Le donne nella medicina cinese, con divagazioni

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Rosa Brotzu**, Giuliana Franceschini**, Valerio Sansone** Carlo Di Stanislao*

 “Che disgrazia, è il destino della donna,
Niente al mondo è meno vile d’ella.
I figli sono in piedi addossati alle porte,
Come degli dei caduti dal cielo.
I loro cuori lanciano una sfida ai quattro mari,
Ai venti, alle terre e alle migliaia di chilometri.
Ma la figlia, nessuno si rallegra della sua nascita.
La famiglia non realizza nessun guadagno con essa,
Quando cresce, si nasconde nella sua camera,
Nessuno la piange se sparisce dalla sua casa,
Repentinamente, come una nuvola che si scioglie dopo la pioggia.

Si morde le labbra,
Si curva e s’inchina e spesso manca di fierezza”

Fou Chwan

Se gli uomini hanno dominato l’universo delle parole, le donne hanno avuto potere sul mondo delle cose. La vocazione femminile per la medicina ha una storia lunga e affascinante, che ci riporta alle radici delle civiltà. Le donne sono da sempre le custodi dei segreti delle erbe e delle piante officinali, e sono per natura e sensibilità inclini alla cura. Sempre contrapposta alla scienza degli uomini, depositari della cultura dei libri e delle accademie, questa pratica femminile si caratterizzava per l’approccio empirico e l’espressione di conoscenze antiche e tramandate, dove accanto alle applicazioni di una medicina lecita coesistevano saperi più oscuri, quelli delle consuetudini proibite della contraccezione e dell’aborto, legate alla magia degli incantamenti amorosi e della fertilità. Qualche esempio? Circe e Medea, le due grandi maghe della cultura ellenica, usavano la conoscenza delle erbe per dominare e trasformare la realtà e la vita degli uomini a loro piacimento, ottenendo così quell’indipendenza così atipica nella società dell’epoca. Altro discorso per Metrodoro che in epoca bizantina scrisse il trattato Sulle malattie delle donne che ha aiutato a partorire molte donne, o ancora santa Redegonda che scelse di dedicarsi alla vita monastica per emanciparsi da un matrimonio imposto e dedicarsi alla cura dei bisognosi sfruttando le suggestioni della fede. Qui vogliamo limitarci al mondo della tradizione guaritoria sviluppatosi nell’antica Cina, ma per fare questo necessitano due parole, almeno, sul ruolo della donna nella Cina Tradizionale. La condizione della donna nella civiltà cinese è stata oggetto di grandi variazioni. In generale, possiamo affermare, che prima del periodo di Confucio, ella beneficiò di un certo rispetto. La Cina allora, era famosa per l’importanza che dava alla vita familiare. La ragione di ciò è da ricercarsi nel fatto che la madre cinese, costituiva l’asse attorno al quale, ruotavano tutti i membri della cellula familiare. La donna era, per di più, la sorgente dell’esistenza della famiglia e rappresentava, a questo titolo, l’autorità familiare. Nella Cina antica, infatti, l’individuo portava il nome della stirpe materna (matrilinea) e non paterna (patrilinea): il sistema d’identificazione era dunque matriarcale. Uno degli elementi che compongono il carattere cinese (ideogramma) significante “cognome” rappresenta la donna. Gli storici attribuiscono l’origine dei guai, per la donna cinese, all’avvento del regime feudale, durante il quale, la condizione della donna si deteriorò tragicamente. Abbassata ad un rango subalterno, la donna conobbe così tutti i tormenti dell’umiliazione e del disprezzo. Lo storico Will Durant spiega in questo modo il decadimento della situazione femminile: “Probabilmente il regime feudale cinese ha declassato la donna e ridotto il suo rango politico ed economico nel paese, perché il regime feudale stesso è fondato su di un sistema di vita rigorosamente patriarcale”. In effetti, i giovani, le loro spose con i bambini vivevano abitualmente con il primogenito della famiglia. I membri di questa, erano soggetti ugualmente ad un regime di comunità delle terre, e riconoscevano espressamente un’autorità totale al padre su tutta la famiglia e i suoi beni. L’autorità del padre si rinforzò ulteriormente con il Confucianesimo e divenne così quasi assoluta, in ogni campo. I cinesi considerarono allora la donna come merce che era possibile acquistare o vendere. Essa era debole e umiliata in tutti i campi. Peggio ancora, la sua nascita era considerata di malaugurio. I padri imploravano nelle loro preghiere che fossero loro dati dei figli maschi e una delle peggiori umiliazioni per una madre era di non possederne, perché essi erano più adatti al lavoro dei campi e più decisi nel combattimento. In più le figlie rappresentavano un peso per il proprio genitore giacché, così si pensava, dopo aver speso molti soldi e pazienza per allevarle, se ne andavano nella casa del marito.

