posizione ancillare, facendo accettare loro, ad esempio, una condizione di bigamia sorta durante il conflitto. La politica del Đoi Mơi (rinnovamento), l’apertura economica e la globalizzazione sta prospettando al mondo femminile vietnamita delle nuove sfide, molte delle quali, a mio avviso, si giocheranno proprio nei termini di una nuova costruzione di identità, in cui la ferma flessibilità dimostrata finora sarà sicuramente un’arma vincente.