L’uccisione delle femmine era praticata quando il loro numero superava quello del bisogno, in modo particolare se la famiglia si trovava in difficoltà. La figlia era sottomessa, secondo il momento a tre autorità: quella del padre, del marito e del fratello maggiore, in assenza del genitore, o anche del proprio figlio in mancanza del marito. In perpetua dipendenza dall’uomo, la sua vita scorreva nell’obbedienza, privata di tutti i diritti economici e sociali. Considerata come un minore a vita, non poteva rendersi indipendente e l’uomo le assicurava la sua tutela permanente in ogni campo. Non riceveva nessuna istruzione, consacrandosi totalmente ai lavori domestici. Doveva tagliare i capelli all’età di quindici anni e sposarsi a venti. Il padre sceglieva per lei lo sposo servendosi della mediazione di un sensale. Le donne vivevano nello spazio della casa a loro riservate e raramente si mescolavano agli uomini. L’attività sociale non le concerneva, fatta eccezione per qualcuna che apparteneva a quelle classi che tolleravano la promiscuità, in particolare quella delle cantanti e delle teologhe. La donna, quando si sposava, andava subito ad abitare dal marito e ne assumeva il cognome. Il suo dovere, in quel momento, consisteva nel servire i propri suoceri senza riserve, come prima era richiesto facesse per i genitori. La donna sposata si chiamava Fôu, cioè “sottomissione”, in riferimento alla totale sottomissione dovuta al suo sposo. Paradossalmente questi pensava a lei solo come alla madre dei suoi figli. Era fuori questione di onorare la sua bellezza o la sua cultura, si badava soltanto alla sua fecondità, alla sua capacità di accontentarsi e alla sua obbedienza. Il marito aveva inoltre l’abitudine di mangiare da solo, senza la moglie e senza i figli, salvo in circostanze speciali. Nel caso lo sposo morisse, la sua vedova non aveva il diritto di risposarsi, o peggio ancora, era possibile chiederle di farsi cremare in onore del proprio marito defunto.

È nella letteratura che troviamo le descrizioni della vita sociale, dei costumi e delle tradizioni tipiche di queste civilizzazioni. Gli storici hanno dovuto farvi ricorso per conoscere la miserabile situazione della donna. Ad esempio, gli scritti di Bân Houbân, donna dell’alta società che si espresse, in un messaggio diventato celebre, con parole di un’umiltà e sottomissione estrema, descrivendo così il vero livello sociale della donna: “Noi, le donne, occupiamo l’ultimo rango del genere umano. Siamo le più deboli creature dell’umanità ed è per questo che il nostro retaggio quotidiano è quello di compiere il lavori più vili… Valutate, con quale giustizia e verità, il codice familiare decide della nostra sorte, quando si esprime così: – Se una donna è unita in matrimonio ad un uomo che ama, dovrà dividere con lui tutta la sua vita, e se una donna è sposata con uno che non ama, dovrà ugualmente dividere tutta la sua vita con lui”. Così, quest’intellettuale dell’alta società, descrive l’umile situazione della donna, il suo livello, la sua debolezza e sottomissione al marito. Quanto alle donne appartenenti a classe sociali più basse, erano, sicuramente ancor più da compiangere.

Le concezioni teoriche di base nella cultura cinese rivelano che i due principi, Yin (quello femminile) e Yang (quello maschile), sono considerati alla pari e l’uno non può esistere senza l’altro. Il mondo delle “diecimila cose” è generato dall’unione tra yin e yang. I due elementi sono frammisti ed inseparabili. Questo rapporto dialettico tra i due elementi, tra le due polarità dell’universo, è presente in tutto il pensiero cinese, fino alle sue espressioni più recenti. Nei due principi opposti, eppure complementari, il pensiero tradizionale cinese ha visto la spiegazione del continuo divenire del mondo e di tutte le cose. I due principi, proprio perché complementari e necessari l’uno all’altro, sono concepiti su un piano di assoluta parità sostanziale.

Se questa sembra essere la base teorica, però in realtà nel corso della storia la donna ha subito, in Cina, segregazione ed oppressione. Una condizione le cui ragioni devono essere ricercate nelle basi della storia e della tradizione culturale e sociale della Cina. Il carattere che in cinese significa maschio consiste nell’unione di altri due caratteri, dei quali uno significa “campo” e l’altro “forza”. Suggerisce l’idea dell’impegno della forza fisica maschile nel lavoro dei campi e nell’agricoltura. Il carattere che significa donna è invece presente, quale elemento compositivo, in una serie di caratteri che hanno attinenza con il clan familiare, a cominciare da quello che significa “cognome” e che è costituito da “donna” e da “nascere”. La tranquillità, la pace, la sicurezza, è espressa, a sua volta, da un carattere che raffigura un tetto e da una donna. La sicurezza e l’ordine sono rappresentati quindi dal controllo che ha la donna su tutto ciò che è interno; la forza fisica dell’uomo invece si esercita all’esterno, nei campi. Ai due concetti di yin e di yang corrispondono, così, nei e wai, l’interno e l’esterno: si tratta di una bipartizione di sfere d’influenza che in Cina non ha mai cessato di esistere. Una volta realizzatasi questa bipartizione, la situazione si dovette cristallizzare sempre di più e, dato che le attività “esterne”, con il progresso delle attività economiche ad esse connesse, sono venute sempre più aumentando d’importanza, la donna, l’elemento yin al quale era riservato il nei, l’interno, si è trovata facilmente segregata, sottomessa, considerata come oggetto. I tentativi femminili di occuparsi di attività “esterne” quali la politica, dalle famose imperatrici dell’antichità fino al recente caso di Chiang Ch’ing, sono stati sempre condannati dai tradizionalisti ed in genere dall’opinione pubblica, anche se non tradizionalista, soprattutto perché rompevano un ordine costituito, debordando dall’ ”interno” all’ ”esterno”.Una volta verificatasi questa subordinazione femminile, troviamo in Cina i segni evidenti di essa in molti aspetti del costume: la donna vista come oggetto erotico al punto di essere costretta anche alla mutilazione fisica (piedi fasciati) per aumentare il suo richiamo fisico, l’infanticidio (in prevalenza femminile), la ricerca spasmodica dell’erede maschio, la prostituzione e la poligamia (per i ceti abbienti). Esempio chiaro di come la donna è considerata nella tradizione cinese, è quello relativo alla”fasciatura dei piedi”. La pratica di fasciare i piedi fu introdotta nell’uso un migliaio di anni fa, a quanto si dice, da una concubina dell’imperatore. La fasciatura dei piedi era un comodo mezzo per esprimere e rafforzare un nuovo concetto di castità femminile che la Cina era venuta sviluppando: una moglie casta doveva rimanere relegata in casa e non doveva farsi vedere nei campi e per la strada; e camminare con i piedi fasciati rendeva l’incedere penoso e difficile. Avere piedi così piccoli e deformati, causa di dolori costanti, limitava inevitabilmente il movimento, forzando a una segregazione domestica che escludeva la partecipazione della donna alla vita sociale. La fasciatura rivelava quindi la condizione economica di una famiglia: un uomo che aveva una moglie con i piedi fasciati provava a tutti che egli era abbastanza ricco da mantenere una donna con i suoi guadagni e che non aveva bisogno d’aiuto nei campi o nel negozio. Conseguentemente i piedi grandi, propri dell’altro sesso, erano indice di appartenenza ad una classe sociale povera. Serve e contadine avevano i piedi a grandezza naturale, come le donne delle minoranze etniche (soprattutto della Mongolia), mentre erano bendati quelli delle signore delle classi sociali più elevate, incluse naturalmente legittime consorti e concubine degli imperatori delle varie dinastie, a partire dagli Han (206 a.C. – 220 d.C.) – passando per la dinastia Tang, Song, Yuan e Ming – fino agli ultimi imperatori Qing (1644-1911).

Ufficialmente, con la nascita della Repubblica Popolare Cinese, nel `49, è stato vietato. L’usanza di fasciare i piedi, vivido simbolo della soggezione della donna, sopravvisse e fiorì per secoli. Il costume era parte integrante di una società patriarcale che inculcava nelle donne l’obbedienza. Una dama virtuosa accettava passivamente la sua condizione d’inferiorità intellettuale e rimaneva tagliata fuori dal mondo esterno. Opporsi alla fasciatura era cosa impensabile, significava ribellarsi alle tradizioni cinesi, che miravano a mantenere una netta divisione tra uomini e donne. Innamorarsi era considerato quasi una vergogna, un disonore per la famiglia; non perché fosse tabù – dopo tutto, l’amore romantico aveva in Cina una tradizione venerabile – ma perché si riteneva che i giovani non dovessero trovarsi esposti a situazioni in cui ciò potesse accadere, sia perché incontrarsi era giudicato immorale, sia perché il matrimonio era considerato innanzi tutto un dovere, un accordo tra due famiglie. Naturalmente era considerato altamente encomiabile che una donna si sottoponesse fin dalla prima infanzia al temuto dolore della fasciatura dei piedi con stoica rassegnazione e che trattenesse le lacrime per compiacere alla madre e conformarsi così ai canoni della bellezza sanzionati nei secoli. Il successo o il fallimento della fasciatura (fatta dalla madre stessa) dipendeva dall’abilità con cui veniva stretta la benda intorno a ciascun piede. La fascia, larga circa cinque centimetri e lunga tre metri, si applicava in questa maniera: se ne fissava un capo alla parte interna del collo del piede, veniva quindi fatta passare con forza sulle dita, a eccezione dell’alluce, in modo da ripiegarle sotto la pianta del piede. L’alluce non veniva fasciato. Si passava poi strettamente la benda intorno al calcagno in modo che tallone e dita fossero ravvicinati il più possibile. Si ripeteva quindi il procedimento fino a totale utilizzazione della fascia. Il piede delle fanciulle era soggetto a una forzata e continua pressione: lo scopo infatti non era solo quello di comprimere il piede, ma anche di curvare le dita, di ripiegarle sotto la pianta e di riavvicinare la pianta stessa al tallone fino al limite del possibile. Non solo alcuni uomini trovavano erotica l’andatura barcollante delle donne su quei piedi minuscoli, ma si dilettavano a giocherellare con i piedi fasciati, che erano sempre nascosti da scarpette di seta ricamata. Le donne non potevano togliere le fasciature neanche da adulte, perché i piedi avrebbero ripreso a crescere. Potevano solo allentarle temporaneamente di notte, e allora calzavano scarpette dalla suola morbida. Di rado gli uomini vedevano nudi i piedi fasciati, che di solito erano ricoperti di pelle putrescente e mandavano cattivo odore, una volta tolte le bende. Alla donna cinese dell’età imperiale si insegnava l’amore per la castità e il “loto d’oro” – cioè il piede piccolo – fu considerato un possesso esclusivo del marito. Perfino i parenti stretti evitavano di guardare i piedi rimpiccioliti; la loro manipolazione da parte dell’uomo era considerata un atto di grande intimità. La donna di buona educazione provava grande imbarazzo e vergogna – che poteva condurla sino al suicidio – quando ad accarezzarle il piede o a toglierle la scarpa era una persona diversa dal marito. Nei tempi antichi, quando era una pratica largamente diffusa e non osteggiata, la fasciatura dei piedi ebbe i suoi accaniti sostenitori, veri e propri amanti del loto d’oro.
Tra di essi spiccava un aristocratico di nome Fang Xun – probabilmente uno pseudonimo – che, autonominatosi “dottore del loto fragrante”, con esaltati slanci lirici elencò le componenti estetiche necessarie perché il piede rimpicciolito fosse degno di lode, riportò alcuni commenti critici e analizzò alcuni giochi che prevedevano per la cui esecuzione erano indispensabili le scarpine. Inoltre fissò nove categorie di bellezza, che comparò ufficialmente alle nove classi in cui era divisa la società cinese. Le prime tre erano: “Qualità divina”, “Qualità meravigliosa” e “Qualità immortale”. Vi era anche tutta una serie di termini per descrivere il piede, la scarpa e i suoi accessori. Si riteneva comunemente che il “loto d’oro” fosse lungo otto centimetri o meno, il “loto d’argento” da otto a dieci e il “loto di ferro” più di dieci. Le scarpe di queste donne dai piedi piccoli, confezionate su misura – di cotone per tutti i giorni e di seta ricamata per le ricorrenze – erano lunghe da 7 a 12 centimetri. La pratica di fasciare i piedi raggiunse la massima diffusione verso la fine della dinastia Qing (1644-1911), ma già allora erano evidenti i segni della sua decadenza. Le frequenti disposizioni imperiali contro il costume era la riprova della loro inefficacia. Nel sec. XVII i conquistatori mancesi della Cina furono i primi a combattere l’usanza che aveva ormai raggiunto la sua piena fioritura e andarono orgogliosi dei piedi grandi e naturali delle loro donne, differenziandosi così dai conquistati. Verso la fine del sec. XVIII e l’inizio del XIX, molto prima che giungessero in Cina le idee occidentali di uguaglianza dei sessi, i leader cinesi cominciarono a combattere per i diritti femminili, e ben presto la lotta si orientò anche contro la fasciatura dei piedi. Il movimento abolizionista incominciò ad avere l’appoggio dei critici cinesi progressisti, dei missionari occidentali e delle loro mogli. Questi ultimi, però, più che combattere per l’uguaglianza delle donne, si scagliavano contro l’innaturalezza del costume.
Il primo passo verso l’abolizione della fasciatura dei piedi fu un decreto imperiale del 1902 in cui si caldeggiava il divieto di fasciare i piedi durante l’infanzia; era questo infatti il sistema più umano per sradicare tale costume. Ma l’infelicità e l’amarezza causate alle donne adulte dall’interruzione della pratica erano tali che le misure adottate non sortirono gli effetti sperati. Venne proposta la moderazione per far sì che la fasciatura giungesse al suo epilogo naturalmente, senza causare inutili sconvolgimenti sociali. La tendenza a divorziare dalle mogli con i piedi rimpiccioliti venne bollata come atto barbarico, indegno d’una società civile e responsabile. Nell’agosto del 1928, il ministro degli affari interni emanò un’ordinanza articolata in 16 paragrafi contro la fasciatura e ingiunse a tutte le prefetture di farla scrupolosamente rispettare. Certo è che le donne con i piedi fasciati che vissero nel periodo di transizione soffrirono doppiamente. Nella prima fanciullezza dovettero sopportare il dolore e il disagio della fasciatura, solo per sentirsi dire, nella maturità, che le loro sofferenze erano state vane, dati i nuovi dettami della rivoluzione e i cambiamenti dei gusti estetici. Per il rivoluzionario cinese, lo sradicamento della pratica della fasciatura dei piedi e l’emancipazione femminile avevano il medesimo significato. L’eliminazione del costume era un obiettivo importante, ma difficile da raggiungere dato che le donne, relegate nell’intimità dei boudoir rimanevano inavvicinabili. La riforma conobbe i suoi primi successi nelle città e nei grossi centri. Verso la fine degli anni Venti la pratica della fasciatura era ormai in fase calante; ma la concezione maschile conservatrice, che vedeva nella donna un essere inferiore e un passatempo, era rimasta sostanzialmente inalterata. La donna cinese dovette attendere la definitiva ascesa al potere di Mao, per vedere distrutta totalmente questa pratica. In conclusione, si può dire che le donne cinesi per secoli sono state considerate inferiori, semplici fattrici di una discendenza possibilmente maschile. Durante tutta la storia le capacità della donna sono state imprigionate e bloccate da segregazioni, pregiudizi e sofferenze, ed anche l’emancipazione è stata forzata, passiva, diretta in modo sbagliato, con secondi fini e spesso pagata a caro prezzo.

Anche nella società occidentale e non solo in Cina c’è ancora molto da fare per arrivare alla parificazione dei diritti fra uomo e donna, che non deve essere un’uguaglianza in tutto, ma un’uguaglianza di fatto, che sappia tener conto delle differenze e ne faccia tesoro, non le sopprima; bisogna rafforzare i diritti per giungere a una piena integrazione. Chi lo sa se una Cina segnata dal comunismo, divisa tra tradizione, storia e corsa all’occidentalizzazione estrema riuscirà a dare alle donne questo spazio, questa libertà e questa forza che esse attendono da tanto. Come visto il ruolo della donna in Cina è sempre stato subalterno e tenuto ai margini della cultura e della scienza. Ma, anche in Occidente, la storia delle donne nella cultura e nella vita civile è stata una storia di emarginazione fino alla fine dell’Ottocento e in gran parte ancora fino alla metà del Novecento, almeno nei paesi industrializzati. All’aprirsi del XIX secolo si affacciavano le istanze di riscatto delle donne “senza diritti”, nel tentativo di eliminare tante ingiuste diseguaglianze sociali. Negli stessi anni, però, la scienza medica proponeva un’unica lettura delle differenze fisiologiche di genere, dando solida credibilità alla ideologia naturalistica che sosteneva la “naturale” inferiorità della donna, accettata nella banalità di un sentire da non mettere in discussione. In questo articolo si ripercorrono certi tratti della medicina che, quando spiegava la fisiologia della donna, si impaludava in ambiguità, ristagnava in vecchie posizioni scientifiche e agiva sul senso comune. Le spiegazioni fisiologiche delle differenze tra uomo e donna venivano in aiuto a quanti, nel turbinoso itinerario del pensiero emancipazionista, radunavano le forze necessarie per opporvisi e contrastare le pretese di trasformazioni. Aggirandosi nella letteratura d’epoca, si comprende che i medici, spiegando le “naturali diseguaglianze” giustificative del comportamento privato e dell’agire sociale femminile, subordinato all’uomo, vivevano una loro sorta di pace interna e di tranquillo conformismo. Nel fisiologismo ottocentesco si trovano le descrizioni anticipatrici di certe presunzioni che poi fiorirono più diffusamente con tutti quelli che misuravano crani o pesavano cervelli, con le convinzioni di Lombroso e di Moebius, visionario propagandista della “assoluta sterilità mentale” della donna. In molti paesi in via di sviluppo, salvo rare eccezioni, le donne sono ben lontane non solo dall’aver raggiunto la parità con l’altro sesso, ma anche dal vedere loro riconosciuti i più elementari diritti di esseri umani. Quali possono essere le cause di questa situazione che risale indietro nei secoli? Forse già nelle epoche preistoriche, la forza fisica necessaria per sopravvivere, le numerose gravidanze e il lungo periodo di allattamento e di cura della prole hanno portato alla differenziazione dei compiti. Per secoli le donne che potevano avere accesso all’istruzione erano quelle rinchiuse nei conventi. Forse per questo le donne che sono emerse nel passato erano soprattutto umaniste, pittrici, scrittrici, poetesse, ma molto più raramente scienziate. Infatti chi ha attitudini artistiche o letterarie può emergere anche senza una preparazione specifica, mentre le scienze, e in particolare le cosiddette scienze “dure” come matematica e fisica richiedono una preparazione di base, senza la quale è quasi impossibile progredire. Solo quelle poche favorite dall’avere un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere le proprie cognizioni, potevano farsi una cultura scientifica. Basta ricordare che ancora all’inizio del XX secolo in molti paesi europei alle ragazze era precluso l’accesso alle università ed anche ai licei. Perciò le donne, escluse dalle università, escluse dall’educazione scientifica, sono emerse là dove potevano emergere. Così è sorto il pregiudizio secondo cui le donne sarebbero più adatte alle materie letterarie e linguistiche che non a quelle scientifiche. Le stesse ragazze crescono in mezzo a questi pregiudizi e se ne lasciano influenzare, e scelgono le facoltà umanistiche anche contro le loro naturali inclinazioni, contribuendo così a rafforzare i pregiudizi stessi. Comunque oggi cresce sempre di più il numero di ragazze che scelgono materie ritenute tipicamente maschili come ingegneria. Malgrado le difficoltà incontrate, non sono poche le scienziate che hanno portato importanti contributi allo sviluppo della scienza. La storia ci tramanda i nomi di alcune famose scienziate. Ce ne furono una ventina nell’antichità, fra cui emerge il nome della matematica Ipazia; solo una decina nel medioevo, soprattutto nei conventi, quasi nessuna tra il 1400 e il 1500, 16 nel 1600, 24 nel 1700, 108 nel 1800. Oggi solo nel campo dell’astronomia sono più di 2000, ed in ogni campo dei sapere le ricercatrici universitarie superano il 50%, con punte dell’80% nelle facoltà umanistiche, del 60% in quelle di scienze biologiche, dal 30 al 40% nelle scienze abiologiche, più dei 50% nelle matematiche, mentre sono ancora al di sotto dei 20% in facoltà come ingegneria e agraria. Fra le matematiche va ricordata Ipazia (370-415 d.C.), figlia del matematico e filosofo Teone. Diventò capo di una scuola platonica di Alessandria d’Egitto frequentata da molti giovani. Fu uccisa barbaramente da monaci, forse anche perché tanta genialità matematica in una donna poteva sembrare indice di empietà. Nel 1700 Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) fu la prima donna ad essere chiamata a ricoprire una cattedra universitaria, all’Università di Bologna, e Sophie Germain (1776-1831) fu una riconosciuta esperta di teoria dei numeri e di fisica. Nel XIX secolo ci sono numerose grandi matematiche, fra le quali emergono soprattutto Sofia Kovaleskaja (1850-1891), professore all’Università di Stoccolma, e Emmy Noether (1882-1935), fondatrice dell’Algebra moderna. Fra le matematiche italiane di questo secolo ricordo Pia Nalli (1866-1964) professore ordinario di analisi matematica all’università di Cagliari e poi di Catania; Maria Pastori (1895-1975) ordinario di Meccanica Razionale all’università di Messina, Maria Cibrario Cinquini (1905-1992), ordinario di Analisi matematica a Cagliari e professore emerito dell’università di Pavia, Maria Biggiogero Masotti ordinario di geometria presso il Politecnico di Milano. Fra le fisiche e le astrofisiche vanno ricordate, naturalmente Marie Sklodwska Curie (1867-1934), premio Nobel per la fisica nel 1903 e per la chimica nel 1911, e prima donna professore alla Sorbona e la figlia Irene Curie (1897-1956) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1856) premio Nobel per la chimica nel 1935; Lise Meitner (1878-1968) che scopre il fenomeno della fissione nucleare ed è la prima donna ad avere una cattedra universitaria di fisica in Germania; Marie Goeppert Mayer (1906-1972) premio Nobel per la fisica nel 1963 per la sua teoria sui “numeri magici” che determinano la stabilità degli atomi; Wu Chieng-Shiung (1913-1997), professore di fisica alla Columbia University, scopritrice della non conservazione della parità nelle interazioni deboli. Fra le astronome e astrofisiche va ricordata Caroline Herschel (1750-1848) che insieme al fratello William iniziò lo studio fisico del cielo, occupandosi di quello sfondo di stelle fino allora considerato poco più di uno scenario su cui si muovevano i pianeti. A loro si deve lo studio delle nubi interstellari, la scoperta di regioni apparentemente prive di stelle, che oggi sappiamo essere regioni ricche di polveri che ci nascondono le stelle retrostanti, e lo studio della distribuzione delle stelle sulla volta celeste. Maria Mitchell (1818-1889) è stata la prima famosa astronoma americana, docente di astronomia al Vassar College e direttrice di quell’osservatorio, che ha preso il suo nome. Un terzetto di astronome americane che hanno legato il loro nome a scoperte e ricerche fondamentali per la moderna astrofisica sono Henrietta Swan Leavitt (1868-1921), Anne Cannon (1863-1941) e Antonia Maury (1866-1952). La prima scoprì la relazione che lega il periodo di variazione di luce di una classe di stelle variabili dette “Cefeidi” al loro splendore assoluto, facendo di questa classe di stelle uno dei migliori mezzi per la determinazione delle distanze delle galassie. Alla seconda si deve la classificazione degli spettri di più di 225.000 stelle; il risultato del suo lavoro è raccolto nel poderoso catologo “Henry Draper” (dal nome dei finanziatone dell’opera) che è ancora oggi largamente consultato. La terza scoprì alcune caratteristiche degli spettri stellari, che permettevano di stabilire lo splendore assoluto di una stella, e quindi – misurato lo splendore apparente – risalire alla distanza. Essa ha anticipato di almeno due decenni il metodo di determinazione delle distanze dal semplice studio dello spettro. Una grande astrofisica, iniziatrice dei metodi di studio delle atmosfere stellari e della determinazione della loro composizione chimica è stata Cecilia Payne Gaposchkin (1890-1979). Iniziatrice dello studio dell’evoluzione chimica della Galassia è stata una giovane astrofisica, Beatrice Tinsley, scomparsa prematuramente una ventina di anni fa. Oggi sono numerosissime le astrofisiche di fama internazionale che guidano gruppi di ricerca nei più svariati campi, dalla fisica stellare alla cosmologia, e delle più svariate nazionalità. Si può stimare che in tutto il mondo rappresentino dal 25 al 30% di tutti gli astronomi e astrofisici. Altrettanto numerose sono le scienziate nel campo della biologia e delle scienze mediche, molte insignite di premio Nobel. Per tutte ricordiamo Rita Levi- Montalcini (1909) premio Nobel per la medicina nel 1986. Sebbene oggi i contributi delle donne alla scienza vengano riconosciuti, resta il fatto che le scienziate per emergere devono generalmente lavorare di più dei loro colleghi e devono ancora superare numerosi pregiudizi, che, contrariamente a quanto si crede, sono maggiori nei paesi anglosassoni che non in quelli latini. Torniamo alla Cina e alla Medicina di quel Paese. Certamente la più celebre fra le donne-medico nella tradizione cinese fu Bao Gu, moglie dell’alchimista Ge Hong, nota come “la dea della medicina”, la cui tomba si trova in un tempietto bianco, nella Città Proibita, a Pechino. Fu una famosa esperta di moxibustione e dermatologia, viaggiò in luoghi lontani, fu una ricercatrice assidua e scrisse, col marito, il testo Shijou Fang (施芳柔) o “Prescrizioni Tardive”. Nata nel Guangdong, nei pressi delle montagne Luofu, ivi studiò alchimia taoista (sotto la guida di Bao Liang) e, successivamente, si perfezionò in arti guaritorie viaggiando nelle città di Nanhai, Huiyang e Boluo. Ideò la combinazione di erbe per moxa nota come Hongjiao ed un tempio a lei dedicato, dettio Palazzo Sanyuan, si trova ai piedi del monte Yuexiu nel Guangzhou. È portata ad esempio dell’apertura della Medicina cinese anche alle donne. Ma altre grandi donne hanno attraversato la storia della Medicina Cinese, come Yi Shuo, della dinastia Han, Zhang Xiaoniangzi, della dinastia Song e Tan Yunxian, vissuta nel periodo Ming. Prima giudicare con dura severità la tradizione cinese, va comunque ricordato che, in Europa, solo la Scuola Medica Salernitana conferirà (1200-1300) la Laurea anche ai Medici appartenenti al gentil sesso e più tardivamente che in Cina.

 

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